mercoledì 26 ottobre 2011
Elisabetta Brizio, “'Ceci n’est rien, Ceci n’est pas rien'. Nota a 'Sei sestine su nulla' di Matteo Veronesi"
Ermetiche, ipnotiche, di difficile caratterizzazione, stranianti fin dal titolo, queste Sei sestine su nulla si snodano in sei enigmatiche sestine, ognuna delle quali presenta, come da regola, un congedo di tre versi. Ossessivamente, lungo tutti i versi risuonano le stesse parole-rima – che per la loro ricorrenza assumono valore di parole-chiave: «nulla», «morte», «silenzio», «tempo», «fine», «vuoto» – in ordine variato secondo la retrogradatio cruciata. Ma al parallelo fonico non consegue l’istituzione del corrispettivo semantico, nel senso che intendimento dell’autore non sembrerebbe quello di voler moltiplicare la risonanza dei termini pseudo-emblema o di fissarne le diverse gradazioni attraverso una ossessiva ripetizione, come potrebbe accadere anche con un prolungatissimo calembour. Né le parole-chiave sono connotatori del testo, ma topoi niente affatto archetipali e solo graficamente mutanti di una nihilitas senza ulteriori implicazioni, denominazioni straniate, dunque svincolate tanto dall’emblematismo segnico che da ogni loro nesso referenziale.
Quello che fa apparire inconcepibile quest’opera, benché concepita, è in primo luogo l’incongruenza tra il titolo – in particolare, tra la preposizione «su» che figura nel titolo – e il testo, un testo altamente strutturato, di duecentotrentaquattro versi che con disposizione tutt’altro che antisistemica si intrattengono esasperatamente sul labilissimo consistere del non luogo, del non tempo e del non senso. Instabile essere che l’autore sembra formalmente esaustivare e far evolvere secondo una logica strutturale, vista la rigorosa ripartizione dell’opera in versi regolarissimi, come pure il suo svolgimento nell’avvicendarsi di componimenti che esteriormente paiono tematizzare ognuno un’idea a sé (malgrado i singoli titoli figurino, emblematicamente, tra parentesi, a rimarcare la assoluta marginalità e la fallacia di ogni variante di trama), dato che è un’opera titolata, pertanto vettorizzata verso qualcosa che tuttavia alla fine si elide e non si rivela: non c’è elemento che sfugga alla unitonale Stimmung di questa verseggiatura che elude ogni possibilità di focalizzazione.
Sei sestine su nulla non traduce l’intenzione di solennizzare la bella morte, né costituisce un’ode letificante al nichilismo o una allusione a una fondazione estetica non attuabile in pieno, o il documento di un itinerario orfico privo di speranza di retrocessione. Le parole qui non parlano di nulla, ma parlano – senza categorizzarlo – del nulla, e dal nulla, dall’altezza oscura del non essere – de nihilo, de nihilitate loquuntur. E il punto di vista inevitabilmente non trattiene quasi alcunché di umano, sebbene alcuni lemmi od occasionali locuzioni, tendenzialmente sempre sul segno di smaterializzarsi e di uscire dai confini del soggettivismo verbale, rimandino alla vita e a un soggetto lirico evanescente, sofisticato, esitante sofista di facciata, abissalmente distante dall’esperienza, stuporoso in false anafore e naufragato nella pervasività uterina e oceanica di un nulla che si fa argomento. Un io lirico non egoriferentesi e carente di consistenza identitaria, ma con ciò non del tutto estromesso ed eclissato (giacché esordisce quale soggetto della volontà, si percepisce in qualche isolato possessivo e in sequenze dialogizzanti, per poi estinguersi insieme al testo), seppure scarsamente identificabile, il quale – in assenza di determinazioni ideologiche o psicologiche che lo qualifichino – attraverso il suo accortissimo oblio umanizza lievemente, già dal suo esordio, il contesto falsamente epico-cosmogonico con un argomentare di remote arcanità che perde irrevocabilmente spessore negli anticlimax dei congedi.
Evidenti sono l’indeterminazione e la conseguente svalutazione dei dati sensibili e degli eventi laterali, in virtù dei limitatissimi riferimenti esterni, i quali rientrano peraltro nella dimensione accessoria dello sfondo; scarso risalto e pressoché alcun rilievo cromatico assumono gli essenzialmente aniconici referti iconografici, deprivati della loro pregnanza a vantaggio della condizione dell’inorganico, fattori che non concorrono comunque alla delineazione di una forma di essere declinante nel nulla, e meno ancora paiono esser assunti per l’edificazione di un testuale differimento omofonico. E nel discorso monologico di un soggetto lirico che si autosorveglia nessuna risposta – o unicamente qualche simulacro di riscontro, o una ipotesi di risposta formulata nel corpo della stessa domanda – ricevono le interrogazioni che compaiono nella terza sestina, che con qual certa indifferenza si volgono alla ricerca di un contenuto e di una trama plausibili, quasi stupefatte rivelazioni tautologiche, che restano sospese e si dissolvono nel glaciale silenzio del complessivo milieu estensivamente nullificante.
