giovedì 28 agosto 2014

Gabriele Marchetti, "Alcune note su certa poesia odierna"

È una caratteristica di moltissima poesia odierna (e di quella di Davide Rondoni in particolare) la ricerca di schegge di poeticità nella dimensione quotidiana, più banale.
Ricerca che, senza fare troppi sforzi di memoria, era già stata tentata e portata avanti con risultati eccellenti da T.S. Eliot, con testi come The love song of J. Alfred Prufrock, o la serie di Sweeney. Ma alla fin fine anche Eliot si convinse dell'impossibilità di giungere ad un testo definitivo, causa la dispersione incontrollata di tali epifanie poetiche, troppo numerose, troppo variegate; donde l'opzione per il metodo mitico, l'unico capace di riunire saldamente questa miriade di impressioni attorno ad un nucleo riconoscibile e definito.
Questa virata, questa manovra di salvataggio non sono ancora state tentate da quei poeti che in Rondoni vedono e sentono il loro caposcuola. Né potrebbero tentarla, ormai, essendosi adagiati in una sorta di nicchia che ha una sua legittimazione e una sua visibilità nel mosaico e nel sistema dell'editoria, dei premi, dei convegni, dei “festival”.
Ignoro se Rondoni preferisca questo sonnambulismo al fare vera poesia; non credo però che possa preferirlo. Da caposcuola, da iniziatore (o più umilmente, da sostenitore attivo) di questa poetica del quotidiano non può sfuggirgli la ripetitività dei testi, conseguenza ovvia di qualunque cosiddetta scuola, e la loro spaventevole proliferazione dovuta all'infinità di esperienze che si vogliono testimoniare. È, insomma, una poesia tesa verso un traguardo irraggiungibile e che forse nemmeno esiste. È una poesia senza uno scopo definibile, quindi inutile per costituzione; perché da questi testi non può derivare al lettore quel piacere che è l'unico fine della vera poesia. Verrebbe da suggerire ai poeti odierni di cimentarsi con un altro genere, più consono alla loro visione: il diario, dove troverebbero un terreno congeniale a questa poetica del minimo, del quotidiano, dell'inutile dato effimero.
Ma volevo leggere più nello specifico un testo di Rondoni, magari con il rischio di sembrare poco umile nell'accostarmi ad un nome così importante (ricordando che è solo il testo ad essere passibile di giudizio, e mai il poeta); un testo preso a caso dalla rete, senza considerarne le origini, la data di composizione, i motivi esteriori; per dimostrare, se sarà possibile, che questa (non intesa come solo rondoniana) poesia è fattibile in serie, senza troppo sforzo, senza troppe pretese, perché legata non ad un singolo poeta, ma ad una visione discutibile del compito della poesia in generale.
L'irregolarità metrica, la pelle con cui si presenta quasi tutta la poesia di oggi, porta ad una fluidità nella ripartizione del testo, tra le strofe e tra i singoli versi, che disturba: tale scelta, che certamente non deriva dalla scarsa maestria del poeta, è da imputare al gusto imposto dai lettori. Si tratta del primo errore commesso dalla poesia odierna, o almeno da buona parte di essa: cedere alle presunte richieste del lettore, che non vuole nulla che lo impegni troppo o che gli riesca di difficile lettura. Quindi ci si è lasciati avvincere dalla mania della libertà espressiva, ci si è fatti scudo di questa fantomatica libertà, già universalmente valida nei temi, anche nei confronti di uno degli elementi necessari della poesia: la metrica.
A Rondoni non è certo imputabile alcuna colpa, in questo processo di semplificazione e svilimento del dettato poetico. Anagraficamente, lo ha anche egli semplicemente subìto e seguito. Tale anarchia metrica ha origini più lontane, e ben più complesse.
Volendo dare un'idea di quanto sia frastagliato questo testo (ma l'indicazione di massima varrebbe per quasi tutta la poesia di oggi), ecco lo schema dei versi e delle rarissime rime: prima strofa 13-8A-4sdr-11A; seconda strofa 9-9-10tr-6-8-5-10-14A-10A-11-6; terza strofa 12tr-8-11-11tr-11-9-8; quarta strofa 8-10tr-9sdr-13-12-10-4sdr-10-7; quinta strofa 10tr -11.
Come si può vedere, nessuna strofa assomiglia all'altra per numero di versi, per la disposizione di versi isosillabici in essa, per schema rimico (che, appunto, è carente fin quasi all'inesistenza). Si è giunti, qui e in molti altri casi, a sostituire alla suddivisione dovuta all'unità ritmica, metrica, musicale del verso un nuovo tipo di segmentazione, basata sull'unità di elocuzione; si è passati a dare importanza a ciò che viene detto (il che è accettabile), trascurando però il modo in cui lo si dice (trasandatezza, invece, meno accettabile). Ecco qualche esempio:

Quando anche tu ti fermerai in questo grande
autogrill e il viso stanco
vedrai rapido
sui vetri, sull'alluminio del banco (vv. 1-4),

dove l'attenzione viene messa subito su autogrill, che iniziando il secondo verso è in posizione privilegiata, quasi a volerne essere il centro (e vedremo come questo luogo sia uno dei due cuori del componimento); e parimenti Rondoni fa risaltare le suppellettili che lo riempiono, i vetri e l'alluminio del banco, sottolineate dalla rima, che impreziosisce per la sua rarità. Tutte cose materiali (in un luogo forse immateriale, un non-luogo, o un semplice posto di passaggio?) che fanno da contraltare all'unica annotazione umana, chiamiamola così, che è quella del viso stanco del viaggiatore.
E ancora:

sarà una sera come questa
che nel vento rompe la luce
e le nubi del giorno, sarà
un grande momento:
lo sapremo io e te soli (vv.5-9),

con quel verso, l'ultimo, che ha sapore di sentenza (e questo desiderio di poter dire la parola definitiva lo ritroveremo nella strofa finale, quel distico che è una vera e propria coda). I primi due versi dell'esempio mostrano un minimo di regolarità, sono due novenari che hanno già senso compiuto, anche senza l'aggiunta del terzo verso, quel decasillabo tronco che sa di canzonetta. E poi, quel senario che pare la réclame di un gioiello: un grande momento.
Nel prosieguo altre sentenze saltano all'occhio:

Ripartirai (v. 10),

altro vecchio vezzo della poesia italiana dell'ultimo secolo, mutuato forse dal primo Ungaretti, proposto anche in seguito da Quasimodo et alii, e che sembra impestare ancora i versi di moltissimi poeti di oggi. Il quinario sembra isolato apposta per una performance di lettura pubblica, come se, dopo la pausa narrativa raggiunta con lo sapremo io e te soli ci volesse una ripresa altrettanto solenne, qualcosa per non scendere di tono e non perdere l'attenzione dell'ascoltatore (dato che oggi la poesia è più ascoltata che letta, a quanto pare). E ancora:

La felicità del tempo è dirti sì,
ci sei (vv. 16-17),

oppure

la nostra vera somiglianza
è la dove non si vede (vv. 21-22),

che rasentano il tono aforistico delle frasi di una famosa marca di cioccolatini. E più avanti:

sarà il tuo inferno, la tua virtù
questo udito da cane o da angelo
che sente all'unisono il giro dei pianeti
e la pastiglia cadere nel bicchiere
due piani sotto, dove due vecchi
si accudiscono.
Sarà questo amore strepitoso
tuo padre, quello vero (vv. 24-31),

versi in cui si situa il secondo cuore del componimento, trasferito in una casa. Qui, di nuovo, hanno sapore di sentenza il primo verso (con l'accenno, ripetuto nel verso seguente, a due opposti), di nuovo vicino ad un linguaggio pubblicitario, e gli ultimi due, altra bordata di tono sapienziale.
E ora un esempio da un testo, Il cane che ai miei piedi guarda l'alba, piuttosto controllato metricamente, di Isabella Leardini, altra voce che va molto di moda, e che nei suoi componimenti mostra spesso un andamento diaristico:

Ma noi restiamo qui come le radio
dimenticate accese in piena notte,
come le insegne che hanno perso qualche luce
ma cercano lo stesso di brillare (vv. 11-14),

dove si vede la regolarità degli endecasillabi (anche se sciolti) distrutta dal verso di tredici sillabe, che appunto è un enunciato finito, a sé stante, e che esonda dalla misura perché il messaggio stava tutto lì, nel paragone, e che l'autrice ci getta addosso quasi con ansia, con la paura che a noi sfugga.
È poi possibile una via di mezzo, tra l'unità di verso e quella elocutoria, ed è quella che basa la sua segmentazione sulla rima: quindi, pur non rispettando alcuna regolarità metrica, è legata comunque ad un elemento ritmico come è la rima. Eccone un esempio, sempre da Rondoni:

quasi
un ricordo e i silenzi delle scansìe di oggetti,
dei benzinai, dei loro berretti (vv. 11-13),

che mostra sì l'enfasi sonora della rima, ma anche quell'andamento slegato, dal punto di vista della regolarità metrica, tipico di una poesia da recitare. La rima serve per interessare il pubblico, che rischia di perdersi in questa fluidità, in queste composizioni amorfe, come dentro un mare infinito e senza appigli (e pare che i poeti, oggi, abbiano fatto loro il suggerimento del Rucellai, Le api, v. 11: fuggi le rime, e 'l rimbombar sonoro).
Parte della poesia odierna sembra aver seguìito, e forse promosso secondo le sue scarse forze, un avvicinamento del proprio dettato a quello della pubblicità. Si è fatta tutto un campionario di slogan da sciorinare, pillole di saggezza che spalancano al lettore nuovi universi, paradisi sconosciuti, come ad esempio in Roberto Cescon. Da Le cose che compriamo abbiamo:

le cose che compriamo ci raccontano (v. 14);

e del resto la poesia in questione ha altri lampi epifanici, come quello messo in un distico che s'imprime a fuoco nella memoria:

per le corsie pensiamo cosa manca
nelle antine della cucina bianca (vv. 7-8),

dove l'autore ha cercato di condensare tutta la mancanza di significato dell'esistenza odierna (tacendo del fatto che, nel corso di questa stessa poesia, con molta grazia Cescon parla di assorbenti).
L'equivoco, se così vogliamo chiamarlo, risiede nella convinzione, creatasi negli ultimi anni, forse dovuta all'esempio di Pasolini, che la poesia debba essere portatrice di un messaggio per i lettori. Che abbia, insomma, un dovere verso di essi, un compito che sta a metà tra il salvifico e il didattico. Ed avendo questo fine, deve anche adottare un modo di esprimersi che si avvicini molto ai gusti e alla mentalità del lettore. Come la pubblicità fa leva sui bisogni, veri o presunti, del consumatore, così questa poesia si basa sulla convinzione di poter fare da guida a chi la legge, quasi che i poeti di oggi (non dico un Dante o un Leopardi) siano custodi della verità, profeti, salvatori.
La pubblicità grida, insinua, sussurra; questa poesia fa lo stesso. Non ha più un suo linguaggio, basato su caratteristiche chiaramente riconoscibili come poetiche, a parte l'andare a capo ogni tanto, il contare undici sillabe (rischiando ogni tanto uno sdrucciolo, o restando in bilico su un tronco) e quel tono da santone di cui non riesce più a liberarsi. Essendo poesia da recitare, e non più da leggere, non ha alcuna importanza il suo aspetto su carta, o la regolarità del metro (perché sarà comunque l'autore / attore ad interpretarla per il lettore); ciò che importa è mettere su uno spettacolo interessante, gridato, o sussurrato, a seconda dell'oggetto di cui parla. Il testo si è trasformato in un copione.
E di conseguenza, il poeta diventerà più importante della sua composizione, mentre la poesia del quotidiano dovrebbe, per sua natura, far parlare le cose. In esse troverebbe forse una solidità, anche espositiva, che invece le manca. Dovrebbe accadere il contrario di ciò che dice Juan Ramòn Jiménez nella sua Intelijenzia, dame:

que mi palabra sea
la cosa misma (vv. 3-4),

che cioè il peso del poeta non schiacci quello, leggerissimo, etereo, dell'essenza delle cose.
Ma nella poesia di oggi le cose sono solo un pretesto. Il vero protagonista è il poeta. Questo testo di Rondoni e moltissimi altri hanno tutti lo stesso sapore perché tutti grondano del poeta che li ha scritti. Il che, potrà obiettare qualcuno, è naturale: il poeta deve uscire dal suo testo, il lettore deve capirne l'animo e i sentimenti. In realtà il poeta di oggi è passato dall'essere l'autore del testo a recitarvi come attore, con il rischio della riduzione della poesia al diario quotidiano.
La vera poesia del quotidiano non è questa. Qui la voce dell'autore-attore è troppo coprente, troppo roboante. Le cose, la cui vera essenza, nascosta e da riscoprire anche nella quotidianità, è pur sempre l'oggetto privilegiato dello sguardo del poeta, restano filtrate, mai date direttamente al lettore; gli autori, con la loro mole spropositata (rana rupta), impediscono alla poesia di compiere il dovere che le spetta.
Approfondendo il testo di Rondoni, comprenderemo meglio questo sfasamento.
L'immagine complessiva della poesia risulta chiaramente spezzata in tre momenti, basati su tre luoghi (in realtà, due), e cioè l'autogrill, dove inizia la scena, la casa in cui Rondoni trasferisce, per aumentare il senso di affetto familiare, se stesso e l'interlocutore, e poi di nuovo l'autogrill.
Questa spezzatura, che forse appare più forte ad un lettore che ad un ascoltatore, rischia di compromettere la riuscita del testo. L'autogrill è, per antonomasia, luogo di incontri e separazioni veloci, possibilità di scoperte, di epifanie meravigliose, un po' come l'albergo per il primo Montale (e degno di nota il fatto che anch'egli mette l'accento sui vetri, ad esempio in Arsenio, v. 5: ai vetri luccicanti degli alberghi); ci ridà, insomma, un'idea di transitorietà che ben si lega alla storia personale di ognuno (tutti, più o meno, avranno fatto esperienza di un autogrill). La metafora era un ottimo spunto. Ma quell'inserzione dell'ambiente familiare, così più duraturo, con fondamenta più solide, e l'immagine dei due anziani che durano assieme da anni, svilisce la forza iniziale del componimento.
L'incipit della seconda strofa ha un sapore eliotiano. Ricorda (assieme a io e te) l'attacco di The love song of J. alfred Prufrock:

Let us go then, you and I,
when the evening is spread out against the sky
like a patient etherized upon a table (vv. 1-3),

anche se naturalmente manca della forza espressiva della metafora del testo inglese. Il verso

che nel vento rompe la luce (v. 6)

è di ascendenza quasimodiana (strano, ma vero), specie per l'uso del verbo:

Un sole rompe gonfio nel sonno
(Alla mia terra, v. 1),

il soffio
di vento prigioniero, rompe e fa eco
nella luce
(Che vuoi, pastore d'aria?, vv. 7-9),

e in aggiunta, con lieve cambiamento del verbo, di uguale significato,

La sera si frantuma nella terra
(Un arco aperto, v. 1).

C'è anche un altro ricordo montaliano:

oscurità che rompe
qualche foro d'azzurro
(Accelerato, vv. 11-12);

e andando più indietro, qualcosa del Rimbaud del Bateau ivre:

Je sais les cieux crevant en éclairs (v. 29);

ed altri echi restano forse più nascosti (ma la sera, dalla famosissima poesia del siciliano, ha sempre ricoperto un ruolo principale nell'addolorarsi dei poeti), e inarrivabili per l'ascoltatore, ipnotizzato dalla performance del poeta che diventa egli stesso, sul palco, un lettore.
Ma il testo, messo su carta, non imbroglia: quel mio figlio, mio viaggiatore (v. 23) richiama Baudelaire e il suo verso, famosissimo,

