mercoledì 14 gennaio 2009

Per una nuova provincia letteraria

I libri scritti in provincia, osservava Renato Serra ̶- per eccellenza “lettore di provincia”, immerso nella calma apparente, nella quiete mobile e segretamente tumultuosa di una “provincia europea”, e insieme di un'ideale e fluida patria dello spirito -, hanno un loro particolare, inconfondibile respiro -̶ un loro ritmo, una loro movenza, un loro passo dilatati, indugianti, pausati, una loro misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali.

Del resto, come osserverà a distanza di anni Pavese in La letteratura americana, «senza i suoi provinciali una letteratura non ha nerbo» ̶- è priva di spessore e di vigore una letteratura che non abbia in sé, come forza vitale, l'ingenuità consapevole, la straniante e sottilmente ironica distanza di uno sguardo marginale e periferico, e per questo difforme, impregiudicato, immune da ogni omologazione.

L'America epica, mitica, densa di archetipi e di simboli ancestrali, fissata sulle pagine di Melville, di Faulkner, di Saroyan -̶ e, più di recente, quella franta, contraddittoria, postmoderna di Carver conciso e tagliente, di De Lillo fluviale e allucinato, di Pynchon e di Doctorow ossessionanti e vorticosi ̶- confermano l'essenzialità e la vitalità di questa linfa locale e remota.
Ancora Pavese parlava, nel Mestiere di vivere (3 giugno '43), di una assoluta «classicità» capace di conciliare e di fondere gli ultimi americani con Virgilio, con Vico, con D'Annunzio, fino a delineare una sorta di «etnografia preistorica», pur mediata e filtrata dalla consapevolezza culturale.

Certo questa lontananza mitica, questa primigenia vicinanza alla natura ̶ questa, si direbbe quasi, schilleriana e leopardiana “ingenuità” ̶ paiono mal conciliarsi con l'immaginario metropolitano e tecnologico della società postmoderna, che tutto brucia, consuma ed oblia con la velocità implacabile dei processi virtuali, della comunicazione digitale, della sequenzialità frenetica e serrata insita nella dimensione massmediatica.

Eppure, paradossalmente, proprio l'inattualità assoluta e provocatoria della dimensione provinciale può, forse, nella realtà di oggi, salvaguardare la letteratura (ove questa sia consapevole della sua fatale, essenziale marginalità, della sua virtuosa e deliberata estraneità agli interessi e alle inclinazioni predominanti) dal rischio della contaminazione, della strumentalizzazione, della reificazione (solo gli isolati, dirà Montale con acuto paradosso, davvero parlano e comunicano in modo libero e autentico).

È inutile che la letteratura continui, con una sorta di generosa ed autolesionistica umiltà (o forse, al contrario, di segreta, frustrata e pervicace ambizione, di soffocato e disperato spirito di rivalsa), a tentare di dialogare con una società che, quando non può mercificarla, la deride e la rigetta. Meglio, allora, che essa accetti, e anzi rivendichi, la propria lontananza, la propria aseità, addirittura il proprio aristocratico provincialismo ̶- che potranno tradursi in raccoglimento riflessivo, scavo meditativo, cura formale, lavorio stilistico.

Dalle profondità della sua tana, come il dostoevskijano «uomo del sottosuolo» o il Kafka dei Frammenti postumi, lo scrittore «tenderà l'orecchio al silenzio», ascoltandone e carpendone, in assoluta purezza, la voce segreta, le nascoste risonanze, i sensi celati. Come mostra ancora Kafka, quello delle lettere stavolta (a Max Brod, 26 giugno 1922), la campagna, la provincia, lo spazio aperto, dilatato, decentrato, la natura ancora in parte abbandonata a se stessa, possono spalancare come un vuoto inquietante, una necropoli labirintica e desolata ̶- «un cimitero», una selva esangue o una ridda fantasmatica di forme e parvenze «che crescono sopra i cadaveri»; eppure, solo le stanze vuote, l'appartamento nudo, la quieta e remota residenza di Marienbad possono offrire asilo allo scrittore «immerso nella lettera e sperduto nell'universo», immune dalla contaminazione dei «rapporti incestuosi dei corpi senza sostegno» (a Milena, 8 luglio 1920).
(Esponente, Kafka, è stato detto, di una “letteratura minore”: non nel senso di una letteratura che si esprima in una lingua minoritaria, ma che si ritaglia, all'interno di un contesto culturale e comunicativo vasto e coeso, pur se sfaccettato, come quello della Mitteleuropa, un suo esiguo spazio vitale, un suo limitato, sotterraneo, eppure prezioso, lembo di esistenza, per quanto precaria, di pur tormentosa e angosciata espressività).