L’idea di fondo è quella di verbalizzare una paradossale ciclicità, una circolarità del nulla, la vacuità del pensiero prigioniero di sé stesso, che ruota intorno o dentro il proprio nucleo fatto di vuoto e di darkness, facendo riecheggiare virtualmente e virtuosisticamente lo stesso lemma, lo stesso onnipresente nucleo semantico (i quali, del resto, sono nulli, sono anch’essi nulla), con definizioni dissimili che assumono uguale valore di equazione.
Veronesi utilizza parole sempre diverse e variamente distribuite (non figura un verso identico a un altro) per esprimere, anziché uno scarto di senso, lo stesso fondale di silenzio e di senso, o di non senso; e la stessa parola, lo stesso verbo non dicibile e non sondabile, decurtato del suo potenziale di disvelatezza, «non pronunciante ancora e impronunciato», come in Eliot tradotto da Montale, traspare – si adombra, si manifesta in forme sempre parziali – nella varietà dei versi e delle strofe senza tuttavia dar luogo a un processo di evoluzione atto a incrementarne la componente semantica. Se la retorica come repertorio di ornamenti si avvale della attitudine linguistica a traslare o a ripetere la stessa cosa con espressioni differenti, qui non si sta comunque allegorizzando su nulla, e neppure sul nulla. Ogni denominazione, non solo le parole-chiave, è simbolo fallace, indizio che non informa – pur essendo essa marcatamente aggettivata, oggetto di una pulsione, di un discorso, di un intento in apparenza descrittivo o evocativo, non già performativo – e una volta proferita perde in densità semantica e assume una valenza inerte, finendo per vanificarsi nella gradazione della dilatazione cosmica della non esistenza.
Chi legge, e ancor meglio chi ascolta, ha la sensazione di sentir ripetere invariabilmente lo stesso suono, o addirittura la stessa sillaba, vale a dire lo stesso principio generatore in cui l’io (il Moi pur di Valéry) si è deliberatamente e consciamente annullato, estinto; ma senza riuscire a sceverare distintamente, nel mormorio continuo delle figure etimologiche, di che parola si tratti. Parole, dunque, quelle chiave, non eteroriconducibili, non simbolizzanti, mai individualmente caricate di un qualche valore, se non emblematico o valutativo, perlomeno assertivo, ma rinvianti a un nulla onnipervasivo e latamente lessicalizzato.
I protagonisti di queste sestine sono allora linguaggio e forma, che preesistono al soggetto, ma che il soggetto adotta, sostenta e fa sussistere all’interno del proprio pensiero nel momento stesso in cui ne viene ispirato, instradato, vissuto, detto, sostantivizzato. E lo trasvaluta attraverso l’espressione. Qualcosa di analogo accade della realtà, della natura, del mondo esterno: dentro (come percezione), e insieme fuori (come effettualità e realtà tangibile) di noi; l’uomo è parte di una natura che a lui preesiste, dunque è egli stesso natura – ma anche natura umana, autocosciente proprio in virtù del linguaggio e del pensiero, contrapposta alla coscienza non riflessa, istintuale, trasmessa e declassata della natura esterna e fenomenica, di tutto ciò che non siamo noi.
La regola aurea che ispira l’autore è l’attenersi a una configurazione che potrebbe reiterarsi all’infinito, essendo sempre inarcata su sé stessa, a sé stessa incatenata, connessa e rinviante, là dove ogni punto d’interruzione risulterebbe illegittimo. Come in uno spazio riemanniano, in un nodo di Moebius. Questo benché il sei abbia un valore simbolico, anzi, una multiversa molteplicità di valori simbolici verso i quali il lettore potrebbe orientarsi; come l’Hexameron, i giorni della creazione, cui segue il silenzio del riposo. In ogni sestina figurano sessantasei sillabe moltiplicate per sei, cui si aggiungono le trentatré del congedo (non compaiono versi tronchi, né sdruccioli). Quattrocentoventinove sillabe in ogni sestina, duemilaseicentocinquantaquattro sommando tutte e sei le sestine. Quindici e diciotto, sommando, rispettivamente, sono le singole cifre che compongono ognuno dei due numeri appena menzionati. Multipli di tre, dunque, che producono particolari effetti, come nelle serie numeriche che governavano e scandivano la struttura del Templum Salomonis.
Una caratterizzazione euritmica, un edificio che canta, per dirla ancora con Valéry. Come se la triade potesse – come infatti può – essere infinitamente moltiplicata, e dunque infinitamente celebrata, pur nella corona di nulla che la cinge, nell’orlo di tenebre che la alona. Altro è allora il tempo: dissidio tra una temporalità non frazionabile e la frammentarietà di una nihilitas multivocamente nominata, pervasiva e che si svolge nel tempo, stilato qui perlopiù quale dilatazione dell’infinito e dell’indicativo presente, forma verbale, quest’ultima, talora propria della pulsione a recuperare il tempo attraverso una emendazione retrospettiva, o dell’inconscio che si riattualizza, ma che soprattutto dà la misura del genere dello status-nulla come inattuazione, presenza mancante o non raffigurabile.
