sabato 24 dicembre 2016
Elisabetta Brizio, "Senza intensità, nulla. L’assoluto di Massimo Sannelli"
Il punto di partenza di quest’opera potrebbe essere la conclusione, cioè gli Appunti su Rebis. Rebis è res-bis, una cosa doppia, l’androgino, un concetto dell’alchímia. Rebis è Sannelli stesso, e precisamente è il nome che ha dato al sé bambino, dopo la ‘reincarnazione’, benché questa parola non fosse la piú appropriata. La coscienza è defunta, i frammenti si compongono di nuovo dopo gli anni, ma non vanno a formare l’anima, bensí spazzatura mnestica che si rapprende. Ciò che caratterizza Rebis lo scrissi per Intendyo: «una prestazione intellettuale nettamente superiore alla media» (pagella scolastica, prima elementare) e una buona memoria in un corpo che tende a isolarsi e a prendere familiarità con la solitudine. A vivere proficuamente in disparte. L’essenziale, si dice nell’Assoluto, è non essere «troppo lirici quando si esalta la solitudine, e anche il silenzio».
Viene da sé la domanda: qual è in Massimo Sannelli il nesso tra una solitudine cercata e inevitabile, condizione ideale e condanna, e la continua ricerca di un pubblico, culmine del suo esercizio costante? Apparentemente la risposta è banale, anzi banalissima: Sannelli cerca un pubblico per sfuggire alla solitudine. Troppo banale, anche perché sappiamo che lui pone l’esistenza di un pubblico come condizione necessaria dell’esistenza dell’opera – e per contro, quasi superflua diviene la funzione del critico. In assenza di un pubblico non potrebbe esservi opera; anche di qui le sue riserve verso l’essere poeta, che resta una questione troppo privata. Ma l’interrogativo è questo: Sannelli, che detesta l’idea del senza-pubblico, ama davvero il suo pubblico? Non sappiamo, possiamo solo dedurre che ami i suoi allievi, questo indubbiamente sí. Nel libro incontriamo diversi riferimenti al vuoto, e per Sannelli il vuoto è essenzialmente, appunto, lo spazio senza pubblico e quindi senza vita. La vita è pericolosamente identificata con la produzione di arte, e la produzione di arte è identificata con il suo effetto. Scrivere per se stessi per lui non è concepibile: non abbiamo a che fare con un artista che tiene il libro nel cassetto, non è un mistico se non nella serietà del suo lavoro.
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martedì 15 novembre 2016
Elisabetta Brizio, "Imbecille c'est moi"
(immagini di Massimo Sannelli, senza titolo)
C’è un momento nelle nostre vite in cui si incontrano delle resistenze, qualcosa che ci cambia sensibilmente. Forse non ce la siamo proprio cercata, tuttavia potrebbe essere l’occasione per il raggiungimento dell’autocoscienza, così da sollevarci dalla nostra innata condizione di imbecillità. Perché imbecilli lo siamo per natura, lo siamo e lo siamo stati un po’ tutti, tanto che Maurizio Ferraris non esita a parlare o a testimoniare in proprio, non risparmiandosi autoaccuse lungo il testo, replicando inoltre a obiezioni possibili, come qui, nelle righe conclusive del Prologo («Tu quoque trascendentale»): «‘e allora perché, malgrado tutte queste giudiziose considerazioni non si ferma qui, e vuole andare avanti per quattro capitoli e un epilogo?’. ‘A te la risposta, ipocrita lettore, mio simile (senza offesa) mio fratello’». Oppure più indietro: «quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare […] per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a delle moltitudini?». L’imbecillità è una cosa seria (Il Mulino, Bologna 2016) appare piuttosto un attestato di umiltà da parte di Ferraris, il titolo di questo libro comporta un certo rischio, la questione è spinosa,
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mercoledì 21 settembre 2016
Elisabetta Brizio, "'Compos sui. Poesie nello stile del 1940' di Massimo Sannelli"
Io ti offro un esilio luminoso
oggi: una litania di undici colpi,
precisa, non la morte, e una sequenza
delicata, nessuna distruzione.
Questo è un esilio dolce, come il seno:
nella rete sei tu; sei prete e re,
e veramente hai lo scudo, hai lo stile,
hai Dio, non il suicidio, veramente.
