martedì 15 novembre 2016
Elisabetta Brizio, "Imbecille c'est moi"
(immagini di Massimo Sannelli, senza titolo)
C’è un momento nelle nostre vite in cui si incontrano delle resistenze, qualcosa che ci cambia sensibilmente. Forse non ce la siamo proprio cercata, tuttavia potrebbe essere l’occasione per il raggiungimento dell’autocoscienza, così da sollevarci dalla nostra innata condizione di imbecillità. Perché imbecilli lo siamo per natura, lo siamo e lo siamo stati un po’ tutti, tanto che Maurizio Ferraris non esita a parlare o a testimoniare in proprio, non risparmiandosi autoaccuse lungo il testo, replicando inoltre a obiezioni possibili, come qui, nelle righe conclusive del Prologo («Tu quoque trascendentale»): «‘e allora perché, malgrado tutte queste giudiziose considerazioni non si ferma qui, e vuole andare avanti per quattro capitoli e un epilogo?’. ‘A te la risposta, ipocrita lettore, mio simile (senza offesa) mio fratello’». Oppure più indietro: «quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare […] per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a delle moltitudini?». L’imbecillità è una cosa seria (Il Mulino, Bologna 2016) appare piuttosto un attestato di umiltà da parte di Ferraris, il titolo di questo libro comporta un certo rischio, la questione è spinosa, imbarazzante, visto che l’imbecillità «è il richiamo dell’abisso e del negativo e, insieme, del solo vero». Di conseguenza il tono oscilla tra partecipazione emotiva e reazione iconoclasta. E spesso figure e situazioni paradigmatiche sembrano quasi ergersi al posto della denuncia diretta, sembrano cioè parlare per l’autore, così che l’imbecillità si ostenti e si esemplifichi da sé.
L’imbecillità è una cosa seria, ben più seria della follia. Non ha nulla in comune con la hýbris degli antichi. La hýbris porta alla ate, all’accecamento, all’oscuramento delle facoltà razionali dell’eroe tragico. Tra gli antichi ‘imbecille’ sporadicamente assumeva una caratterizzazione negativa. L’imbecillità non è paragonabile alla follia perché questa è l’eccezione e rientra nella sfera del patologico, la sua sintomatologia si fa esplicitamente evidente, ha una estensione più ridotta. L’imbecillità come condizione d’essere dell’umano, ingenita come un peccato originale che stiamo ancora scontando, è invece dispiegata, polimorfa, spesso mascherata, e quindi non sottoponibile ad anamnesi, né medicalizzabile. Irremissibile e immedicabile là dove si esprime come «cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi». In questi termini è qualcosa di intenzionale, dunque è una colpa, paradossalmente che più risuona e stona tra chi ha presunzioni di carattere intellettuale. All’orizzonte del male sta l’imbecillità, che non è questione di ignoranza o di cultura. «In un circolo ermeneutico – Ferraris dice – si chiarisce non solo che il male è frutto dell’imbecillità, ma che l’imbecillità deriva dal male».
Con la modernità sembriamo più imbecilli dei nostri predecessori, quasi fosse da ricercare nel progresso tecnico – oggi per lo più i media – la radice e l’inflazione della imbecillità moderna, altrimenti detta «imbecillità di massa». Gli attuali media insomma, i quali, al contrario, ci offrono l’opportunità di avvicinarci al «nesso tra cultura ed esempio individuale»: il web è anche una immensa biblioteca facilmente accessibile, l’esempio individuale sarebbe a tutti noto e forse prima o poi emulato. Se con il primo assunto Ferraris chiudeva Mobilitazione totale (Laterza 2015), con il secondo si avviava alla conclusione di Emergenza (Einaudi 2016), tanto per dire che non c’è iato ma continuità tra questi lavori e L’imbecillità è una cosa seria, che anzi appare forse più il presupposto che il prolungamento dei precedenti. Un libro ‘sentito’, non l’estro di un momento, e tutt’altro che eccentrico nella prospettiva di Ferraris, che si lega alla sua riflessione sia di carattere antropologico che speculativo – ambiti che si intrecciano sullo stesso terreno – di questi ultimi anni. Come nelle «Parole chiave» in appendice a Mobilitazione totale, si fa ancora più esplicita l’interrelazione mutua tra i vari passaggi della sua linea di pensiero, il loro raccordarsi sempre più organico.
