sabato 24 dicembre 2016
Elisabetta Brizio, "Senza intensità, nulla. L’assoluto di Massimo Sannelli"
Il punto di partenza di quest’opera potrebbe essere la conclusione, cioè gli Appunti su Rebis. Rebis è res-bis, una cosa doppia, l’androgino, un concetto dell’alchímia. Rebis è Sannelli stesso, e precisamente è il nome che ha dato al sé bambino, dopo la ‘reincarnazione’, benché questa parola non fosse la piú appropriata. La coscienza è defunta, i frammenti si compongono di nuovo dopo gli anni, ma non vanno a formare l’anima, bensí spazzatura mnestica che si rapprende. Ciò che caratterizza Rebis lo scrissi per Intendyo: «una prestazione intellettuale nettamente superiore alla media» (pagella scolastica, prima elementare) e una buona memoria in un corpo che tende a isolarsi e a prendere familiarità con la solitudine. A vivere proficuamente in disparte. L’essenziale, si dice nell’Assoluto, è non essere «troppo lirici quando si esalta la solitudine, e anche il silenzio».
Viene da sé la domanda: qual è in Massimo Sannelli il nesso tra una solitudine cercata e inevitabile, condizione ideale e condanna, e la continua ricerca di un pubblico, culmine del suo esercizio costante? Apparentemente la risposta è banale, anzi banalissima: Sannelli cerca un pubblico per sfuggire alla solitudine. Troppo banale, anche perché sappiamo che lui pone l’esistenza di un pubblico come condizione necessaria dell’esistenza dell’opera – e per contro, quasi superflua diviene la funzione del critico. In assenza di un pubblico non potrebbe esservi opera; anche di qui le sue riserve verso l’essere poeta, che resta una questione troppo privata. Ma l’interrogativo è questo: Sannelli, che detesta l’idea del senza-pubblico, ama davvero il suo pubblico? Non sappiamo, possiamo solo dedurre che ami i suoi allievi, questo indubbiamente sí. Nel libro incontriamo diversi riferimenti al vuoto, e per Sannelli il vuoto è essenzialmente, appunto, lo spazio senza pubblico e quindi senza vita. La vita è pericolosamente identificata con la produzione di arte, e la produzione di arte è identificata con il suo effetto. Scrivere per se stessi per lui non è concepibile: non abbiamo a che fare con un artista che tiene il libro nel cassetto, non è un mistico se non nella serietà del suo lavoro.
Che cos’è L’assoluto? L’ho percepito come il racconto di una emancipazione rispetto a uno stile che non sia, senza scomodare d’Annunzio, una forma singolare del vivere, la vita-capolavoro, come Sannelli ha detto. E qui leggiamo: «biglietto all’editore [...]: Ora ti lascio, sai? / Io non sarò piú un redattore / Non è una cosa singolare / e io voglio solo quella». L’assoluto è soprattutto il racconto del sottrarsi a condizioni, dello sciogliersi da «rapporti padroni», da opere ormai rifiutate, dal «giovenile errore». In un momento della sua vita Sannelli si chiede, come Guido Gozzano: «Pochi giochi di sillaba e di rima: / questo rimane dell’età fugace? È tutta qui la giovinezza prima?». A questa perplessità seguiva l’atto tutt’altro che sconsiderato del disconfermare alcune sue opere, la prospettiva radicale del tutto o niente. L’assoluto è allora un’altra stazione del racconto della conquista della regalità su di sé, della dimensione indipendente del compos sui («re nel mio spazio»). Qui ‘assoluto’ è l’incondizionato un po’ wagneriano che viene assunto a qualificare cose eterogenee, credo che l’idea centrale si focalizzi proprio sul percorso discontinuo, e per niente indolore, di questo sforzo per absolvere se stesso da legami fatuamente vincolanti e dai lori esiti creativi.
Da rilevare l’anomia che inerisce a quest’opera, incondizionata e difficilmente caratterizzabile. Ciò risponde a una determinata intentio operis che postula il tramonto dei generi e delle distinzioni canoniche tra le varie forme di arte. Per Sannelli è quasi sacrilego marcare i margini delle varie arti: «dov’è la regola e per chi è la regola?».