Il riferimento alle Variazioni su nulla di Ungaretti è evidente. «La mano in ombra la clessidra volse, / E, di sabbia, il nonnulla che trascorre / Silente, è unica cosa che ormai s’oda / E, essendo udita, in buio non scompaia». L’esistenza non è nulla, non è nihil, cioè nessuna cosa. È non-nihil, qualcosa, non-nulla, magari cosa inconsistente e impercepibile, emancipazione dalla prospettiva dell’hoc nihil est per quella dell’hoc non est nihil.
Ma, appunto, un «nonnulla», qualcosa di ineffabilmente essente, un’essenza esilissima, una voce precaria, fragilissima, appena un tono al di sopra del nulla – una essenza che non può definirsi che in relazione a quel vitale e oltreumano nulla cui è congenita e consustanziale –, un quasi silenzio, un tenuissimo assiduo mormorio che scandisce il fluire e lo sfaldarsi dei giorni, già di per sé tesi e destinati al nulla.
L’effetto della lettura può essere quello di una ebbrezza dionisiaca, emotiva, delirantemente intellettuale – un mindfield, un po’ alla Gregory Corso, con tutt’altre motivazioni ed esiti –, cerebrale, che può tradursi però non in estasi, ma piuttosto, se così è possibile dire, in sbornia nauseabonda, in sordo e ottuso stordimento, simile a un occhio di bestia spalancato. Non solo sfilano ossessivamente le medesime parole-adombramenti ogni volta lievemente o solo apparentemente mutanti di senso, ma anche lemmi diversi che si equivalgono o fanno capo alla dominante – non designabile in senso proprio – nomenclatura dell’essere nulla. Una imitazione dell’immobilità, della permutabilità fallace di una modulazione viceversa inibita, arrestata, della non entità in un contesto sfumato ancorché fittamente sinestesico. Una sospensione insensata, o un vertige fixé (come scriveva Gérard Genette a proposito di Alain Robbe-Grillet), un divenire, che la ripetizione di termini interscambiabili evoca, eternamente gravitante intorno a sé stesso senza, per l’appunto, divenir niente, senza trasmutare in esperienza.
L’esaurimento, lo svuotamento della forma, che alla fine si annichila essa stessa, assimilandosi alla omocronia di un’onda ritmica non orientabile che potrebbe andare avanti all’infinito senza altro aggiungere (anzi, affermando e risillabando un nulla come apostrofe e paradossale compensativo, dettato intenso e quasi irridente) riflettono quelli, analoghi, del soggetto e del linguaggio, e specularmente del linguaggio nel soggetto, del soggetto nel linguaggio. Ma si tratta, attraverso il meccanismo letterario, di un nulla consapevole di essere tale, di un nihil cogitans – mentre il nulla di tanta comunicazione contemporanea è persuaso, o dà per scontato, di essere qualcosa, quando non di essere dogmaticamente tutto. Qui, al contrario, il fattore di somiglianza tra le parole (e la somiglianza ha eminentemente a che fare con il pensiero), in assenza di un riscontro significativo, dà luogo a una messa in opera di un quasi provocatorio non pensiero. Alla insensatezza e alla vacuità di un nulla – del mondo e della parola – come agone, reificato ed entificato, ibridato con autentica merce o materia che si danno come realtà, talora come l’unica realtà possibile, condizione suprema e significante, viene messa di fronte la compiutezza del nulla, la configurazione critica del pleroma di una nullità svelata a sé stessa per via di autocoscienza.
Alla catena di sestine – che in fondo è immagine mobile dell’infinito, imago aeternitatis non meno che imago nihilitatis, giacché potrebbe non fermarsi mai e ogni punto qualsivoglia in cui la si arresti è comunque arbitrario – sembrerebbero esser correlati un destino scelto, un amor fati, una autoimposizione, come un sacro voto, o una maledizione, o la decisione di morire, o quella di continuare a vivere, o di riprodursi, eternizzarsi, o al contrario di troncare con sé e in sé, illusoriamente, la catena della vita, la continuità naturale dell’umano. Ovvero, una coazione, in senso freudiano, a ripetere quelle sei parole-chiave che sono esse stesse nuclei e segmenti di verità essenziale, coaguli semantici, per così dire, di essere e nulla, di esistenza e morte, di un nulla pervasivo e contaminato di altri adombramenti di senso propri di denominazioni singolarmente non significanti e molto prossime alla sinonimia. «Essence is like absence of reality, / Just like absence of non-reality / Is the same essence anyhow», scriveva Jack Kerouac.
