Entrambi i titoli di questo esercizio interpretativo possono essere legittimati: essere nientificato o nulla entificato. N’est pas rien: il testo dice di non essere nulla, invece è qualcosa, cioè un testo; o meglio dice di non dire nulla là dove qualcosa afferma, cioè appunto il nulla trattato come cosa dicibile. Non troppo diversamente, la pipa di Magritte dice di non essere una pipa mentre lo è, anche solo in effigie. Come la «parola veduta» in cui a volte venivano simbolicamente e postumamente bruciati autori all’indice, l’immagine, fantasma labile come la parola, può finire facilmente in cenere, vento, ombra, nulla, essere metamorfosata e transustanziata nell’emblema nebuloso della presenza-assenza svanente, della damnatio memoriae.
Ermetiche, ipnotiche, di difficile caratterizzazione, stranianti fin dal titolo, queste Sei sestine su nulla si snodano in sei enigmatiche sestine, ognuna delle quali presenta, come da regola, un congedo di tre versi. Ossessivamente, lungo tutti i versi risuonano le stesse parole-rima – che per la loro ricorrenza assumono valore di parole-chiave: «nulla», «morte», «silenzio», «tempo», «fine», «vuoto» – in ordine variato secondo la retrogradatio cruciata. Ma al parallelo fonico non consegue l’istituzione del corrispettivo semantico, nel senso che intendimento dell’autore non sembrerebbe quello di voler moltiplicare la risonanza dei termini pseudo-emblema o di fissarne le diverse gradazioni attraverso una ossessiva ripetizione, come potrebbe accadere anche con un prolungatissimo calembour. Né le parole-chiave sono connotatori del testo, ma topoi niente affatto archetipali e solo graficamente mutanti di una nihilitas senza ulteriori implicazioni, denominazioni straniate, dunque svincolate tanto dall’emblematismo segnico che da ogni loro nesso referenziale.
Quello che fa apparire inconcepibile quest’opera, benché concepita, è in primo luogo l’incongruenza tra il titolo – in particolare, tra la preposizione «su» che figura nel titolo – e il testo, un testo altamente strutturato, di duecentotrentaquattro versi che con disposizione tutt’altro che antisistemica si intrattengono esasperatamente sul labilissimo consistere del non luogo, del non tempo e del non senso. Instabile essere che l’autore sembra formalmente esaustivare e far evolvere secondo una logica strutturale, vista la rigorosa ripartizione dell’opera in versi regolarissimi, come pure il suo svolgimento nell’avvicendarsi di componimenti che esteriormente paiono tematizzare ognuno un’idea a sé (malgrado i singoli titoli figurino, emblematicamente, tra parentesi, a rimarcare la assoluta marginalità e la fallacia di ogni variante di trama), dato che è un’opera titolata, pertanto vettorizzata verso qualcosa che tuttavia alla fine si elide e non si rivela: non c’è elemento che sfugga alla unitonale Stimmung di questa verseggiatura che elude ogni possibilità di focalizzazione.
Sei sestine su nulla non traduce l’intenzione di solennizzare la bella morte, né costituisce un’ode letificante al nichilismo o una allusione a una fondazione estetica non attuabile in pieno, o il documento di un itinerario orfico privo di speranza di retrocessione. Le parole qui non parlano di nulla, ma parlano – senza categorizzarlo – del nulla, e dal nulla, dall’altezza oscura del non essere – de nihilo, de nihilitate loquuntur. E il punto di vista inevitabilmente non trattiene quasi alcunché di umano, sebbene alcuni lemmi od occasionali locuzioni, tendenzialmente sempre sul segno di smaterializzarsi e di uscire dai confini del soggettivismo verbale, rimandino alla vita e a un soggetto lirico evanescente, sofisticato, esitante sofista di facciata, abissalmente distante dall’esperienza, stuporoso in false anafore e naufragato nella pervasività uterina e oceanica di un nulla che si fa argomento. Un io lirico non egoriferentesi e carente di consistenza identitaria, ma con ciò non del tutto estromesso ed eclissato (giacché esordisce quale soggetto della volontà, si percepisce in qualche isolato possessivo e in sequenze dialogizzanti, per poi estinguersi insieme al testo), seppure scarsamente identificabile, il quale – in assenza di determinazioni ideologiche o psicologiche che lo qualifichino – attraverso il suo accortissimo oblio umanizza lievemente, già dal suo esordio, il contesto falsamente epico-cosmogonico con un argomentare di remote arcanità che perde irrevocabilmente spessore negli anticlimax dei congedi.