Mai come in passato disponiamo degli strumenti per emanciparci, bisogna soltanto saperli usare. Non sembra quindi cogliere nel vero quella cultura che si ostina a non scindere la diade tecnica-alienazione. La cultura dell’alienazione, che vede nella tecnica un agente estraniante l’umano, inciampa con l’evidenza e assomiglia a un alibi protratto, è una maniera di falsare il fondo della questione, il distogliere cioè lo sguardo dalla nostra incompletezza che tendiamo a travestire di sogni di appropriazione del mondo. È un arretrare dalle nostre responsabilità. È accettare acriticamente ed evasivamente l’idea per cui siamo imperfetti perché siamo sviati dalla tecnica.
Insomma, imbecille a chi? Etimologizzando, per così allontanare ogni ambiguità semantica, ‘imbecille’ – ci ricorda Ferraris – discende da in-baculum, cioè «colui che è privo di bastone», dunque stiamo parlando di una inadeguatezza naturale, di una dipendenza. Imbecille, allora, è l’umano in-baculum, vale a dire l’umano in quanto tale, l’uomo comune così come l’intellettuale che si distingue dall’uomo comune. Sfilano qui innumerevoli gli attestati di «imbecillità di élite». Assunta nella categoria di élite l’imbecillità, Ferraris osserva, «sembra più acuta, più eccellente – insomma più scelta ed elitaria – della imbecillità di massa». Tuttavia, se nell’utente c’è una aspettativa maggiore da parte dell’élite intellettuale, in qualche caso stupisce come dei grandissimi del pensiero abbiano potuto contestualmente incarnare genio e follia. Quando avvertiamo un certo stridore tra manifestazioni di genio stragrandi, di uomini passati alla storia, geni della scienza e anime belle, che si alternano a esternazioni sconcertanti, ad apparizioni clownesche, secondo un andamento dapprima intensivo che culmina nel colpo di genio, poi declinante, che genera quel «colpo di imbecillità» deludente ma insieme consolante.
Dell’imbecillità altrui si ride, anzi, essa sembrerebbe la sola tragedia risibile, ma non in questo libro, benché qualche sorriso ci scappi, tuttavia solo nella immediatezza cui subito succede la versione della cosa in termini tragici. Qui non si ride davvero perché Ferraris, vista la materia, cioè un difetto che fa intimamente parte dell’umano, pone in opera il sentimento del contrario, oltrepassa cioè l’avvertimento del lato comico dove ancora non è intervenuta la coscienza. Ma il nostro difetto maggiore è quello di non ammettere la stortura insita nell’umano. Imprechiamo contro una sorta di Moloch, variamente designato, cui riversiamo o deleghiamo ogni colpa, oppure ogni ragione di ciò che siamo. Si stenta a nominarlo, o lo si introduce in una nomenclatura eterogenea che lo definisca: capitale, mercato, tecnica, alienazione, falsa coscienza, eccetera, flatus vocis, nomi caratterizzati da una irrelazione di fondo e che convengono in una illazione madornale, nel misconoscimento cioè della dipendenza (ancora, in-baculum), il vero nome da porre in valore, il tratto tipico dell’animal-umano. Ma la dipendenza non è qualcosa di mostruoso o di negativo se prima o poi viene riconosciuta. È l’origine di altri progetti di esistenza.
Ora, se da un lato, con l’avanzamento della tecnica, è più facile cogliere «il nesso tra cultura ed esempio individuale», dall’altro, per l’istantanea registrazione di ogni nostro intervento online, assistiamo a una enorme addizione di imbecillità, al dispiegamento di una «imbecillità iper-documentata». Il punto però non è la digitalizzazione della vita, la tecnica alienante, quanto l’espressione di una forma di servitù volontaria che spinge ad esibirci nella rete, recipiente e serbatoio di sfogo delle nostre pulsioni o aspirazioni o finalità di differente natura, fino alla satura dei fenomeni creativi. «L’ultimo rifugio dei vigliacchi, la comunicazione», dice Francesco Gregori in L’aggettivo «mitico»; il problema però è che questa comunicazione, di qualsiasi genere essa sia, non è delebile, bensì sempre documentabile in quanto registrata. Non siamo ottenebrati da ideologie o da una falsa coscienza, semplicemente scegliamo di esporci senza che qualcuno abbia chiesto il nostro parere o ci abbia illusi oppure indotti a intemperanze o ad errori di cui potremmo all’infinito vergognarci. È l’eseguibilità tecnica, che permette l’istantanea registrazione, a muoverci e a facilitare ogni desiderio di dire la nostra. Così – consumata fino in fondo la critica totale della bontà dello stato di natura, dell’interruzione della continuità uomo-natura ad opera della tecnica – la tecnica altro non è che la manifestazione diretta di quello che siamo, cioè spesso cognitivamente deficitari. Ferraris scrive: «La storia, più che storia dell’Alienazione, della caduta da una condizione perfetta, è storia della Rivelazione, ossia della manifestazione di ciò che sono gli umani, ossia degli esseri sottoposti e cognitivamente non dotatissimi a cui può accadere di essere liberi e intelligenti».