Una sestina esatonica – congiungimento di calcolo e indeterminatezza, forma e nebula, predeterminazione e associazione casuale, come nei simbolisti – tra i cui versi, o al di sotto di essi, si avvertono o si intuiscono anche i lineamenti di una struttura musicale che può richiamare il Bach dell’Arte della fuga, o la musica dodecafonica con le sue serie: ricordiamo la Lamentatio Doctoris Fausti – non a caso con caratterizzazioni nichiliste – nel romanzo manniano, là dove il protagonista Adrian Leverkühn restituisce ordine e normatività compositivi a una musica come folgorazione soggettiva attraverso una riorganizzazione sub specie seriale del paradigma temporale.
La musica – con i suoi accordi, battute, tempi, frasi – è scandita da immateriali e spirituali rapporti aritmetici, forse da qualcosa di simile all’algebra spiritualis di Gioacchino da Fiore; ovvero, come pressappoco diceva Leibniz, essa è un occulto esercizio di aritmetica eseguito dall’anima non consapevole di numerare. Nella maggior parte dei casi la musica è fondata sulla programmatica casualità delle scelte, ma che esse stesse per negationem evocano e presuppongono la norma, che è attesa e aspettativa nell’ascoltatore, nel momento stesso in cui la sovvertono, e che, soggiacenti a una fatale casualità così come la poesia formale lo è alle strutture, al metro, alla rima, non sono affatto più libere: sempre vincolate, non alla norma, ma appunto alla imprevedibilità, e forse più schiave ancora, dal momento che la norma, in qualità di realtà condivisibile, è in ogni caso l’esito di scelte del tutto umane, e muta e può mutare nel tempo e nella storia, mentre il caso è ab initio, ed eterno, e sempre sul punto di coercire, sempre riaffiorante, infinitamente uguale e infinitamente diverso.
Paradossalmente, allora, proprio la forma chiusa impone a volte deliberazioni fortuite – ma di una casualità entro certi limiti programmata, contemplata e prevista dall’artificio metrico –, dettate dalla forma stessa in misura almeno uguale a quella in cui a promuoverle e stabilirle è il pensiero poetico; che comunque è diverso, e uguale, per ciascuna delle sestine, come esplicitano – o non esplicitano – i loro titoli: (Specchio del nulla), (Canto del vuoto), (Parola del silenzio), (Il canto che perdura), (Parola morta), (Parola risorta e rimorta).
Al lettore-collaboratore che sia attento e partecipe l’incarico di proseguire questo criptico e vertiginoso discorso poetico essenzialmente incompiuto e condotto bifrontalmente, con illogica grammaticalità, con metodicissima perizia sillabica e di metrificazione espropriata di telos, la vigile ecolalica deriva di un soggetto lirico di per sé euritmicamente proiettato verso l’infinito – un infinito in miniatura, schema a priori di una infinita serie.
Elisabetta Brizio
Civitanova Marche, settembre 2011
Il testo delle Sei sestine può essere gratuitamente scaricato da questo collegamento.
domenica 2 ottobre 2011
LA POESIA FRA LIRISMO E SPERIMENTAZIONE
Riprendo qui un intervento altrove occasionato da un cortese commento di Leopoldo Attolico: un poeta di valore, capace di conciliare lo sperimentalismo stilistico, brioso, a volte quasi beffardo, con la consistenza ontologica, rivelatrice, quasi sapienziale, della poesia. Scriveva, ad esempio, nella sua raccolta d'esordio, che la poesia è «una comunione con l’ultima ruga d’ombra nascosta / di una navata: la “sua” navata la poesia / effusiva e gelida; / tormentata da un’unghia d’angelo / che non è mai cresciuta». Insomma una parola capace di illuminare e di dire, di portare alla luce dell'espressione, la piega nascosta del reale, l'intercapedine indicibile ed inafferrabile in cui si nasconde il senso delle cose, come inafferrabili, quasi immateriali sono, nella natura, i costituenti minimi della materia.
Che cos'è la poesia pura? Che cos'è la lirica? E l'antilirica? Il lirismo e l'autonomia della letteratura escludono forse a priori la narrazione, la contaminazione, il riferimento al reale, la sperimentazione sitlistica? Certa poesia riduttivamente ed ostentatamente impura, indistinta da una prosa appena scandita e ritmata, si risolve in un minimalismo asfittico, senza luce e respiro.
Ma il minimalismo, nella misura in cui è poeticamente valido, è un minimalismo lirico. Guardiamo alla lirica greca: essa abbraccia Saffo, Alcmane, ma anche Archiloco: in ogni caso, lirismo come espressione autocosciente della soggettività creatrice, sia nella forma dell'idillio naturalistico che in quella dello sfogo violento, dell'invettiva, del realismo più crudo. La poesia o è pura e lirica, o non è poesia. Si rischia, certo, di tornare, in questo modo, a quella tautologia in cui in fondo finì per risolversi il crocianesimo (poesia e non-poesia: e certo banalizzo manualisticamente, per brevità, il pensiero di Croce).