Evidenti sono l’indeterminazione e la conseguente svalutazione dei dati sensibili e degli eventi laterali, in virtù dei limitatissimi riferimenti esterni, i quali rientrano peraltro nella dimensione accessoria dello sfondo; scarso risalto e pressoché alcun rilievo cromatico assumono gli essenzialmente aniconici referti iconografici, deprivati della loro pregnanza a vantaggio della condizione dell’inorganico, fattori che non concorrono comunque alla delineazione di una forma di essere declinante nel nulla, e meno ancora paiono esser assunti per l’edificazione di un testuale differimento omofonico. E nel discorso monologico di un soggetto lirico che si autosorveglia nessuna risposta – o unicamente qualche simulacro di riscontro, o una ipotesi di risposta formulata nel corpo della stessa domanda – ricevono le interrogazioni che compaiono nella terza sestina, che con qual certa indifferenza si volgono alla ricerca di un contenuto e di una trama plausibili, quasi stupefatte rivelazioni tautologiche, che restano sospese e si dissolvono nel glaciale silenzio del complessivo milieu estensivamente nullificante.
L’idea di fondo è quella di verbalizzare una paradossale ciclicità, una circolarità del nulla, la vacuità del pensiero prigioniero di sé stesso, che ruota intorno o dentro il proprio nucleo fatto di vuoto e di darkness, facendo riecheggiare virtualmente e virtuosisticamente lo stesso lemma, lo stesso onnipresente nucleo semantico (i quali, del resto, sono nulli, sono anch’essi nulla), con definizioni dissimili che assumono uguale valore di equazione.
Veronesi utilizza parole sempre diverse e variamente distribuite (non figura un verso identico a un altro) per esprimere, anziché uno scarto di senso, lo stesso fondale di silenzio e di senso, o di non senso; e la stessa parola, lo stesso verbo non dicibile e non sondabile, decurtato del suo potenziale di disvelatezza, «non pronunciante ancora e impronunciato», come in Eliot tradotto da Montale, traspare – si adombra, si manifesta in forme sempre parziali – nella varietà dei versi e delle strofe senza tuttavia dar luogo a un processo di evoluzione atto a incrementarne la componente semantica. Se la retorica come repertorio di ornamenti si avvale della attitudine linguistica a traslare o a ripetere la stessa cosa con espressioni differenti, qui non si sta comunque allegorizzando su nulla, e neppure sul nulla. Ogni denominazione, non solo le parole-chiave, è simbolo fallace, indizio che non informa – pur essendo essa marcatamente aggettivata, oggetto di una pulsione, di un discorso, di un intento in apparenza descrittivo o evocativo, non già performativo – e una volta proferita perde in densità semantica e assume una valenza inerte, finendo per vanificarsi nella gradazione della dilatazione cosmica della non esistenza.
Chi legge, e ancor meglio chi ascolta, ha la sensazione di sentir ripetere invariabilmente lo stesso suono, o addirittura la stessa sillaba, vale a dire lo stesso principio generatore in cui l’io (il Moi pur di Valéry) si è deliberatamente e consciamente annullato, estinto; ma senza riuscire a sceverare distintamente, nel mormorio continuo delle figure etimologiche, di che parola si tratti. Parole, dunque, quelle chiave, non eteroriconducibili, non simbolizzanti, mai individualmente caricate di un qualche valore, se non emblematico o valutativo, perlomeno assertivo, ma rinvianti a un nulla onnipervasivo e latamente lessicalizzato.
I protagonisti di queste sestine sono allora linguaggio e forma, che preesistono al soggetto, ma che il soggetto adotta, sostenta e fa sussistere all’interno del proprio pensiero nel momento stesso in cui ne viene ispirato, instradato, vissuto, detto, sostantivizzato. E lo trasvaluta attraverso l’espressione. Qualcosa di analogo accade della realtà, della natura, del mondo esterno: dentro (come percezione), e insieme fuori (come effettualità e realtà tangibile) di noi; l’uomo è parte di una natura che a lui preesiste, dunque è egli stesso natura – ma anche natura umana, autocosciente proprio in virtù del linguaggio e del pensiero, contrapposta alla coscienza non riflessa, istintuale, trasmessa e declassata della natura esterna e fenomenica, di tutto ciò che non siamo noi.