È il penultimo dei componimenti raccolti sotto il titolo di Poesie nello stile del 1940, e-book di cui riporto la nota di chiusura: «Queste poesie sono state scritte dal 6 luglio al 7 agosto 2016. I testi sono in endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari». Quello qui riprodotto è ovviamente in endecasillabi, come dice il secondo verso. Il testo non ha rime o vere e proprie assonanze, ha un’aggiunta iniziale (rete : prete) e una pseudorima (seno : distruzione), una specie di assonanza inversa, non so come altrimenti chiamarla. A ben guardare le assonanze ci sono, ma non sporgono canonicamente a fine verso, sono interne ai versi, e all’apparenza casuali (morte-distruzione-dolce; prete-veramente).
La tremenda vicinanza Dio-suicidio perturba e insieme trattiene qualcosa di sperante, benché si tratti solo di una rima per l’occhio (all’uguaglianza grafica non corrisponde l’uguaglianza dell’accento all’orecchio), come Io-esilio nel primo verso. Non sono rime vere e proprie, d’accordo, ma ugualmente richiami tematici e di senso, se l’io si dà un «esilio luminoso», se Dio scongiura il gesto suicidale. Il testo allora è abbastanza irregolare, dal punto di vista fonico, mentre è regolarissimo dal punto di vista metrico. Tornerò dopo sulla questione metrica.
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domenica 3 luglio 2016
Giselda Pontesilli, "Su 'Fare di questo' di Carlo Bordini"
Come affiora dalla lettura sensibilissima e sommessa di Giselda Pontesilli, la poesia di Carlo Bordini sembra sorgere, e trarre alimento ed energia, precisamente da quell'"enorme secondarietà della letteratura" di cui parlava Amelia Rosselli, dalla "grandezza" e dalla "pazienza" infinite del nulla, del silenzio e del bianco su cui fluttuano e palpitano, diceva Beppe Salvia, le parole della poesia - Salvia che infine gettò nel bianco abisso di quel nulla anche la propria voce e la propria vita.
Ma sono - dicono o suggeriscono i versi di Bordini - la vita stessa, l'arte stessa, l' antica e profonda energia che dà corpo, trasfondendovisi, alle manifestazioni e ai monumenti della civiltà, a prendere forma, in fondo, proprio dallo scarto, dal detrito, dalla reliquia, da ciò che sopravvive dopo la combustione della forza vitale e creatrice che si estenua'e si spegne per rinnovarsi, come una fenice, ad ogni svolta di un'eterna anaciclosi.
Anche la morte, la sofferenza, il sacrificio - anche la crudeltà e la distruzione di cui inconsapevolemente ci rendiamo artefici e colpevoli - trovano, nell'economia di questo grande opificium mundi, un proprio ruolo, una propria significazione, se non una giustificazione.
Ma questa lucida consapevolezza, ripetto a cui il lirismo non è evasione o nascondimento, ma presa spietata di coscienza, potrà un giorno essere trasfigurata e rendenta in un'innocenza sapiente, nell'infanzia ritrovata e antichissima del puer aeternus.
Sapienziale candore, scavata e stratificata trasparenza, mistero in piena luce, questi, che si riflettono anche nella lingua e nello stile, tanto più evocativi, profondi, altamente risonanti e rivelatori - quasi, si direbbe, folgorati e stupiti da se stessi - proprio nel momento in cui paiono avvicinarsi alla prosa del quotidiano, all'umana affabilità della conversazione.
(M. V.)
La poesia "Fare di questo" è, primariamente , demistificatrice, poiché -non a parole- ci fa coscienti di un fatto che sapevamo già: per sentire, per esperienza; ma solo ora, solo così tardi, lo comprendiamo davvero:
non è vero -ci dice, non a parole- non è vero che solo alcuni misteriosi uomini (non io, mai io) compiono omicidi; io = omicida : ecce homo.
Non a parole lo dice, poiché «quando si è capito veramente qualcosa dirlo è un atto puramente narcisistico»1 (di qui, «l'enorme secondarietà della letteratura»2); e dunque, non a parole, non per narcisismo, la poesia mi dice che io = omicida.
E aggiunge: «Questo è un fatto molto importante» ; ecco, non dice: «Questo è tremendo, atroce, orrendo», ma solo, "innocuamente": «Questo è un fatto molto importante»; e più oltre, narrandoci del rapporto con S., chiama «l'impulso [...]di ucciderla» semplicemente, temerariamente, tra parentesi « (puro istinto, vero, grande istinto) ».