Ma, piuttosto, l'idea è quella di avvicinarsi alla religio litterarum dei Vociani: che leggevano, con uno spirito non dissimile (sempre basato sul valore assoluto della parola come ricerca, mediazione, interiorizzazione trasfigurante e metamorfosante del dato esperienziale ed esistenziale), Dante e Petrarca, l'impuro e il puro, la molteplicità inesauribile dei registri stilistici e dei piani di realtà così come la sublime monotonia, il soavissimo mormorante monologion, del soggetto dolente e poetante. Su questa base si potrà forse superare la preconcetta, spesso pretestuosa o interessata, contrapposizione fra una poesia lirica, neo-simbolista o neo-ermetica, e una, invece, realistica, straniante deformante, violenta.
Vi è, a tratti, lirismo in Sanguineti, ed è forse il Sanguineti migliore e più duraturo ("ma vedi il fango che ci sta alle spalle, / e il sole in mezzo agli alberi, e i bambini che dormono: / i bambini / che sognano (che parlano, sognando); / (ma i bambini, li vedi, così inquieti); / (dormendo, i bambini); (sognando, adesso):": un lirismo sommesso, da berceuse, quasi pascoliano, pur permanendo la frammentazione sintattica, la versificazione basata sulle unità logiche più che sulle sillabe); e possono esserci realismo e asprezza in Luzi ("Muore ignominiosamente la repubblica. / Ignominiosamente la spiano / i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti. / Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto").
La poesia è poesia: ma, oggi (tanto sul versante sperimentale che su quello neo-simbolista), non più come intuizione lirica o come sintesi a priori, bensì, al contrario, come coscienza critica che il poeta ha del linguaggio e del proprio operare.
M. V.
lunedì 26 settembre 2011
Silvia Secco, "Su Nivan"
Ho il piacere di presentare questi versi di una poetessa ancora inedita, ma dalla voce definita e sicura. Versi in cui è rievocata la figura di un enigmatico, pseudonimo poeta minore, antenato dell'autrice, vicino ad Aldo Capasso e al realismo lirico. La scrittura poetica dell'autrice intreccia variazioni ed evocazioni, quasi magiche e cabalistiche, proprio intorno allo pseudonimo dell'antenato. L'idea classica e medievale del nomen omen si sposa con l'antico culto dei Lari, e con la credenza magica, diffusa e condivisa anche dalle culture più remote l'una dall'altra, che il Nome abbia di per sé un potere magico, creatore, mitopoietico, e che, nel contempo, conoscere, memorizzare e possedere il nome di una persona o di una forza equivalga a controllarne e dominarne l'essenza – a strapparla, in questo caso, dall'oblio, ricucendo e rimarginando la ferita fra il passato e il presente, fra le radici più lontane e la vita che non cessa di respirare, divenire e protendersi per le strade del tempo.
Alle elegantissime variazioni fonosemantiche ed evocative intorno al Nome (respiro pianto lacrime passi sentiero cammino di gnosi e di riconoscimento e di autocoscienza incontro alla propria immagine riflessa) si affiancano, tratto a tratto, versi scolpiti, colmi, sonanti, endecasillabi di fattura parnassiana o ermetica (“e il tuo diamante gelido di monte”: ed /NT/ è, in varie lingue, dal Sumero all'Egizio al Greco, la radice indicante l'essere, l'esistenza, e insieme l'angoscia, e il destino – Anànke ed Angst).
M. V.
“Corri corri sempre
con sì gran fretta
piccolo, inquieto
verme terrestre.
Sul tuo capo nessun ti conosce
sotto i tuoi piedi
non ti conosce nessuno;
intorno a te
sei quasi sconosciuto.
Sarai presto dimenticato.
Dove scendi
non sarai nessuno.”
Nivan Gelamonte (o Giovanni Mogentale) 1910-1990
Eri morto, poeta d’inverno.
Nivan-nevischio caduto e perso
al suolo dei benpensanti smemori:
le loro anime e tu, a riposare in pace.
Nivan-letargo. Sepolto da pietre
che tu non hai chiesto. Disciolto il fiato
e il tuo diamante gelido di monte,
diluite le tue parole nella dimenticanza
senza eredi. Spiravi lì.
Nivan di vento! Ci ha riuniti Novembre:
assonanza ai piedi di un’Orsa,
alata anche lei. Così vicino
il nostro modo di versare il mondo!
Nivan-nivangolo scuro: divago
a ricerca di te in questo scorso, scordato secolo
lungo quanto l’intera tua storia
e la mia, le lettere che hai battuto,
le strade che hai camminato, i contorni
che hai accarezzato, le lacrime
magari sparse, le carte…
Quelle ormai perdute.
Quelle che ho ritrovato.
Nivan-vangelo. Gelo che sei. Nivangelo:
custode dei segreti. Chi eri?
Nivan-rimpianto: sempre a un passo
dagli onori. Dall’amore, forse.
Nivan-viandante anche tu.
Ti limitava il confine, la linea prealpina
che mura il canto così hai scelto il mare, la costa
solo a rilegarne il dorso. Mi vanto a pensarti
nei ritorni, simile a me;
nostalgia della madre, del padre,
assoluta necessità di lontananza.