La regola aurea che ispira l’autore è l’attenersi a una configurazione che potrebbe reiterarsi all’infinito, essendo sempre inarcata su sé stessa, a sé stessa incatenata, connessa e rinviante, là dove ogni punto d’interruzione risulterebbe illegittimo. Come in uno spazio riemanniano, in un nodo di Moebius. Questo benché il sei abbia un valore simbolico, anzi, una multiversa molteplicità di valori simbolici verso i quali il lettore potrebbe orientarsi; come l’Hexameron, i giorni della creazione, cui segue il silenzio del riposo. In ogni sestina figurano sessantasei sillabe moltiplicate per sei, cui si aggiungono le trentatré del congedo (non compaiono versi tronchi, né sdruccioli). Quattrocentoventinove sillabe in ogni sestina, duemilaseicentocinquantaquattro sommando tutte e sei le sestine. Quindici e diciotto, sommando, rispettivamente, sono le singole cifre che compongono ognuno dei due numeri appena menzionati. Multipli di tre, dunque, che producono particolari effetti, come nelle serie numeriche che governavano e scandivano la struttura del Templum Salomonis.
Una caratterizzazione euritmica, un edificio che canta, per dirla ancora con Valéry. Come se la triade potesse – come infatti può – essere infinitamente moltiplicata, e dunque infinitamente celebrata, pur nella corona di nulla che la cinge, nell’orlo di tenebre che la alona. Altro è allora il tempo: dissidio tra una temporalità non frazionabile e la frammentarietà di una nihilitas multivocamente nominata, pervasiva e che si svolge nel tempo, stilato qui perlopiù quale dilatazione dell’infinito e dell’indicativo presente, forma verbale, quest’ultima, talora propria della pulsione a recuperare il tempo attraverso una emendazione retrospettiva, o dell’inconscio che si riattualizza, ma che soprattutto dà la misura del genere dello status-nulla come inattuazione, presenza mancante o non raffigurabile.
Il riferimento alle Variazioni su nulla di Ungaretti è evidente. «La mano in ombra la clessidra volse, / E, di sabbia, il nonnulla che trascorre / Silente, è unica cosa che ormai s’oda / E, essendo udita, in buio non scompaia». L’esistenza non è nulla, non è nihil, cioè nessuna cosa. È non-nihil, qualcosa, non-nulla, magari cosa inconsistente e impercepibile, emancipazione dalla prospettiva dell’hoc nihil est per quella dell’hoc non est nihil.
Ma, appunto, un «nonnulla», qualcosa di ineffabilmente essente, un’essenza esilissima, una voce precaria, fragilissima, appena un tono al di sopra del nulla – una essenza che non può definirsi che in relazione a quel vitale e oltreumano nulla cui è congenita e consustanziale –, un quasi silenzio, un tenuissimo assiduo mormorio che scandisce il fluire e lo sfaldarsi dei giorni, già di per sé tesi e destinati al nulla.
L’effetto della lettura può essere quello di una ebbrezza dionisiaca, emotiva, delirantemente intellettuale – un mindfield, un po’ alla Gregory Corso, con tutt’altre motivazioni ed esiti –, cerebrale, che può tradursi però non in estasi, ma piuttosto, se così è possibile dire, in sbornia nauseabonda, in sordo e ottuso stordimento, simile a un occhio di bestia spalancato. Non solo sfilano ossessivamente le medesime parole-adombramenti ogni volta lievemente o solo apparentemente mutanti di senso, ma anche lemmi diversi che si equivalgono o fanno capo alla dominante – non designabile in senso proprio – nomenclatura dell’essere nulla. Una imitazione dell’immobilità, della permutabilità fallace di una modulazione viceversa inibita, arrestata, della non entità in un contesto sfumato ancorché fittamente sinestesico. Una sospensione insensata, o un vertige fixé (come scriveva Gérard Genette a proposito di Alain Robbe-Grillet), un divenire, che la ripetizione di termini interscambiabili evoca, eternamente gravitante intorno a sé stesso senza, per l’appunto, divenir niente, senza trasmutare in esperienza.
L’esaurimento, lo svuotamento della forma, che alla fine si annichila essa stessa, assimilandosi alla omocronia di un’onda ritmica non orientabile che potrebbe andare avanti all’infinito senza altro aggiungere (anzi, affermando e risillabando un nulla come apostrofe e paradossale compensativo, dettato intenso e quasi irridente) riflettono quelli, analoghi, del soggetto e del linguaggio, e specularmente del linguaggio nel soggetto, del soggetto nel linguaggio. Ma si tratta, attraverso il meccanismo letterario, di un nulla consapevole di essere tale, di un nihil cogitans – mentre il nulla di tanta comunicazione contemporanea è persuaso, o dà per scontato, di essere qualcosa, quando non di essere dogmaticamente tutto. Qui, al contrario, il fattore di somiglianza tra le parole (e la somiglianza ha eminentemente a che fare con il pensiero), in assenza di un riscontro significativo, dà luogo a una messa in opera di un quasi provocatorio non pensiero. Alla insensatezza e alla vacuità di un nulla – del mondo e della parola – come agone, reificato ed entificato, ibridato con autentica merce o materia che si danno come realtà, talora come l’unica realtà possibile, condizione suprema e significante, viene messa di fronte la compiutezza del nulla, la configurazione critica del pleroma di una nullità svelata a sé stessa per via di autocoscienza.