In tal modo, la poesia non è solo demistificatrice, ma insieme -se mai possibile- consolatrice (se mai possibile), poiché non ci condanna: constata, accerta, rende testimonianza.
Il primo omicidio che constata è quello di Bione, un cane che portato in campagna, abbandonato, cioè «ucciso interiormente», «impazzì»:
giovedì 9 giugno 2016
Tullio Rizzini, “Sonetti”
I componimenti che ho il piacere di presentare, al di là del loro valore poetico, sono, si può dire, una forma di poetica in atto, di applicazione sperimentale di un'idea di lingua e di poesia; e non possono essere scissi dall'assiduo, audace quanto affascinante, lavoro di ricerca (http://www.magiedizioni.com/documenti/origine-idee-e-parole_1.pdf) che l'autore, neurologo, conduce da anni, a partire da osservazioni compiute sulle abissali ed epifaniche agnizioni provenienti dall'apparente vaniloquio (in realtà, forse, sapiente glossolalia?) degli alienati mentali, intorno al valore fonosimbolico primario, originario, universale proprio perché prerazionale, racchiuso nei suoni fondamentali (o meglio nei fonemi, nelle sostanze concettuali e psicologiche soggiacenti alle manifestazioni esteriori che si odono e si scrivono) che vanno a comporre, con un'ars combinatoria non sempre facile da razionalizzare, quelle baluginanti ed enigmatiche spie del profondo che sono le parole.
Si potrebbero citare le celebri Voyelles di Rimbaud, o magari le ricerche compiute da René Ghil nel mondo francofono, da Chlebnikov in Russia ‒ o, ancóra, da noi, i forse troppo dimenticati esperimenti di Guido Ballo alla ricerca di una poesia che trasformasse le consonanze e gli accostamenti etimologici in occasione, etimo e sorgente di creazione.
Ma, qui, la ricerca del valore fonosimbolico della parola non si traduce in indiscriminata autonomia del significante, o in cieco automatismo, o viceversa in cervellotica ricerca ad ogni costo dello scarto dalla norma e della distruzione del senso condiviso. Al contrario, la fusione di suono e senso, la motivazione, anche fonico-evocativa, della parola, cercano di superare l'arbitrarietà del segno linguistico, e di fare della parola poetica Verbo incarnato nel senso più pieno e più alto.
Le singole lettere hanno un preciso valore espressivo, o meglio una vasta e versicolore gamma di possibili sfumature, che vengono poste in luce dai loro accostamenti e dalle loro interazioni.
Non è casuale che, nella tessitura fonica dei testi di Rizzini, paia prevalere la R, suono che evoca, secondo gli studi dell'autore, la “ripetizione infinita”, la tessitura del tempo che si eleva e si protrae al di là della contingenza, che diviene, nel proprio stesso reiterarsi e tornare su se stesso, immagine dell'eterno.
Sorriso aurora paradiso amore ora speranza eterne raggio... La tramatura fonica delle R, quasi come il filo o la nervatura di una rete neurale, unisce e fa splendere, da un testo all'altro, una nitida costellazione semantica, tesa fra il tempo e l'eterno.
E, infine, forse non senza un richiamo a simbologie iniziatiche, massoniche o rosacrociane, i passi del poeta divengono danza, e il suo incedere si avvia, oltre il grigiore della materia, oltre l'oscurità dell'oppressione sociale e dogmatica, verso una sorta di nuovo Templum Salomonis; verso la dimora di una sovrastorica, universale fratellanza umana, di cui proprio la comune origine delle lingue (rispecchiata dal valore evocativo e simbolico originario dei suoni, riportato alla luce dalla poesia non meno che dalla scienza) si fa testimone e garante. (M. V.)
Il tuo sorriso era la gioia, il canto
della tua voce fioriva l’aurora
nel paradiso del tuo amore e l’ora
del mio riposo stava nel tuo incanto.
Piccolo nel tuo cuore amato tanto
mi cullavo nel ritmo, ancora e ancora:
non ti fermare mai, cuore d’allora,
anche se il bene mio s’è volto in pianto.
Nomade culla in arido deserto,
tra fredde stelle, batte ancora il suono,
da infinita distanza, dell’amore,
ed io son fitto al suolo ed il perdono
invano forse imploro, fatto esperto,
dal trascendente bene, del mio errore.
********
Una parola buona… ed il sorriso
della tua infanzia ti riscuote. Ancora
sei quello amato da tua madre, allora,
con la sciocca speranza impressa in viso.