Nivan-costanza: che a resistere si impara!
A morirne, mai abbastanza.
Che muoiono, gli uomini, nell’oblio.
Nivan-mio. Parente.
Nel tutto che hai conosciuto
ricerco a ritroso me stessa e trovo te.
Smarrito il ricordo, non ci sopravvive niente.
lunedì 12 settembre 2011
APPUNTO SU ALIENAZIONE MISTICA E ALIENAZIONE INDUSTRIALE
Ma se la prima nobilita l'uomo, la seconda lo svilisce. L'una e l'altra, innegabilmente, lo snaturano, lo narcotizzano, lo allontanano dalla realtà. Ma quale realtà, oggi? "Dov'è la realtà, dove il fantasma", si chiede un personaggio di Pirandello; e possiamo chiedercelo anche noi, nell'era della scomparsa dei fatti, delle guerre televisive, dell'affabulazione mediatica.
Forse, paradossalmente, nell'esperienza soggettiva del pensiero sacro (sia esso speculativo o mistico, argomentativo o intuitivo), la Verità è più tangibile, meno illusoria, che nei presunti fatti, o nella loro rappresentazione (un opinionista che parla del Tibet ha di esso una percezione e una notizia ancor più remote, mediate e probabilmente mistificate di quelle che il devoto e il teologo, e più ancora il poeta, possono avere del Divino).
Io credo che la monaca chiusa nella cella (la "vergine romita" di Foscolo, che almeno può sentire, quasi sensualmente, il sacro, levare al Nulla che venera una musica celeste che nessuno ascolterà: "Se gli azzurri del cielo, e la splendente / Luna, e il silenzio delle stelle adora, / Sente il Nume") sia più libera dell'operaio aggiogato alla catena di montaggio.
Il quale ora, con Marchionne, non ha nemmeno più i dieci minuti di pausa per alzare la schiena e la testa: fintantoché è nella fabbrica, all'interno delle ore di vita che deve vendere, o che gli vengono estorte per il suo bisogno (non uomo ma instrumentum loquens, anzi nemmeno loquens, perché a differenza degli schiavi antichi non può neppure gemere, gridare o cantare, non può voltarsi e vedere la luce) è, come gli schiavi della caverna di Platone, impossibilitato anche a rivolgersi per vedere la luce.
M. V.
Un intervento di Neil Novello su sacralità, irrazionalità, capitalismo
Che il sacro sia scomparso lo sappiamo, sappiamo per esempio che la secolarizzazione moderna ha distrutto il pensiero magico e con esso ogni forma tradizionale del sacro. È forse il caso di parlare, però, di metamorfosi non già del pensiero magico (pur nelle sue estreme propaggini: i mondi di De Martino, Eliade, Levi–Strauss), ma dell’idea stessa di sacro “senza” più magia, privato quindi di quell’elemento puramente e umanamente irrazionale vissuto nel quadro di una razionalità poetica qual è ad esempio l’idea di ciclicità, di attesa, di ritorno di un fenomeno, di ritualità, etc.
Ciò che a livello concettuale sembra offrire una chiave di lettura (ad esempio, si legga Religione e memoria di Danièle Hervieu–Léger) è il sovvertimento di una legge occulta. Se l’irrazionalità (pensiero) propria al sacro, al pensiero magico ed al mito arcaico necessita sempre di uno sfondo razionale (temporale, se si vuole storico, o meramente esistenziale), al punto di poter parlare di irrazionalità razionale (si pensi soltanto ai rituali stagionali, alla ricorrenza temporale di un fenomeno o evento, alla ciclicità della vita contadina, rivelata dal Mondo perduto di De Seta, dalla taranta di Sud e magia o di La terra del rimorso (ri–morso) di De Martino), la razionalità odierna non poggia su nessuna irrazionalità esogena (ossia naturalmente umana), poiché l’irrazionalità umana è neutralizzata a monte, devitalizzata da un’inclinazione/identità crudelmente razionalizzante: è endogena. Ma endogena di chi? Del capitalismo: il popolo fatto massa.
La razionalità capitalistica è viva ma silenziosa, miete vittime (riferendosi alla dialettica capitalismo vs uomo, nei Manoscritti Marx scrive: «…nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico»). Il capitalismo si prefigge un compito paradossale per il suo linguaggio ma vitale, irrazionalizzare il mondo umano anche il più razionale. Qual è dunque la radix malorum, l’irrazionalismo razionale arcaico (che in Italia si è vissuto almeno fino agli anni Cinquanta) o il razionalismo irrazionalizzante del capitalismo?