In questi termini, L’assoluto è un diario? Non direi, per lo meno non del tutto. D’accordo, a un certo punto l’autore scrive «Caro diario». Ma più avanti scrive: «Un diario deve esporsi, anche nel futuro. Il resto è un’agenda». Se un paio di volte si rivolge «a se stesso» (stilema fatto suo, anche nei versi), tutto il resto a chi è rivolto? In molti casi ricorda, racconta («se io non lo dico non si sa»), presuppone un interlocutore, un ‘tu’, la donna (rosa-eros, ma «l’anima dice che non c’è felicità sessuale – non c’è mai stata»), presuppone un pubblico. Naturalmente la donna non è generica, e le sue iniziali, per chi le sa, appaiono sepolte in qualche gioco di parole. Il suo nome proprio appare, piú o meno, nella emblematicità dell’aggettivazione.
Una delle istanze piú categoriche di Sannelli è lo stile, che per lui è una espressione non necessariamente verbale, soprattutto non è qualcosa sub specie artis ma una questione reale, fattuale, biologica: forte è il richiamo della biologia nel fenomeno estetico. Una questione onnipervasiva e non strettamente estetica, tanto che se c’è un sistema di questo autore, forse il suo principio basilare è l’insostenibilità dell’arte come fatto esclusivamente estetico. «Amo gli esempi vitali quanto le opere d’arte», Sannelli dice in un’intervista, che non a caso è per la newsletter dell’Associazione Elisabetta d’Austria. Nella scrittura è, per cosí dire, anti-proustiano, intendo dire del Proust del Contre Sainte-Beuve. Mette in piazza parecchi referti del sé deperibile e senza enfasi – l’enfasi, artificializzando, è sempre profondità apocrifa, e Sannelli la riempie «con errori, rumori e rime, cosí l’enfasi è umiliata» – li mescola con la sua anima originale, forse perché, spesso dice, «tutto è in tutto». Quindi ‘assoluto’, in un certo senso, è assunto anche nell’accezione di ‘totalità della realtà’. Allora, biografia e accadimenti personali, città e la loro aura, esperienze private ed estetiche, riflessioni e affondi anche crudeli confluiscono e prendono un ritmo. Perché anche qui la musica è sempre assolutamente presente («ogni loop è un’esibizione, morbida o no: davvero, ogni loop è un’ossessione»), e mai in termini dilettantistici. Ma quando finisce una melodia? Si chiedeva il visitatore del narratore di Canone inverso: «Spesso mi sono chiesto quanto impieghi l’ultima nota di un brano musicale a spegnersi del tutto. Non solo fisicamente, come vibrazione sonora, ma come vibrazione emotiva. Chi può dirlo?». Bellissima domanda, per me. Tuttavia, credo, domanda oziosa per Sannelli, perché per lui la melodia non finisce mai, meglio, finisce con noi, in quanto è assimilabile all’anima, e lui sembra condividere l’idea che sia l’anima a fare il corpo.
Certo, il libro è ‘urticante’ (per usare una parola che Sannelli deriva dalle sue continue letture di Pasolini), e per diverse ragioni. Ad esempio: come accettare l’amalgama di sesso e reincarnazione? Tenendo presente che per Sannelli la reincarnazione è una metafora, mentre il sesso è un fatto compiuto. E la combinazione di solitudine sdegnosa (come Guido Cavalcanti nella novella VI 9 del Decameròn) e di ambizione, che gode di avere piú pubblico, tanto pubblico? Questa mescolanza comprende inoltre una tensione politica non propriamente sinistrorsa e neppure destrorsa. Sannelli è uno che rimpiange il Re Sacro, quello che potrebbe immolarsi in una guerra mostruosa e giusta. Ed è probabile che rimpianga piú Federico II che Francesco Giuseppe, tanto per dire. In ogni caso, chi studia e rispetta l’imperatrice Elisabetta d’Austria e la body art, Joë Bousquet e Jodorowsky, Giacinto Scelsi e il free jazz è altrettanto inclassificabile, alla maniera delle sue opere. Chi avrebbe osato, nel 2016, scrivere un libro come Poesie nello stile del 1940? E per di piú pubblicarlo in forma di e-book, trascurando del tutto qualsiasi appoggio editoriale? E anche L’assoluto è un e-book. Il disinteresse per l’editoria di chi ha lavorato da sempre in editoria è significativo: vuol dire understatement o Gelassenheit mistica? Forse significa soltanto la sicurezza di poter essere letto, comunque; e di farsi leggere gratis. En passant, annoto: il 22 dicembre 2016 un testo poetico di Sannelli appare sull’allegato 140 anni del «Corriere della Sera». La parola-chiave di questi versi è sàlvati, dopo un riferimento, ancora, alla musica, in questo caso a Vivaldi. Il quotidiano è di alto livello. Si passa dal palco corsaro alla platea umile, e dalla platea alla strada. Ma lo ripeto: non si tratta di understatement.
L’incipit dell’Assoluto è il nome di un antinfiammatorio, il che è allusivo di una malattia dalla quale l’autore di questo monologo indica le fasi della remissione. A confessioni di vicende individuali si intercalano frequenti uscite dall’io con sguardi sull’attualità, con escalation sul cinema e sul teatro, e ovviamente sull’azione musicale: cioè la «vita applicata», la «vita dedicata» di Sannelli, la semantica dell’atto che sopravanza quella della parola.
L’io e il non-io, cioè il mondo, si rifondono anch’essi, a significare che «tutto è in tutto: «Un pezzo superbo di ogni cosa». Le stagioni si confondono, si alternano dislocate sotto il profilo temporale seguendo liberamente il ritmo del deposito dei ricordi, come si alternano lavoro totale, assoluto, e solitudine. Si è sempre piú soli in due, perché l’illusione viene meno e finisce per rivelarsi come tale: «Sarai sempre sola, ora che mi hai». È un verso degli Afterhours, ma la citazione è fatta senza alcuno scandalo. Non solo, sopravviene «la stanchezza dell’apnea» quando le relazioni non comportano opere.
Forse lo stile, piú che disciplina, è trovare un posto nel mondo. «Quasi tutto è non-madre», e l’antico Rebis ora lo sa. Il problema è questo: quanto è noioso, volgare e, soprattutto, renitente alla persuasione il mondo non-madre, mentre il mondo-madre è perfetto. Nascere, come uomo, ‘a fatica’ vuol dire accettare la resistenza degli altri. Significa accettare che gli altri, visti come il pubblico, sono anzitutto oppositori. Si parla di un ex bambino particolarmente vessato, che sopravvive, e sopravvivendo, è diventato un vampiro, una bestia ironica, un ‘delinquente’ poliedrico, uno che fa letteralmente tutto con la golosità del sopravvissuto.
C’era una volta un bambino che non era un bambino. Non lo uccisero, ma cadde tra le spine. Ora è là, ma non come in croce: è sul palco, e compiaciuto. Non è una rondine e non è proprio un fanciullino, è diventato scaltro, suo malgrado. È un pastiche pascoliano, d’accordo, ed è inoltre un modo di fare il verso a certi modi di Sannelli, che di solito gioca seriamente e scherza con il fuoco. Come ha scritto, in un’intervista ancora inedita, «mi avete vampirizzato e ora mi volete vegetariano?». Ha capito che il mondo non ha alcun senso, ma non imprecherà come Leopardi e non invocherà piú Arimane. L’omonimo frammento dell’amatissimo conte Giacomo non sarà imitato, anche perché le parole realmente possono uccidere. Immaginiamo un Leopardi che non impreca e non vuole piú morire. Un Leopardi anche risanato, e con un corpo ricostruito. Ne viene fuori un autore a cui la donna, quella il cui nome è nascosto oppure alluso, dice «la diva eri tu». E il destinatario non si è schermito, tutt’altro.
Il misticismo ascrivibile o pubblicamente attribuito a Sannelli è imperfetto e ambiguo: è il misticismo di chi ha obiettivi potenti, da perseguire con forza. E non c’è dubbio che quando li avrà raggiunti li cambierà, li rinnegherà, li devolverà ai poveri e ai ricchi, indifferentemente. Nel suo caso non possiamo mai aspettarci il silenzio, come avrebbe voluto Gozzano, magari per ipotesi e magari anch’egli risanato: «il fanciullo sarò tenero e antico / che sospirava al raggio delle stelle, / che meditava Arturo e Federico». Da Sannelli ci si aspetta sempre che tenga testa con l’ultima parola. E si intenda qui ‘parola’ solo in senso generico: come un modo di dire.
Massimo Sannelli, L’assoluto, Lotta di Classico, Genova 2016.
Con le immagini di Chiara De Luca.
E-book: https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2016/09/assoluto.pdf
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