Il diaframma del tempo, che ha deriso
la timida innocenza, si scolora:
sei stato amato dentro la tua spora,
e il mondo freddo, no, non ti ha diviso.
Sii calmo e osserva: una parola buona
rinnova in te quello sdegnoso amore
ch’è la sostanza del tuo cuore antico
e lo riporta là, dove risuona
il ritmo consueto, come un fiore
aperto e mosso da respiro amico.
********
Montagne eterne, i vostri rivi sono
come la bocca della donna amata:
intensi e puri. E stendono il perdono,
nell’alba bianca, sulla terra ambrata.
Ascolto i boschi modulare un suono
alto e frequente all’onda, alla ventata.
Ed ecco tra le guglie il sole buono
Inoltrarsi nel ciel di sua giornata.
E sfiorare col raggio luminoso
la cima, là dove lo sguardo cede
tra il vorticoso azzurro e il verde ghiaccio.
Tocca il tuo cielo, astro tempestoso,
sciogli l’antico ghiaccio, e la mia sete
d’acqua soddisfa col divino raggio.
********
Tempeste e neve, ghiaccio, luce e sole,
squallide lame di nevai lontani,
baite piombate in malghe ed in pantani,
rivi rodenti rocce, e prati, e viole,
e sconfinate strade, dove, sole,
sfrecciano le marmotte o serpi strani,
alti silenzi in mezzo agli altopiani
cantatemi armonie senza parole.
Tra cappelle affrescate è bello andare,
balzanti fuor da spopolate ville
coi color forti dell’età di mezzo.
Un pozzo accanto, e un santo da pregare
ogni cappella ostenta, e sono mille
le favole istoriate che accarezzo.
********
Vedrò l’aurora di giornata eterna
dopo la nebbia e il cieco camminare.
Udrò la voce un nome pronunciare
che mi riscuota dalla notte inferna.
E ciò che accade sarà storia esterna:
la serie degli errori naufragare,
disciogliersi nell’infinito mare
dove promessa eterna si discerna.
I crucci e l’odio, il mistero dei cuori,
tutto esposto sarà. Cammineremo
sopra un viale d’alti alberi ombreggiato.
Deposta ogni speranza nel passato,
finalmente a quei rami appenderemo
nomi e sentenze dei perduti amori.
***
Nacqui nel sangue, uscito da una goccia
di sperma. Nei torrenti della luce,
tra il rombo dei cannoni, mi conduce
l’invincibile tempo ad una loggia
aggettante sul mare, incisa in roccia,
dove l’eterno orizzonte traluce
di schiere d’astri, e in quell’oceano adduce
il movimento uman, piccola roggia.
Dal balcone alto il Savio giudicare
costellazioni e rivoluzioni
può certo, e il pianto di colui ch’è nato.
Io più non piango e resto giù, a imparare
sciacquio d’onde, e del vento le canzoni:
le sillabe che m’ hanno perdonato.
***
Bianca città, fulgente in mezzo agli orti,
potrò contare mai i perduti passi
degli abitanti tuoi sui lisci sassi,
e gli echi delle voci nelle corti?
Anch’io compongo i miei segnali ai morti
infiniti che occhieggiano tra i massi,
e cammino nei vicoli e nei bassi,
su catacombe in cerca di risorti.
Nel tuo grembo è fetore, eppure splende,
incontrastata impudicizia al cielo,
la gioventù di vivido cristallo.
E il passo, e la parola che l’accende,
io descrivo, indossato un bianco velo,
e, nel suo sinuoso vezzo, ballo.
Si potrebbero citare le celebri Voyelles di Rimbaud, o magari le ricerche compiute da René Ghil nel mondo francofono, da Chlebnikov in Russia ‒ o, ancóra, da noi, i forse troppo dimenticati esperimenti di Guido Ballo alla ricerca di una poesia che trasformasse le consonanze e gli accostamenti etimologici in occasione, etimo e sorgente di creazione.
Ma, qui, la ricerca del valore fonosimbolico della parola non si traduce in indiscriminata autonomia del significante, o in cieco automatismo, o viceversa in cervellotica ricerca ad ogni costo dello scarto dalla norma e della distruzione del senso condiviso. Al contrario, la fusione di suono e senso, la motivazione, anche fonico-evocativa, della parola, cercano di superare l'arbitrarietà del segno linguistico, e di fare della parola poetica Verbo incarnato nel senso più pieno e più alto.