Hypocrite lecteur, - mon semblable, - mon frère!

da Au lecteur dei Fleurs du mal, e che lo stesso Eliot ripropose, quasi identico, in chiusura della prima sezione della sua Waste Land (con l'aggiunta di un You a precederlo).
Rondoni è un famoso traduttore di Rimbaud. Ne è anche un ottimo lettore. Dal poeta francese sembra derivargli l'antitesi nel verso questo udito da cane o da angelo (v. 25), che ricorda la quasi identica contrapposizione rimbaudiana messa in luce nel primo sonetto degli Stupras, raccolta di testi ironici, dissacranti, e poco conosciuti:

Au moyen age pour la femelle, ange ou porce (v. 5),

in cui è identica, variando l'animale e la posizione, l'immagine dello scontro tra il basso e l'alto, tra la vitalità e l'etereità.
La chiusa, quel distico che vorrebbe mettere un suggello alla poesia e che invece suona falso, troppo impostato (ma che risulterebbe perfetto in una lettura pubblica), ha sapore quasi crepuscolare: è, non dico ai livelli di un Carducci che scrive in memoria del figlioletto morto, ma ugualmente coprente, e qui sensibilmente fuori luogo.
Rondoni voleva creare circolarità, giocando con la dimensione temporale, con se stesso già scomparso e con il suo interlocutore cresciuto, ancora vivo, ma quasi immemore delle parole che il poeta gli ha finora rivolto; ma ottiene solo una specie di ritornello stonato. La poesia, e il suo quid, sono terminati versi prima, e la terza e quarta strofa sono un di più. Il senso era il tempo che passa inesorabile, la speranza che un padre pone nella capacità del figlio (spesso destinata a svanire) di ricordare i suoi insegnamenti. E lì stava anche un buon messaggio da parte di Rondoni, accettabile se non altro, perché sincero, sentito, vero insomma.
Le due strofe in questione contengono invece quella serie di aforismi, dal tono troppo paternalistico, troppo benpensante, per riuscire credibili. La speranza in qualcosa di duraturo che possa attraversare il tempo non collima col resto del componimento, anche se ad un lettore svagato potrà sembrare una bella contrapposizione, ben congegnata e sistemata al posto giusto (ad un ascoltatore, intento più che altro a misurare con l'occhio l'aspetto del poeta, assiso sul palco, in un fasciame di luce, non risulterà molto di diverso da quanto sentito prima).
Perché in queste due strofe la poesia ridiventa messaggio, dimenticando il proprio linguaggio specifico, che l'ha sostenuta abbastanza bene nelle strofe precedenti e che poggiava sull'immagine, convincente, dell'universale transitorietà umana; perde le caratteristiche poetiche fondamentali, mantenendo quelle esteriori (e vale la pena di chiedersi, con G. M. Hopkins, se tutto ciò che è scritto in versi sia poesia) e giunge al suo vero scopo: piacere a tutti.
La colpa, qui, è proprio del poeta. Egli sta recitando la parte di un padre (di nuovo, quell'impostazione falsata in vista del fine pratico di questo genere di poesia, e cioè la recitazione) e nella terza e quarta strofa, e in altri piccoli interventi nelle precedenti, dopo un discorso oggettivo, calibrato, basato davvero sulla forza esistenziale delle cose, sul loro peso, sulla loro presenza, arriva a scivolare in ammaestramenti inutili.
Si esce da questa lettura, fatta da noi stessi o tramite l'autorevole voce del poeta che conosce meglio del pubblico pause e attacchi, con un senso di sballottamento. Cosa c'è di vero nelle sue parole? L'oggettività del dettato è andata in panico molto presto, perché il racconto che sta sotto è stato innervato di sentenze altere e soverchie, come se Rondoni non avesse alcuna fiducia in chi lo legge. Tale è appunto l'atteggiamento che l'autore di teatro assume nei confronti di un sempre cangiante uditorio. Mancano soltanto (o forse ci sono, travestite di una poetica semplicistica) le indicazioni su chi entra in scena, chi ne esce, sulla postura da tenere. E qui fallisce la serietà delle cose, subentra l'infallibile ego dell'autore.
Nei riguardi di questa poetica, applicabile in serie quasi quanto quella poesia sperimentale cui vorrebbe contrapporsi, e che aveva almeno il merito di una maggiore sapienza formale; di questa poetica che punta alle cose e alla fine le tradisce (poetica che, se attuata in modo davvero efficace, con convinzione, con intelligenza, non sarebbe affatto da rigettare, come non lo è la prima produzione di un Eliot), si finisce per voler rispondere solamente con le parole di Callimaco, nella traduzione di Quasimodo:

Non amo la poesia comune e odio
la strada aperta a chiunque,

nella speranza che trovi spazio una poesia forse più personale, negli intenti, e molto più universale negli esiti, ma sicuramente di più scelta ed accorta ricezione.

Gabriele Marchetti


domenica 3 agosto 2014

Una poesia di Radu Vancu

Ca niște clătite îmbibate bine-bine cu dulceață,
așa bucură sinucigașii ochii lui Dumnezeu.
Ca niște poeme de dragoste
scrise pe foi de asemenea clătite,
așa bucură ei ochii lui Dumnezeu.
Ca niște poeți visați de un Dumnezeu diabetic
tatuându-și poeme de dragoste
pe inimile îmbibate cu dulceață,
așa bucură ei ochii & glicemia lui Dumnezeu.

Frumoși ca făcuți din zahăr & cianură.
Blânzi ca porumbeii & înțelepți ca șerpii
ce se înghit pe ei înșiși.
Oameni de tinichea cu inimi de clătite.

Pe toți îi învelește, noapte de noapte,
în inima lui ca o clătită uriașă
îmbibată bine-bine de o invidie
ca dulceața de corcodușe cu mentă.


Come sfoglia imbevuta di dolcezza 
così gli occhi di Dio deliziano i suicidi. 
Come poesie d'amore 
scritte su pagine di quella dolce sfoglia 
così essi deliziano gli occhi di Dio. 
Come poeti sognati da un Dio diabetico 
che incidono poesie d'amore 
sui loro cuori imbevuti di dolcezza 
così essi deliziano gli occhi di Dio
e lo zucchero nel suo divino sangue.

Belli come impastati di zucchero e cianuro. 
Teneri come colombe, astuti come serpi 
che ingoiano se stesse. 
Uomini di stagno con cuori di delizia. 

Tutti li avvolge, notte dopo notte, 
nel suo cuore come un'immensa sfoglia 
imbevuta di un'invidia come la dolceamara
miscela del mirabolano e della menta.

venerdì 1 agosto 2014

Gabriele Marchetti, "Apologia di Quasimodo"