La globalizzazione è la matematizzazione del mondo, ma per riuscire in questo traguardo il capitalismo si è fatto antropofagico (divora l’uomo per defecare l’uomo–massa: Bauman). E nel fagocitarlo cosa fa? Reinventa un’intera dis–umanità ad uso e consumo del proprio linguaggio (scil.: l’universo materiale, ad esempio, eretto a nuovo mito, rito, etc. come già rivelava Barthes in Miti d’oggi), un mondo a misura dell’uomo–massa, che proprio il capitalismo provvede a “costruire” (ormai quasi in stile fordista) dopo averne programmato anche l’aspetto per così dire irrazionalistico, strategia socio–plagiante perpetuata per merito della sua ignara creatura, che rispetta supinamente e ciecamente una violenta e muta legge, per così dire, di programmazione, ad esempio la nevrosi sociale del desiderio (coatto): consumismo, etc. Di qui sembra anche passare una delle innumerevoli strade che dall’uomo portano all’uomo–massa, e da quest’ultimo alla sua versione più deteriore, la massa postumana.
METAMORFOSI E ALIENAZIONE DELLA "CULTURA POPOLARE" NELL'ERA DEL CONSUMISMO
Ciò che è venuto a mancare è il pensiero simbolico. Un oggetto, un bene di pregio e di prestigio, un cosiddetto status symbol, non è, invero, simbolo di nulla; non simboleggia, non rappresenta la posizione sociale o la ricchezza; esso, semplicemente, direttamente, piattamente, è quella ricchezza e quella posizione, o ne è la diretta, causale conseguenza. Esso è simbolo della ricchezza solo nel senso, primordiale, irriflesso, animale, in cui il fumo è il simbolo del fuoco, e il sangue (sparso a fiumi proprio per il denaro, il petrolio, i diamanti) è simbolo del dolore e della morte. Se il totemismo e il feticismo antichi nascevano dall'irrazionalità, quelli odierni nascono, invece, da una razionalità, da un calcolo pervertiti e disumani, e sono ancora più crudeli e cruenti.
L'oblio dell'alta cultura va di pari passo con il declino di ogni forma di spiritualità che non sia banalizzata e degradata a moda e costume transitori, o a generica contaminazione; entrambe le forme di regresso e di involuzione sono legate al declino del pensiero simbolico ed ermeneutico, che almeno sopravviveva, magari in forma irriflessa, nell'antica mentalità magico-religiosa, in cui il dogma trasmesso e acquisito si fondeva con l'intuizione animistico-sciamanica.
Certo, quella cultura magica, arcaica, aveva un carattere totemico, feticistico; ma oggi, dal feticismo che aveva ad oggetto i simboli religiosi intesi come sostituti, simulacri o effigi del Padre, occultato, nascosto, rimosso od ucciso, si è passati al feticismo delle merci, alla divinizzazione, quasi, dell'oggetto, che però, in quanto transitorio, effimero, soggiacente alle mode, non ha più nulla di autenticamente sacro, non ha più nulla dell'eterno, e aliena, deforma e profana l'idea stessa della sacralità.
Le donne contemplano estatiche una vetrina di Gucci come se vedessero una divinità; ma l'anno dopo, o forse dopo pochi mesi, quegli stessi oggetti saranno divenuti obsoleti, fuori moda, sostituiti da altri, che non sono le maschere cangianti e metamorfiche della sacralità originaria, ma piuttosto i segni tangibili del fatto che il sacro non esiste più, o non viene più percepito, o è divenuto pura materia - neppure più panteismo, perché il panteismo divinizza una materia vivente che l'uomo non può creare dal nulla, mentre molti venerati capi di abbigliamento nascono proprio dall'uccisione di esseri viventi - l'uomo che regala la pelliccia non è diverso dal cacciatore del neolitico che uccide la belva, con la differenza che l'uomo moderno non ha più il coraggio, la motivazione o la necessità di affrontarla direttamente.
La prostituzione delle ragazzine che si vendono per un cellulare o un vestito firmato è, a suo modo, "prostituzione sacra", hierodoulìa, come la chiamavano gli antichi, "asservimento al Sacro"; ma il sacro non è più una divinità immortale, bensì una moda (sorella della morte) decisamente finita, transitoria, mortale. Il feticismo delle merci è la morte di Dio. Nietzsche congiunto a Marx.
In tal senso, il vecchio cattolicesimo dell'"umile Italia", come la chiamava dantescamente Pasolini, era forse preferibile all'odierna idolatria del denaro, del lavoro, della prestazione; e non so fino a che punto sia un bene (non foss'altro per le finanze dei mariti) che, in una società ormai secolarizzata (sulla quale non mi sembra gravi in modo tanto pesante la minaccia dell'oscurantismo religioso paventata da alcuni), il centro commerciale abbia sostituito il tempio e il sagrato.
domenica 11 settembre 2011
LA FREDDEZZA DELLA MEMORIA COLLETTIVA
Se una tragedia individuale, soggettiva, eppure condivisa da noti e ignoti, come quella del suicidio di cui ho appena parlato, mostra il dolore nella sua forma particolare, sentita e bruciante, le celebrazioni rituali, collettive, periodiche, cerimoniali di una sciagura come quella dell'11 settembre (benché scaturite a loro volta da un dolore e da un lutto drammaticamente reali) hanno, invece, sempre in sé qualcosa di artefatto, di freddo, di anonimo, e si prestano sempre, pericolosamente, a strumentalizzazioni o pretestualizzazioni, mistificazioni ideologiche e propagandistiche.