Le singole lettere hanno un preciso valore espressivo, o meglio una vasta e versicolore gamma di possibili sfumature, che vengono poste in luce dai loro accostamenti e dalle loro interazioni.
Non è casuale che, nella tessitura fonica dei testi di Rizzini, paia prevalere la R, suono che evoca, secondo gli studi dell'autore, la “ripetizione infinita”, la tessitura del tempo che si eleva e si protrae al di là della contingenza, che diviene, nel proprio stesso reiterarsi e tornare su se stesso, immagine dell'eterno.
Sorriso aurora paradiso amore ora speranza eterne raggio... La tramatura fonica delle R, quasi come il filo o la nervatura di una rete neurale, unisce e fa splendere, da un testo all'altro, una nitida costellazione semantica, tesa fra il tempo e l'eterno.
E, infine, forse non senza un richiamo a simbologie iniziatiche, massoniche o rosacrociane, i passi del poeta divengono danza, e il suo incedere si avvia, oltre il grigiore della materia, oltre l'oscurità dell'oppressione sociale e dogmatica, verso una sorta di nuovo Templum Salomonis; verso la dimora di una sovrastorica, universale fratellanza umana, di cui proprio la comune origine delle lingue (rispecchiata dal valore evocativo e simbolico originario dei suoni, riportato alla luce dalla poesia non meno che dalla scienza) si fa testimone e garante. (M. V.)
Il tuo sorriso era la gioia, il canto
della tua voce fioriva l’aurora
nel paradiso del tuo amore e l’ora
del mio riposo stava nel tuo incanto.
Piccolo nel tuo cuore amato tanto
mi cullavo nel ritmo, ancora e ancora:
non ti fermare mai, cuore d’allora,
anche se il bene mio s’è volto in pianto.
Nomade culla in arido deserto,
tra fredde stelle, batte ancora il suono,
da infinita distanza, dell’amore,
ed io son fitto al suolo ed il perdono
invano forse imploro, fatto esperto,
dal trascendente bene, del mio errore.
********
Una parola buona… ed il sorriso
della tua infanzia ti riscuote. Ancora
sei quello amato da tua madre, allora,
con la sciocca speranza impressa in viso.
Il diaframma del tempo, che ha deriso
la timida innocenza, si scolora:
sei stato amato dentro la tua spora,
e il mondo freddo, no, non ti ha diviso.
Sii calmo e osserva: una parola buona
rinnova in te quello sdegnoso amore
ch’è la sostanza del tuo cuore antico
e lo riporta là, dove risuona
il ritmo consueto, come un fiore
aperto e mosso da respiro amico.
********
Montagne eterne, i vostri rivi sono
come la bocca della donna amata:
intensi e puri. E stendono il perdono,
nell’alba bianca, sulla terra ambrata.
Ascolto i boschi modulare un suono
alto e frequente all’onda, alla ventata.
Ed ecco tra le guglie il sole buono
Inoltrarsi nel ciel di sua giornata.
E sfiorare col raggio luminoso
la cima, là dove lo sguardo cede
tra il vorticoso azzurro e il verde ghiaccio.
Tocca il tuo cielo, astro tempestoso,
sciogli l’antico ghiaccio, e la mia sete
d’acqua soddisfa col divino raggio.
********
Tempeste e neve, ghiaccio, luce e sole,
squallide lame di nevai lontani,
baite piombate in malghe ed in pantani,
rivi rodenti rocce, e prati, e viole,
e sconfinate strade, dove, sole,
sfrecciano le marmotte o serpi strani,
alti silenzi in mezzo agli altopiani
cantatemi armonie senza parole.
Tra cappelle affrescate è bello andare,
balzanti fuor da spopolate ville
coi color forti dell’età di mezzo.
Un pozzo accanto, e un santo da pregare
ogni cappella ostenta, e sono mille
le favole istoriate che accarezzo.
********
Vedrò l’aurora di giornata eterna
dopo la nebbia e il cieco camminare.
Udrò la voce un nome pronunciare
che mi riscuota dalla notte inferna.
E ciò che accade sarà storia esterna:
la serie degli errori naufragare,
disciogliersi nell’infinito mare
dove promessa eterna si discerna.
I crucci e l’odio, il mistero dei cuori,
tutto esposto sarà. Cammineremo
sopra un viale d’alti alberi ombreggiato.