 
È strano il destino di certi poeti: inattaccabili in vita, diventano nemici pubblici dopo la loro dipartita, e ridotti a semplici nomi. Peggio ancora è quando un nome viene associato ad una certa idea di poesia da evitare a tutti i costi, spesso senza altra giustificazione che una presunta difficoltà.
Resta da dimostrare, credo, quale abisso insormontabile sia possibile scavare tra un poeta che usa una certa lingua e i lettori che comprendono anch'essi, ed ugualmente usano, quella stessa lingua.
E' il caso di Quasimodo, che ormai corre il rischio di essere bandito perfino dalle trite antologie scolastiche perché troppo oscuro. Quando sono stati resi noti gli argomenti dei temi alla maturità di quest'anno, e si è letto il nome di Quasimodo e il titolo della sua Ride la gazza, nera sugli aranci, si è gridato alla blasfemia anche da parte di illustri rappresentanti del mondo letterario. Testimonianza del ritardo culturale della scuola italiana, è stata questa l'accusa più lieve; e la soluzione avanzata per superare queste pecche decennali è stato proporre di aprire il cosiddetto canone ad autori ben più meritevoli come Sereni, Zanzotto, Caproni, Luzi. Insomma, la poesia dovrebbe scendere dal piedistallo e tornare ad essere alla portata di tutti, altrimenti i giovani se ne allontaneranno.
L'unica risposta che mi sento di dare è questa: che se ne allontanino pure, perché se lo faranno significa che sono indegni della poesia. Bisogna mettersi in mente che la poesia non è il calcio, non le servono tifosi che paghino l'abbonamento, non le servono grandi arene dove mettere in scena ridicole farse. Le servono testi validi, e questi mancheranno finché i poeti perderanno tempo a crearsi un personaggio all'altezza delle aspettative del pubblico (una volta una signora si è detta contenta di un gagliardo giovanotto perché finalmente, nel mondo della poesia italiana, c'era anche un bel ragazzo). Ma sono i testi che possono attrarre i più giovani, e un pubblico interessato, i testi e niente altro. Non deve passare l'idea che alcuni poeti siano più di moda di altri: è una stupidaggine, e se ci credessimo dovremmo bruciare tutte le copie della Divina Commedia, del Canzoniere del Petrarca e dei Canti di Leopardi.
Altro grosso errore, questo ben più grave e in qualche maniera più pericoloso, è la fede nel giudizio di alcuni cosiddetti intellettuali che si credono investiti di un ruolo che nessuno ha loro conferito: essi pensano di poter dire alla gente chi leggere e chi no, quali poeti e quali no, decidendo per tutti. Siamo davanti al germe di una dittatura letteraria.
Così sta accadendo per Quasimodo. Sento da più parti che il siciliano è accusato di fare letteratura invece che poesia; che mi pare proprio una distinzione inutile, questa sì legata a preconcetti. Secondo quest'ottica, tutta la poesia antica non è poesia, ma semplice scambio di informazioni letterarie, gioco enigmatico di accenni per pochi eletti. Allora, perché la si legge ancora oggi?
Ecco la colpa della poesia italiana odierna: essersi abbassata, svilita, essere diventata prosa con la sola caratteristica distintiva dell'andare a capo ogni tanto, e tutto questo solo per venire incontro e piacere alla gente.
Chiedere ad un poeta di non fare letteratura, mentre fa poesia, equivale a chiedere ad un prete di svolgere il suo ministero senza credere in Dio.
È il lettore, nella sua pochezza, che vorrebbe solo la polpa, di questo frutto, senza il nocciolo e senza la buccia. Non vuole insomma guadagnarsi nulla, tutto gli è dovuto. E chi critica Quasimodo parla forse da lettore, prima che da letterato.
Non capisco, a dire la verità, l'accanimento che molti dimostrano nei confronti di questo poeta; gli rinfacciano il Nobel come immeritato, ma su quante assegnazioni, almeno nel campo della letteratura, ci sarebbe da ridire? Perché non rinfacciano la vittoria di Carducci, che è poeta molto più ostico di Quasimodo, e dal loro punto di vista molto più ''letterario''? Anche sull'indicazione di Zanzotto, come papabile di entrare nel canone, ci sarebbe molto da ridire: intitolare una raccolta di poesia IX Ecloghe vuol dire fare letteratura; anzi, siamo addirittura di fronte ad un iperletterarietà che pare non abbia disturbato i sonni di nessuno (e senza voler parlare di certi altri spaventosi testi di Zanzotto).
