domenica 20 marzo 2016
Gian Ruggero Manzoni. I segni oltre il tempo di un pittore-poeta
Chi pensa che la Transavanguardia altro non sia, come a volte si legge, che vuoto formalismo, citazionismo fine a se stesso, sterile gioco stilistico, inerte ritorno figurativo dopo i tumulti e i soprassalti e le lacerazioni delle avanguardie, non potrà che ricredersi di fronte alle opere di Gian Ruggero Manzoni, in mostra ad Imola, alla Bottega Gollini (www.bottegagollini.it), fino al trentuno di marzo (così come, del resto, di fronte alle immagini, ora di una figuratività esile, diafana, quasi fantasmatica, eppure proprio per questo intensamente evocativa, ora di un cromatismo acceso e vitale, di una vivacissima, elettrica e vibrante impazienza di forme e di linee, con cui Mimmo Paladino ha accompagnato, o meglio
profondamente compenetrato, i poèmes en prose, narrativi e insieme visionari, concreti eppure sapienziali, di Tutto il calore del mondo, libro di Manzoni del 2013, edito da Skira).
Aveva ragione Giovanni Testori a definire l'artista, pittore-poeta, “un angelo che per scelta si è gettato nell'abisso”.
Il suo pensiero altissimo, remoto, sovrastorico, tramato di segni che sono prima del tempo e dopo il tempo, inscritti, quasi, nella logica assoluta degli archetipi primordiali e sempre rinnovati, si cala, tanto nella pittura quanto nella scrittura ‒ raramente, credo, così interpenetrate, coimplicate, specchio l'una dell'altra, volti di una stessa erma, come in lui, ben al di là del canonico, schematico, meramente esteriore ut pictura poesis ‒, in una materia cromatica accesissima, ardente, ribollente, tumultuante, come nell'athanor dell'alchimista o nell'antro, mortale e insieme uterino, dello sciamano.
Sono, i suoi, come scrive Maria D'Auria in due quintessenziali pagine incluse nel catalogo (Edizioni del Bradipo, Lugo 2015), una parola-luce, uno sfolgorante Verbo-Parola originario, quasi come il fiat lux che, al principio dei tempi, fece emergere l'ordine e il senso dalla materia informe ‒ Voce, “evento sonoro”, la Parola del Creatore, che generò un'”epifania luminosa”, allo stesso modo che l'evento sonoro stesso, la phonè lungamente meditata e infine febbrilmente proferita, del dire poetico si traduce in figurazione, e viceversa (si pensa, quasi, alle baudelairiane harmonies de la couleur ‒ qui, però, lontane dalla sublimazione in pura musica dell'analogismo simbolista, e anzi sollecitate, straniate, alterate da una pulsione, da un'inquietudine che sembrano, per un'intima energia dinamica, far andare l'immagine al di fuori di se stessa, oltre i limiti del quadro o incontro allo sguardo dell'osservatore, fino ad invaderlo, quasi ad arderlo).
E alle figurazioni ridotte all'essenziale (ma ad un essenziale tutt'altro che rassicurante, tutt'altro che pacificamente limpido, e al contrario corporeo, carnale, quasi cruento ‒ benché di una corporeità alienata nella geometrizzazione, eppure spesso ferita, sanguinante, allucinata) si affianca l'emergere dei segni grafici ‒ di grafemi originari, arcaici, aurorali, fra l'istintualità della traccia incisa e la logica embrionale, ma già avviata alla formalizzazione, del proto-ideogramma, ricordi esso le maschere africane dei Dogon, gli ideogrammi cinesi della rappresentazione umana, le figurazioni astrali dei segni Sumeri ‒ segni, grammata in ogni caso evocanti il rapporto dell'umano al trascendente, del tempo all'eterno, del Chronos all'Aiòn, del transeunte a ciò che permane, che esisteva prima dell'istante perenne del gesto creatore eternato e continuerà ad esistere dopo di esso, eppure insieme ad esso.
E vengono in mente, qui, le pagine memorabili di Emilio Villa intorno all'”arte dell'uomo primordiale”, fra istinto di figurazione, bisogno primario di testimonianza e simbologia già avviata, quasi per un'interna forza, per una potenzialità insita, per una sua luce racchiusa e rappresa, ad entrare nella sfera del semantico, della significazione, della testimonianza-messaggio; e, per pura azzardosa ma irresistibile analogia, i Sassi delle Limentre, nell'Appennino toscano ‒ pareti quasi irraggiungibili, concavi millenari uteri di pietra sulle cui sponde ‒ con un'aggregazione vorticosa, vertiginosa, quasi sinistra e insieme fascinosa, numinosa ‒ ad un primo, lontanissimo sostrato, forse addirittura preistorico, di segni primordiali, di miti ormai indecifrabili si sono sovrapposti e intrecciati, nei secoli, altri strati di segni, croci losanghe coppelle, ingenue figurazioni astrali, forse propiziatorie, lettere etrusche ‒ forse acronimi ormai oscuri ‒, forse rune, infine simboli del sacrificio cristiano e dell'invocazione votiva.
L'infanzia, la perenne infanzia da puer aeternus, a cui sembrano alludere alcune delle figurazioni di Manzoni è, in realtà, tutt'altro che evasione verso un perduto paradiso d'innocenza; è, al contrario, precisamente la condizione del fanciullo freudianamente “perverso polimorfo” ‒ come polimorfi, proteiformi sono questa materia pittorica vibrante e questo spazio figurativo fluente e mosso e distorto, “immagine mobile”, forse, si potrebbe dire con la cosmogonia platonica, “dell'eternità”, perenne nascere e morire e rinascere e rimorire di perturbati, e perturbanti, archetipi.
Viene voglia di rileggere, avendo ancora i dipinti negli occhi, il libro citato, Tutto il calore del mondo.
Libro che, non per nulla, reca in esergo un passo dell'Eternité par les astres di Louis-Auguste Blanqui (autore su cui dovettero meditare tanto Baudelaire quanto Nietzsche e Benjamin), dove si immagina che la terra, e ogni singolo e minimo luogo gesto istante sulla terra, siano destinati a ripetersi eternamente, ciclicamente sprofondando “nelle fiamme che li rinnovano”, che li dissolvono per infondervi nuova vita ‒ distrutti, essi, come la Fenice, dalla stessa energia che li rigenera.
Nel teatro del libro si avvicendano, strette come in un vasto abbraccio, in una notturna danza, le vittime diverse e molteplici della violenza inesausta, del perenne stupro che è la storia ‒ dal bambino russo trucidato dai nazisti per risalire, a ritroso, fino ai Galli lasciati morire di fame da Cesare nel vuoto fra gli schieramenti avversi, e la cui sorte sarebbe stata comunque quella di essere divorati, morti o morenti, per sostenere la sopravvivenza di quanti erano ancora abili alla guerra, e dunque a loro volta abili alla morte inflitta o subìta ‒ ma è evocata anche, indirettamente, fra le tante tragedie ebraiche, quella dell'assedio di Masada narrato da Giuseppe Flavio, dove la pietà e il tremore quasi sofoclei, oiktos e phrike, che colgono i soldati romani alla vista d'intere famiglie consumate dall'inedia non impediscono loro, poi, di fondere, come in un insensato rogo sacrificale, sangue e fiamme, phlogos e phonos.
“La mia testa... la mia testa arcaica, che contiene tutte le voci del mondo, di chi fu, di chi è e di chi sarà in un fiato”. Il punto “a cui tutti li tempi son presenti”, come dice Dante, sembra sciogliersi e dissolversi in fiato, flatus vocis, pura parola, nel filo sottile eppure potente della parola-segno affidata al respiro, all'animus dell'interpretazione.
“Gli assedianti di Alesia divennero a loro volta assediati”. Il divenire, o meglio il ricorrere, degli eventi si inanellano “in un ribaltamento continuo di ansimi, in un mutare perenne di abiti, di allievi, d'insegnamenti e di parti”.
La Storia è Bestia, è “lurida puttana”. “La vanitas non è che il crogiolo di quello strazio”. Una vanitas che è sì la vanitas vanitatum, l'insensatezza inerte del ripetersi, dell'Ecclesiaste; ma è anche, letteralmente, il vuoto della storia, lo spazio e la scena e il teatro osceno e insensato di quella morte d'innocenti nella terra di nessuno, nel puro spazio inviolato senza tempo né direzione né nome, nel non-luogo che s'interpone fra i due accampamenti ‒ e l'invalicabile vallum, fatto spietatamente presidiare da Cesare, che si frappone fra l'innocente e la salvezza, e simboleggia l'imperturbabilità del potere che assume il volto impassibile del Male.
Ma l'eterno ritorno può essere fonte, oltre che d'ossessione, anche di una speranza d'immortalità. “Universo che genera universo. Cosmo che entra nel cosmo. (…) Archeologo, voce femminea che da madre cerca nella madre il compito per continuare”. Le iterazioni fonosemantiche e ritmiche sono microcosmo verbale che rispecchia il cosmo universale, con i suoi silenziosi moti, come il segno figurativo è riflesso, e insieme soglia, di un oltre. Scrittura immagine segno parola-grafema come veicolo della goethiana discesa al Regno delle Madri. Che incarnano il passato, che hanno dato la luce e il buio a ciò che è morto ‒ ma dalle quali potrà forse sgorgare nuova vita.
La parola, emblematicamente, sembra sopravvivere al messaggio e a chi ne è portatore; sembra andare oltre se stessa, violando e consumando il proprio limite. Del messaggero che doveva portare a Roma la notizia della vittoria di Alesia non si seppe più nulla. “L'ardere del mondo lo travolse, perché la notizia mai termina nella parola, infatti lei sempre, oltre la morte”. “...e così si dirà che ho vissuto / nell'accudire la parola...”. L'artista, il maestro dei segni e della significazione, è il proprio stesso messaggio, e insieme lo sollecita ‒ in un costante superamento, in una morte dell'arte intesa come sua Aufhebung ‒ a protrarsi oltre se stesso.
Come la Parola divina, così la parola poetica è sempre in cammino, Logos erchomenos, oltre la morte e oltre la vita. Il nostro sguardo è già quello dei posteri. E, nell'assoluto tempo intemporale della visione-lettura, noi siamo posteri di noi stessi.
Matteo Veronesi
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
articolo interessante, molto competente e ricco di riflessioni che non mancgero di approfondire, grazie, Gigi Foschini
RispondiElimina