Deposta ogni speranza nel passato,
finalmente a quei rami appenderemo
nomi e sentenze dei perduti amori.
***
Nacqui nel sangue, uscito da una goccia
di sperma. Nei torrenti della luce,
tra il rombo dei cannoni, mi conduce
l’invincibile tempo ad una loggia
aggettante sul mare, incisa in roccia,
dove l’eterno orizzonte traluce
di schiere d’astri, e in quell’oceano adduce
il movimento uman, piccola roggia.
Dal balcone alto il Savio giudicare
costellazioni e rivoluzioni
può certo, e il pianto di colui ch’è nato.
Io più non piango e resto giù, a imparare
sciacquio d’onde, e del vento le canzoni:
le sillabe che m’ hanno perdonato.
***
Bianca città, fulgente in mezzo agli orti,
potrò contare mai i perduti passi
degli abitanti tuoi sui lisci sassi,
e gli echi delle voci nelle corti?
Anch’io compongo i miei segnali ai morti
infiniti che occhieggiano tra i massi,
e cammino nei vicoli e nei bassi,
su catacombe in cerca di risorti.
Nel tuo grembo è fetore, eppure splende,
incontrastata impudicizia al cielo,
la gioventù di vivido cristallo.
E il passo, e la parola che l’accende,
io descrivo, indossato un bianco velo,
e, nel suo sinuoso vezzo, ballo.
lunedì 6 giugno 2016
Giuseppe Feola, "Schegge (II)"
I testi che presento sono una specie di fulminante sintesi di certi tratti della tradizione occidentale (ma forse anche con qualcosa delle liriche cinesi) delle forme epigrammatiche e frammentarie, dai lirici greci a Quasimodo a Ungaretti a Penna.
Nel momento stesso in cui si avvicina alla natura (in cui anzi si fa essa stessa natura, in cui la parola si fa visione ed evento, nell'immediatezza delle forme verbali, della sintassi nominale, dei "bianchi" che isolano i sostantivi come cristalizzazioni delle sostanze appercepite, o come "idee" in senso fenomenologico), la poesia ribadisce ed accampa la propria assoluta autonomia, il proprio aurorale valore di "cosa fra le cose", di "cosa aggiunta al mondo", Leben e insieme mehr-als-Leben.
I bianchi, poi, nel momento stesso in cui paiono destrutturare il tessuto metrico del testo ritagliano ed isolano, invece, spesso, emistichi e cola, regolari. La metrica è negata nell'apparenza per essere ribadita nella sostanza profonda, nelle autentiche e radicate ragioni della ritmicità sotto o al di là del ritmo, come in un complesso gioco di entropia e neghentropia. (M. V.)
1
L’inverno – un vello
di nuvole
ricovera il giorno nel sonno:
è culla
del fulmine
a notte.
2
Nelle case: le lampade.
Studenti,
esistenze in attesa,
intente al
futuro.
3
Nelle pozzanghere:
la schiuma
dei giorni
‒ fumo di oggi
che esala al domani.
4
Venti taccole sui rami dell’albe-
ro stecchito: gentile cicaleccio
nero, che oscilla
di voli, nell’azzurro
inverno.
5
Alberi ancora secchi
tra campanili e case:
le loro braccia insistono al silenzio;
sulle dita, dialogo
d’uccelli:
voci primaverili della luce.
6
L’ala della libellula
canta la luce:
voracità dei
giorni, che cresce di ritmo di Sole e
sfiorisce.
7
Volo di gabbïani,
da ovest:
vista,
nel cielo
lontano,
dell’invisibile mare vicino.
8
Solitudine: un cerchio
affollato di voci;
un balcone da cui
non si affaccia nessuno.
9
.
Azzurro fosforo
di questo tramonto: si cambierà in
ceruleo e nero.
Nuvole. Bianche
ali di gabbiani che se ne vanno.
10
Crescono i cardi col lume del Sole
negli occhi:
cerulei guarda-
no la prole dell’uomo,
che passa.
11
La città vecchia immobile
nel pomeriggio del sabato estivo:
lenzuola stese nel cielo;
risveglio
beato, sotto l’azzurro del Tutto.
12
Da undici anni
combatto
col senso da dare alla vita;
spenta
la sigaretta: tra i denti, la cenere
mangio; la birra,
finita.
13
Il fremito delle foglie, sfiancate
dalla calura.
Instancabile suona,
lì in alto, la
corda della cicala.