Il dolore, anche quello più vero, sentito e profondo, nel momento stesso in cui viene ripreso e mostrato diviene artefatto. Anche chi soffre davvero (pensiamo ai funerali) di fronte allo sguardo degli altri finisce, inevitabilmente, per recitare la parte di chi soffre, tanto che il suo dolore, vero, si confonde con quello simulato (e, viceversa, chi simula la sofferenza finisce per provarla davvero: anche questa è la funzione, catartica, del pianto rituale, del lamento scenico che si trova nella tragedia greca come in certe cerimonie del Mezzogiorno).
L'unico dolore vero (se l'uomo può essere vero, sincero, trasparente, almeno davanti a se stesso) è quello che arde nel chiuso dell'anima.
Chi piange davanti a una telecamera, o davanti a una folla, o anche solo a una cerchia di persone, o insieme ad essa, «finge di sentire / anche il dolore che davvero sente», come Pessoa dice del poeta: con la differenza che il poeta è artefice del proprio artificio, scultore che modella la propria maschera funebre come l'altrui, padrone e protagonista della sua finzione, sovrano della sua buia officina; mentre l'uomo-folla, il Sé-per-gli-altri che mostra, esibisce, agisce il suo dolore nel momento stesso in cui ne è agito, che lo guida (verso il fuori-di-sé) e ne è guidato, che incarna (per il théatron, per la cerchia di chi lo attornia e lo vede) lo stesso dolente dáimon che lo possiede, è, inevitabilmente, condizionato e forzato dalle circostanze esterne.
Il dolore visto, mutato in immagine, ri-preso, è per ciò stesso alienato, artifiziato, mediato; è, come avviene emblematicamente nelle celebrazioni rituali come quella dell'11 settembre, un dolore già accaduto, già vissuto, richiamato artificialmente alla vita-morte del lamento. Lo stesso vale anche per il dolore assoluto, sacrificale, simbolico metafisico: nelle trasmissioni televisive della Via Crucis, quel dolore che è così vivo nella mobile immobilità dell'arte, e vivissimo nel discorso senza parole della meditazione irriflessa e indicibile, diviene falso e vuoto nella mobilità dell'immagine, nell'artificiale divenire del discorso audiovisivo.
L'acqua perennemente mobile, grondante, fluente, che colma la voragine, l'abyssus di Ground Zero (voragine e abisso certo storici, epocali, ferita aperta nella coscienza dell'Occidente, oltre e più che fisici e reali) era, in realtà, nella perfezione irreale dell'immagine digitale, dello schermo piatto, dell'alta definizione, uno specchio immobile, impassibile, una natura altra, distante, schermata appunto, resa esanime, decisamente postmoderna (mentre proprio il crollo delle Twin Towers avrebbe segnato, per alcuni, la vera fine del postmoderno, la frattura della Finis Historiae, il violento e forse salutare risveglio indotto dal ritorno alla realtà e ai fatti ‒ eppure i terroristi, come notava Umberto Eco, mostravano al contrario di aver compreso ottimamente, e funestamente, il potere della comunicazione visiva e mediatica, tanto che le immagini ri-prese, indefinitamente reduplicate e reiterate, del crollo delle torri finivano per avere, data la loro forza propagandistica, un effetto ben più devastante dell'evento in sé); un'acqua lontana, irreale, e perciò sacra, impossibile da sfiorare e da gustare anche per chi fosse stato presente, che faceva quasi pensare a quelle installazioni artistiche in cui era rappresentato un ruscello prosciugato, mentre l'acqua scorreva in un monitor, e il suo brusio era diffuso da uno stereo ‒ e nello spettatore-Tantalo nasceva, allora, una sete vera e falsa, ma inestinguibile ‒ la visione faceva «del non ver vera rancura / Nascere a chi la vede», come in Dante; e, a Ground Zero, i nomi incisi su quelle lastre solenni e funeree erano e sono traccia illusoria, segni di nomi di cui si perderà, in meno di un secolo, ogni memoria reale ‒ «dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», come dice un altro poeta.
Ma ogni ricorrenza che cerchi di esorcizzare il dolore rinnovandolo e ricordandolo è illlusoria. Ogni giorno dovrebbe essere un continuo, e inutile, Giorno della Memoria: perché in ogni istante le carestie, le guerre, le persecuzioni mietono vittime innocenti. La vera Memoria, Mnemosyne, figlia della Terra e del Cielo, madre delle Muse, prega e piange per tutti i sofferenti, noti e ignoti, presenti passati e futuri, senza nessuna distinzione, perché il Male è antico, eterno e potente.
Bush (la cui politica estera ha fatto, credo, il centuplo dei morti di tutto il terrorismo globale) ha citato Qohelet: «C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace».
Ma sarebbe meglio citare, sempre da Qohèlet, questi altri versetti: «Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa. Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito».