domenica 11 settembre 2011

LA FREDDEZZA DELLA MEMORIA COLLETTIVA




Se una tragedia individuale, soggettiva, eppure condivisa da noti e ignoti, come quella del suicidio di cui ho appena parlato, mostra il dolore nella sua forma particolare, sentita e bruciante, le celebrazioni rituali, collettive, periodiche, cerimoniali di una sciagura come quella dell'11 settembre (benché scaturite a loro volta da un dolore e da un lutto drammaticamente reali) hanno, invece, sempre in sé qualcosa di artefatto, di freddo, di anonimo, e si prestano sempre, pericolosamente, a strumentalizzazioni o pretestualizzazioni, mistificazioni ideologiche e propagandistiche.

Il dolore, anche quello più vero, sentito e profondo, nel momento stesso in cui viene ripreso e mostrato diviene artefatto. Anche chi soffre davvero (pensiamo ai funerali) di fronte allo sguardo degli altri finisce, inevitabilmente, per recitare la parte di chi soffre, tanto che il suo dolore, vero, si confonde con quello simulato (e, viceversa, chi simula la sofferenza finisce per provarla davvero: anche questa è la funzione, catartica, del pianto rituale, del lamento scenico che si trova nella tragedia greca come in certe cerimonie del Mezzogiorno).

L'unico dolore vero (se l'uomo può essere vero, sincero, trasparente, almeno davanti a se stesso) è quello che arde nel chiuso dell'anima.

Chi piange davanti a una telecamera, o davanti a una folla, o anche solo a una cerchia di persone, o insieme ad essa, «finge di sentire / anche il dolore che davvero sente», come Pessoa dice del poeta: con la differenza che il poeta è artefice del proprio artificio, scultore che modella la propria maschera funebre come l'altrui, padrone e protagonista della sua finzione, sovrano della sua buia officina; mentre l'uomo-folla, il Sé-per-gli-altri che mostra, esibisce, agisce il suo dolore nel momento stesso in cui ne è agito, che lo guida (verso il fuori-di-sé) e ne è guidato, che incarna (per il théatron, per la cerchia di chi lo attornia e lo vede) lo stesso dolente dáimon che lo possiede, è, inevitabilmente, condizionato e forzato dalle circostanze esterne.

Il dolore visto, mutato in immagine, ri-preso, è per ciò stesso alienato, artifiziato, mediato; è, come avviene emblematicamente nelle celebrazioni rituali come quella dell'11 settembre, un dolore già accaduto, già vissuto, richiamato artificialmente alla vita-morte del lamento. Lo stesso vale anche per il dolore assoluto, sacrificale, simbolico metafisico: nelle trasmissioni televisive della Via Crucis, quel dolore che è così vivo nella mobile immobilità dell'arte, e vivissimo nel discorso senza parole della meditazione irriflessa e indicibile, diviene falso e vuoto nella mobilità dell'immagine, nell'artificiale divenire del discorso audiovisivo.

L'acqua perennemente mobile, grondante, fluente, che colma la voragine, l'abyssus di Ground Zero (voragine e abisso certo storici, epocali, ferita aperta nella coscienza dell'Occidente, oltre e più che fisici e reali) era, in realtà, nella perfezione irreale dell'immagine digitale, dello schermo piatto, dell'alta definizione, uno specchio immobile, impassibile, una natura altra, distante, schermata appunto, resa esanime, decisamente postmoderna (mentre proprio il crollo delle Twin Towers avrebbe segnato, per alcuni, la vera fine del postmoderno, la frattura della Finis Historiae, il violento e forse salutare risveglio indotto dal ritorno alla realtà e ai fatti eppure i terroristi, come notava Umberto Eco, mostravano al contrario di aver compreso ottimamente, e funestamente, il potere della comunicazione visiva e mediatica, tanto che le immagini ri-prese, indefinitamente reduplicate e reiterate, del crollo delle torri finivano per avere, data la loro forza propagandistica, un effetto ben più devastante dell'evento in sé); un'acqua lontana, irreale, e perciò sacra, impossibile da sfiorare e da gustare anche per chi fosse stato presente, che faceva quasi pensare a quelle installazioni artistiche in cui era rappresentato un ruscello prosciugato, mentre l'acqua scorreva in un monitor, e il suo brusio era diffuso da uno stereo e nello spettatore-Tantalo nasceva, allora, una sete vera e falsa, ma inestinguibile la visione faceva «del non ver vera rancura / Nascere a chi la vede», come in Dante; e, a Ground Zero, i nomi incisi su quelle lastre solenni e funeree erano e sono traccia illusoria, segni di nomi di cui si perderà, in meno di un secolo, ogni memoria reale «dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», come dice un altro poeta.

Ma ogni ricorrenza che cerchi di esorcizzare il dolore rinnovandolo e ricordandolo è illlusoria. Ogni giorno dovrebbe essere un continuo, e inutile, Giorno della Memoria: perché in ogni istante le carestie, le guerre, le persecuzioni mietono vittime innocenti. La vera Memoria, Mnemosyne, figlia della Terra e del Cielo, madre delle Muse, prega e piange per tutti i sofferenti, noti e ignoti, presenti passati e futuri, senza nessuna distinzione, perché il Male è antico, eterno e potente.

Bush (la cui politica estera ha fatto, credo, il centuplo dei morti di tutto il terrorismo globale) ha citato Qohelet: «C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace».

Ma sarebbe meglio citare, sempre da Qohèlet, questi altri versetti: «Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa. Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito».

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