14
Voli di corvi
e gabbïani, sul tetto di fronte;
la mezzaluna nel cielo diurno:
raduno
di azzurre, mobili vite, sul petto, nel-
l’occhio del Sole.
15
Il rombo immane
di foglie nel vento:
ode unanime al tempo
di diecimila vite
votate al-
la morte.
16
Il dono della notte a chi è solo.
La danza delle stelle:
la lontananza, il volo.
Nel momento stesso in cui si avvicina alla natura (in cui anzi si fa essa stessa natura, in cui la parola si fa visione ed evento, nell'immediatezza delle forme verbali, della sintassi nominale, dei "bianchi" che isolano i sostantivi come cristalizzazioni delle sostanze appercepite, o come "idee" in senso fenomenologico), la poesia ribadisce ed accampa la propria assoluta autonomia, il proprio aurorale valore di "cosa fra le cose", di "cosa aggiunta al mondo", Leben e insieme mehr-als-Leben.
I bianchi, poi, nel momento stesso in cui paiono destrutturare il tessuto metrico del testo ritagliano ed isolano, invece, spesso, emistichi e cola, regolari. La metrica è negata nell'apparenza per essere ribadita nella sostanza profonda, nelle autentiche e radicate ragioni della ritmicità sotto o al di là del ritmo, come in un complesso gioco di entropia e neghentropia. (M. V.)
1
L’inverno – un vello
di nuvole
ricovera il giorno nel sonno:
è culla
del fulmine
a notte.
2
Nelle case: le lampade.
Studenti,
esistenze in attesa,
intente al
futuro.
3
Nelle pozzanghere:
la schiuma
dei giorni
‒ fumo di oggi
che esala al domani.
4
Venti taccole sui rami dell’albe-
ro stecchito: gentile cicaleccio
nero, che oscilla
di voli, nell’azzurro
inverno.
5
Alberi ancora secchi
tra campanili e case:
le loro braccia insistono al silenzio;
sulle dita, dialogo
d’uccelli:
voci primaverili della luce.
6
L’ala della libellula
canta la luce:
voracità dei
giorni, che cresce di ritmo di Sole e
sfiorisce.
7
Volo di gabbïani,
da ovest:
vista,
nel cielo
lontano,
dell’invisibile mare vicino.
8
Solitudine: un cerchio
affollato di voci;
un balcone da cui
non si affaccia nessuno.
9
.
Azzurro fosforo
di questo tramonto: si cambierà in
ceruleo e nero.
Nuvole. Bianche
ali di gabbiani che se ne vanno.
10
Crescono i cardi col lume del Sole
negli occhi:
cerulei guarda-
no la prole dell’uomo,
che passa.
11
La città vecchia immobile
nel pomeriggio del sabato estivo:
lenzuola stese nel cielo;
risveglio
beato, sotto l’azzurro del Tutto.
12
Da undici anni
combatto
col senso da dare alla vita;
spenta
la sigaretta: tra i denti, la cenere
mangio; la birra,
finita.
13
Il fremito delle foglie, sfiancate
dalla calura.
Instancabile suona,
lì in alto, la
corda della cicala.
14
Voli di corvi
e gabbïani, sul tetto di fronte;
la mezzaluna nel cielo diurno:
raduno
di azzurre, mobili vite, sul petto, nel-
l’occhio del Sole.
15
Il rombo immane
di foglie nel vento:
ode unanime al tempo
di diecimila vite
votate al-
la morte.
16
Il dono della notte a chi è solo.
La danza delle stelle:
la lontananza, il volo.
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natura,
poesia
domenica 20 marzo 2016
Gian Ruggero Manzoni. I segni oltre il tempo di un pittore-poeta
Chi pensa che la Transavanguardia altro non sia, come a volte si legge, che vuoto formalismo, citazionismo fine a se stesso, sterile gioco stilistico, inerte ritorno figurativo dopo i tumulti e i soprassalti e le lacerazioni delle avanguardie, non potrà che ricredersi di fronte alle opere di Gian Ruggero Manzoni, in mostra ad Imola, alla Bottega Gollini (www.bottegagollini.it), fino al trentuno di marzo (così come, del resto, di fronte alle immagini, ora di una figuratività esile, diafana, quasi fantasmatica, eppure proprio per questo intensamente evocativa, ora di un cromatismo acceso e vitale, di una vivacissima, elettrica e vibrante impazienza di forme e di linee, con cui Mimmo Paladino ha accompagnato, o meglio
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