La provincia di Kafka non è diversa da quella surreale, metafisica, allucinata di D'Arzo e di Delfini («On se souvient de Baudelaire la nuit / dans le train en traversant notre Émilie / Les soirs illuminés par l’ardeur du charbon...»),di Savinio e di Landolfi, di De Chirico e del Morandi metafisico - ̶ quella stessa, se si vuole, che ritroveremo in certo “cinema di poesia”, ad esempio nel Fellini della Voce della luna.

Né la provincia è solo fuga dal mondo, evasione, illusione. Essa è anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico -̶ se è vero che, come osservava Bianciardi in Il lavoro culturale, «I fenomeni, sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali» ̶ e che, ben prima, fra Sei e Settecento, da Pascal a Montesquieu a Voltaire, proprio lo sguardo defilato, remoto, ironicamente e sottilmente ingenuo, paradossale, stranito, della provincia (fosse essa storica e politica oppure ideale, etica, o addirittura cosmica e fantastica come, appunto, nelle estrose allegorie voltairiane) metteva impietosamente in luce le storture e le corruzioni del centro.

Eppure, proprio perché appartata, defilata, “altra”, in certa misura sottratta, nella sua aseità, allo stesso fluire del tempo e della storia con le loro contingenze e le loro partizioni, la provincia culturale -̶ sempre, per così dire, sorvolata e sfiorata dalle grandi correnti del pensiero, dal fluente susseguirsi e inanellarsi di atmosfere, contesti, scenari -̶ può più facilmente serbarsi immune dagli irrigidimenti e dalle schematizzazioni dei manifesti e dei proclami, delle definizioni univoche, dell'ideologia codificata, della morale costituita e condivisa.

Può apparire contraddittorio che l'idea, o l'utopia, di una nuova provincia letteraria siano ora affidate alla grande rete -̶ ad una realtà di per sé globale, universale, onnicomprensiva, in cui la distinzione stessa di centro e periferia sembra essere annullata. Eppure, anche la rete (e nello specifico quella dei siti di carattere letterario e culturale) sembra in definitiva, dopo i generosi e candidi entusiasmi iniziali, riprodurre le stesse gerarchie, rigide ed impietose, che governano gli spazi e i poteri culturali nel mondo dell'editoria, della comunicazione e del commercio tradizionali. Il “traffico” virtuale si concentra intorno ad alcuni grandi nuclei, onnipresenti e tentacolari, che dominano i motori di ricerca calamitando a sé e monopolizzando la quasi totalità dei possibili “contatti”. Sembra emergere, anche in quest'ambito, quella tendenza alla centralizzazione, al trust, al dominio dispotico che mina, anche sul piano culturale ed editoriale, tutta la realtà globalizzata.

La blogosfera diverrà, allora, un sottilissimo ed innervato reticolo, una immensa, dispersa ed incontrollabile selva di province, di margini, di periferie, di realtà minori, defilate, umbratili, non gerarchizzabili, ma dalle quali possono di tratto in tratto, quasi per un'illuminazione miracolosa, per un ardito e solitario, gratuito ed assurdo, prodigio dell'intelletto, emergere -̶ come scogli d'alabastro da uno sterminato mare grigio -̶ parole autentiche, essenziali ed inimitabili, di là dalla mischia di tante sterili polemiche e di tanti sfoghi solipsistici e astiosi.

La letteraturizzazione della vita profetizzata genialmente dallo Svevo dei Diari (e non è certo casuale questo mio frequente citare testi di per sé stessi periferici, frammentari, collaterali ̶- essi stessi in certo modo, e per così dire, “province” nel mondo concettuale di uno scrittore), quel processo per cui metà dell'umanità sarebbe stata impegnata a scrivere, l'altra metà a leggere ciò che quella avrebbe scritto, sembrano essersi finalmente attuati ̶ ma non più sulle pagine fitte e profondamente solcate, odorose e sussurranti, dei diari, bensì nell'immaterialità della rete.
Il Libro del mondo (al quale tutto, diceva Mallarmé, deve aboutir, “far capo”) si snoda e si scompagina («si squaderna», dice Dante) sotto le nostre dita e davanti ai nostri occhi stanchi e gremiti, ai nostri sguardi frettolosi o abbagliati. E tutto avviene nell'immaterialità, nella fluida e liquida “impermanenza” dello spazio virtuale, nel non-luogo del mondo digitale (ancora Mallarmé: alla fine di tutto, forse, alla resa dei conti, nel Giorno dell'Ira, quando si aprirà davvero il Libro ultimo ed eterno, a cui nessun segno, nessuna traccia, nessuna memoria possono sfuggire, «rien n'aura eu lieu que le Lieu», lo spazio della poesia attesterà nuovamente se stesso nel suo non significare nulla all'infuori di Sé ̶- e forse tutto sarà pronto per ricominciare da zero, dalla parola rifondata e ricomposta, uguale e differente, antico e nuovo, «vasto e diverso / e insieme fisso», vuoto d'ogni lordura, nel perenne rito dell'eterno ritorno).