Alla catena di sestine – che in fondo è immagine mobile dell’infinito, imago aeternitatis non meno che imago nihilitatis, giacché potrebbe non fermarsi mai e ogni punto qualsivoglia in cui la si arresti è comunque arbitrario – sembrerebbero esser correlati un destino scelto, un amor fati, una autoimposizione, come un sacro voto, o una maledizione, o la decisione di morire, o quella di continuare a vivere, o di riprodursi, eternizzarsi, o al contrario di troncare con sé e in sé, illusoriamente, la catena della vita, la continuità naturale dell’umano. Ovvero, una coazione, in senso freudiano, a ripetere quelle sei parole-chiave che sono esse stesse nuclei e segmenti di verità essenziale, coaguli semantici, per così dire, di essere e nulla, di esistenza e morte, di un nulla pervasivo e contaminato di altri adombramenti di senso propri di denominazioni singolarmente non significanti e molto prossime alla sinonimia. «Essence is like absence of reality, / Just like absence of non-reality / Is the same essence anyhow», scriveva Jack Kerouac.
Una sestina esatonica – congiungimento di calcolo e indeterminatezza, forma e nebula, predeterminazione e associazione casuale, come nei simbolisti – tra i cui versi, o al di sotto di essi, si avvertono o si intuiscono anche i lineamenti di una struttura musicale che può richiamare il Bach dell’Arte della fuga, o la musica dodecafonica con le sue serie: ricordiamo la Lamentatio Doctoris Fausti – non a caso con caratterizzazioni nichiliste – nel romanzo manniano, là dove il protagonista Adrian Leverkühn restituisce ordine e normatività compositivi a una musica come folgorazione soggettiva attraverso una riorganizzazione sub specie seriale del paradigma temporale.
La musica – con i suoi accordi, battute, tempi, frasi – è scandita da immateriali e spirituali rapporti aritmetici, forse da qualcosa di simile all’algebra spiritualis di Gioacchino da Fiore; ovvero, come pressappoco diceva Leibniz, essa è un occulto esercizio di aritmetica eseguito dall’anima non consapevole di numerare. Nella maggior parte dei casi la musica è fondata sulla programmatica casualità delle scelte, ma che esse stesse per negationem evocano e presuppongono la norma, che è attesa e aspettativa nell’ascoltatore, nel momento stesso in cui la sovvertono, e che, soggiacenti a una fatale casualità così come la poesia formale lo è alle strutture, al metro, alla rima, non sono affatto più libere: sempre vincolate, non alla norma, ma appunto alla imprevedibilità, e forse più schiave ancora, dal momento che la norma, in qualità di realtà condivisibile, è in ogni caso l’esito di scelte del tutto umane, e muta e può mutare nel tempo e nella storia, mentre il caso è ab initio, ed eterno, e sempre sul punto di coercire, sempre riaffiorante, infinitamente uguale e infinitamente diverso.
Paradossalmente, allora, proprio la forma chiusa impone a volte deliberazioni fortuite – ma di una casualità entro certi limiti programmata, contemplata e prevista dall’artificio metrico –, dettate dalla forma stessa in misura almeno uguale a quella in cui a promuoverle e stabilirle è il pensiero poetico; che comunque è diverso, e uguale, per ciascuna delle sestine, come esplicitano – o non esplicitano – i loro titoli: (Specchio del nulla), (Canto del vuoto), (Parola del silenzio), (Il canto che perdura), (Parola morta), (Parola risorta e rimorta).
Al lettore-collaboratore che sia attento e partecipe l’incarico di proseguire questo criptico e vertiginoso discorso poetico essenzialmente incompiuto e condotto bifrontalmente, con illogica grammaticalità, con metodicissima perizia sillabica e di metrificazione espropriata di telos, la vigile ecolalica deriva di un soggetto lirico di per sé euritmicamente proiettato verso l’infinito – un infinito in miniatura, schema a priori di una infinita serie.
Elisabetta Brizio
Civitanova Marche, settembre 2011
Il testo delle Sei sestine può essere gratuitamente scaricato da questo collegamento.
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