L’imbecillità è una cosa seria perché è il proprium dell’umano. Sicché la nostra emancipazione sarebbe ipotecata in partenza? L’emancipazione è possibile, ad esempio ora, per il regresso dell’analfabetismo, potremmo contare meno imbecilli rispetto al passato. Mentre per via delle potenzialità dei nuovi media questa categoria tende a generalizzarsi destando ancora più clamore. È possibile il progresso, però guardandosi preliminarmente dal falso progressismo e da quel conservatorismo che insiste sulla difficoltà dell’uomo a uscire dall’infanzia, stretto dal bisogno di funzioni direttive, cioè in pratica ansioso delle catene, magari alonate da un’aura di paterna indulgenza smaccatamente usata come strumento di intimidazione sotto le false spoglie di uno strumento di consenso. Per poi risultare esso stesso – il conservatorismo – un contesto di maturazione e di esibizione di «imbecillità sovrana» che pareggia l’imbecillità di massa. Dominanti e dominati, entrambe le parti sono inclini al reciproco perdono.
Sentire su di noi, con Baudelaire, «il vento dell’ala dell’imbecillità». La prospettiva dell’allentarsi della resistenza della coscienza può aver luogo con l’esatta cognizione dello scacco, della «ferita», della «scottatura» che ci indurranno a una posizione emendativa. L’avanzata verso l’intelligenza è favorita da una reazione intellettuale e vitale a un trauma, per cui la consapevolezza della imbecillità è la nostra grande occasione. Così Ferraris: «È proprio la ferita […] che mobilita in massimo grado le risorse intellettuali di un essere umano che scrive al limite della propria demenza, e che diviene particolarmente sensibile all’imbecillità fuori di sé».
Esiste una «dialettica dell’imbecillismo», negativa e aporetica: l’imbecillità è lo stimolo per un progresso che promuove e innova altrettanta imbecillità. La dialettica dell’imbecillismo non si compone, e resta una tensione senza assestamento e senza Aufhebung. Da un lato l’uomo in-baculum è alla ricerca di una sua autonomia, dall’altro egli appare culturalmente inadeguato anche da un profilo culturale, quando «cerca di trarsi dalla sua condizione, diventare, per dir così, un imbecille incompiuto e infinito, un imbecille in divenire». L’«imbecille naturale» è inoffensivo rispetto all’imbecille «artificiale», «tecnologico», sul quale pesano furbizia, velleitarismo, scontento, frustrazione. Come se ne esce, allora? Rinunciando a speranze palingenetiche non realizzabili nel breve periodo, e riconoscendo nel nostro difettare la sola forza per il progresso della ragione.
E venendo al punto dolente, o alla domanda cruciale: «può un imbecille essere intelligente?». La risposta è ovviamente affermativa, visto che c’è una reazione agli esempi di imbecillità, se non altro, messi di fronte all’errore eviteremo di imitarlo, o di ripeterlo se partito da noi. Si dice: il riso abbonda sulla bocca degli stolti, ma l’assenza del senso del ridicolo ci riconsegna all’imbecillità. In linea con questo criterio è auspicabile una Phänomenologie des Witzes, non meno rilevante della Phänomenologie des Geistes, perché avere senso del ridicolo ci consente di ridere di noi, e di sentire il contrario del comico, di elevarci dunque dal sub limen della coscienza. Di riorientare il riso in autoderisione piuttosto che volgerlo immancabilmente verso l’esterno, fino a convincerci che spesso siamo proprio noi ad essere coperti di ridicolo. In altri termini, di riuscire a dire, rivolti a noi: «imbecille sarai tu». Quando la ragione ci chiederà cosa ci sia da ridere o da piangere le cose potrebbero cominciare ad andare per il verso giusto. E Ferraris scrive, «l’autocoscienza va di pari passo con la scoperta della mediocrità». Meglio allora non presumere di noi, meglio esimersi dall’inseguire una eccezionalità che non porterebbe da nessuna parte. Poi il sublime arriverà, sempre che si riesca a sorprenderlo in segni che ne marchino l’inizio – perché esso balena ineffandosi, o forse noi non eravamo presenti – e distinguerlo dal ridicolo con cui condivide il suo status.
Elisabetta Brizio
Per acquistare il libro: https://www.ibs.it/imbecillita-cosa-seria-libro-maurizio-ferraris/e/9788815266361
Etichette:
comunicazione,
follia,
imbecillità,
Maurizio Ferraris,
media,
nuovo realismo,
pensiero
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.