La filosofia sa da secoli (ben prima della rivoluzione digitale) che l'immaginazione, tanto nel dominio del pensiero puro, argomentativo, della ratio ratiocinans, quanto in quello più corposo e sensuoso della creazione artistica, della mitopoiesi, della costruzione fantastica, maneggia entia virtualia, e che la trascendenza, il divino, l'indicibile, possono essere afferrati, o meglio accarezzati, da un tactus virtualis che nulla ha a che vedere con la mera empiria, con la concretezza e l'immediatezza della bruta esperienza sensoriale.

Per quanto la smaterializzazione, la volatilizzazione del testo provocate dalle scritture in rete (scritture lontane dalla stabilità rassicurante, dalla presunta perennità, infine dal millenario, quasi magico prestigio, propri del Libro) possano creare in molti umanisti (si vedano ad esempio le perplessità avanzate di recente da intellettuali come Umberto Eco o Giuseppe Conte) un non del tutto ingiustificato senso di smarrimento, e quasi l'impressione di una deriva, di una dissoluzione, di un naufragio nel vuoto e nell'infondato, insomma di una perdita di centri, di coordinate, di punti di riferimento, non è forse del tutto impossibile che proprio la smaterializzazione, l'evaporazione, per così dire, nella purezza immateriale, nella volatilità incorporea ed inafferrabile delle cifre e dei codici digitali rappresentino l'esito estremo, il compimento ultimo e più coerente, del dire poetico e letterario: un dire di per sé fatto, come affermava Contini commemorando Spitzer, di materiali che non durano, e svaporano (di «tinte», per citare il Montale più mallarmeano, in cui la carne -̶ l'«incarnat léger» delle Ninfe dell'Après-Midi d'un Faune ̶- si dissolve, e che trapassano, «si esauriscono» e si spengono le une nelle altre, in una catena di dissolvenze, in un iridato inanellarsi di progressivi annullamenti); dal che deriva infine la sublimata, platonica, tutta estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici.

Certo, la forma digitale e virtuale dei testi rappresenta l'anticamera della dissoluzione, della smaterializzazione, della solutio dei contenuti dal mezzo, dell'anima dal corpo -̶ insomma la soglia, a ben vedere, della morte ̶- ed era ancora Eco, nel suo pacato ed illuminante dialogo con il Cardinale Martini, a suggerire la pensabilità dell'anima immortale proprio attraverso il paragone con gli «immateriali algoritmi» della comunicazione elettronica.

D'altro canto la poesia, lingua morta per definizione, non aspira forse a risolversi e dissolversi nella «pura morte» dei simbolisti, nella «nouvelle mort / plus précieuse que la vie», di cui parlava Valéry -̶ non è lo scrittore, diceva ancora Kafka nelle lettere a Milena, «già morto in tutta la sua vita», votato ad una vita «più dolce di quella degli altri» e, insieme, ad una morte «tanto più spaventosa»?

E la provincia è, ancora una volta, il regno della morte in vita, delle «fiabe defunte» (per i Crepuscolari così come per molte delle più mature e consapevoli fra le giovani esperienze narrative, su tutte quella di Simona Vinci). Tale era già per gli scrittori della tarda antichità (così simile a questa nostra era di “tardo capitalismo” e di imperi in declino, a questo nostro ̶- per riprendere una citazione abusata ̶- «Impero alla fine della decadenza»), quando Sant'Ambrogio contemplava incupito i «cadavera urbium» disseminati nella Padania, Rutilio Namaziano le fortezze ridotte a «loca diruta» ̶- diruti, decaduti e frammentati, come il sapere in quest'era digitale e wikipediana ̶- come la scienza, diceva Eliot e ripete oggi Morin, persa nel sapere, e il sapere frantumato in miriadi di conoscenze irrelate, centrifughe, in se stesse, forse, prive di senso.

Poco prima, Traiano e Plinio il Giovane potevano ancora illudersi di decantare la «perpetua quies» della provincia -̶ un'«infanzia minimale», dice Zanzotto, poeta di paesaggi arcadici e insieme martoriati, obliati eppure presenti e vissuti, «che sfuma nella intrauterinità», e che è «ambigua» e «terrificante», «ferma, lontana, pericolosa, bloccata» -, l'avvolgente, acquatico, materno e insieme ferale, grembo della terra che si raggiunge dopo aver abbandonato il centro e alla quale infine, più ancora che alla madrepatria, si torna, dopo tante peregrinazioni, per rendere alla natura ciò che è suo -̶ per ricomporsi nell'ultima pace, spentesi ormai ogni storia e ogni voce.


                                                                                  Matteo Veronesi

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