La poesia ''difficile'' non fa presa, perché spaventa il lettore: gli mette davanti la sua scarsissima propensione alla visione pura. Dunque scatta nel lettore un meccanismo di difesa che assomiglia molto a quello che la volpe, nella favola di Esopo, escogita per non perdere la faccia: dice che l'uva è acerba e non le piace, così come il lettore scarta a priori un poeta.
La pochezza del lettore non è un problema che debba riguardare il poeta. Credo che Quasimodo l'abbia capito e abbia scelto di proseguire sulla sua strada, elitaria, puramente lirica (di un lirismo, oltre che di suono, anche e soprattutto di immagine); con evidenti cadute, specie nelle liriche degli anni del conflitto, e proprio quando più è sceso in terra per venire incontro al pubblico.
Dicevamo che il lettore è pigro e non vuole fare nessuno sforzo per partecipare al processo di creazione. La difficoltà di un'immagine può inficiare, prima ancora che l'uso di una lingua colta, la ricezione di un testo. C'è un aneddoto, che riguarda la Recherche di Marcel Proust, secondo il quale André Gide avrebbe rifiutato di pubblicare Dalla parte di Swann presso la Nouvelle Revue Française a causa di una metafora che non comprese appieno perché troppo difficile. Si tratta dell'episodio, raccontato nella prima parte, capitolo secondo, in cui il Narratore al mattino soprende la prozia Léonie ancora senza la sua parrucca, i cui capelli vengono paragonati nell'ordine a vertebre, corona di spine e grani di rosario.
Senza scomodare troppo Proust (che per fortuna pubblicherà comunque il suo capolavoro e farà completamente ricredere Gide), mi sembra chiaro che il lettore può agire sul testo in un solo modo, e cioè interpretando l'immagine che le parole concorrono a formare. Gli manca del tutto, oggigiorno, la possibilità di agire sulle parole (può solo leggerle, prestando la sua voce, ma non può letteralmente cambiare una virgola); possibilità che veniva sfruttata appieno nel medioevo, età in cui i testi erano molto più fluidi. A tal proposito fa sorridere l'episodio, citato dal Sacchetti nel Trecentonovelle, CXIV, di Dante che litiga con un fabbro che, intento al lavoro, si teneva compagnia cantando i versi del poeta, storpiandoli alla sua maniera.
Il lettore deve subire il dettato, la lectio. L'interpretare l'immagine sottintende uno sforzo, una actio che egli non vuole sobbarcarsi. Da qui il suo essere restio nei confronti di poeti come Quasimodo, le cui immagini ''nuove'' (ma nel senso che affondano talmente tanto nell'immaginario antico) risultano estranee al gusto moderno.
E infatti il suo apice lo troverà quando tradurrà i greci, con il loro campionario di immagini lontanissime dal presente, e non quando si allineerà agli altri, per lingua e temi, in Giorno dopo giorno.
Nessuno ha però mosso critiche a Montale, perché la sua lingua, per quanto ricca (e anche più letteraria di quella di Quasimodo, almeno nella scelta del lessico), è rimasta di qua dalle immagini che descriveva, non ha mai oltrepassato il confine. È rimasto facilmente (più facilmente di Quasimodo) leggibile perché la sua lingua non ha forgiato immagini nuove, difficili da comprendere. Non ha taciuto: ha detto, descritto, ma non ha lasciato al lettore il compito di completare l'abbozzo suggerito.
Ecco un paio di esempi dagli Ossi, presi da Quasi una fantasia, nella sezione Movimenti:

Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse (vv. 1-4),

Traboccherà la forza
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m'affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali (vv. 10-13).

I termini adoperati da Montale non sono quotidiani: raggiornare, presentire, albore, frusto, listare, turgere, subissare. È qualcos'altro che rende digeribile anche una lingua come questa: l'immagine, semplice, comune, alla portata di tutti. Nel primo esempio si dipinge un risveglio, causato dalla luce del mattino che filtra dalle persiane; nel secondo, il poeta si affaccia alla finestra spalancata sulla città.
Ma si legga questo verso da Falsetto:

La dubbia dimane non t'impaura (v. 22),

la cui ascendenza leopardiana (La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio), per il sentire e la pulizia del dettato, non può sfuggire. Non è forse fare letteratura, citare più o meno apertamente altri testi letterari? Di nuovo torniamo ad avere a che fare con un'immagine chiara, comune, con cui tutti, più o meno, hanno avuto o hanno a che fare. Si può ammettere che Montale sia un poeta capace di risultare universale, un po' come Leopardi, nei temi e nelle immagini; ma questo non significa affatto che Quasimodo, avendo scelto una via più ardua, meno battuta, più elitaria (e già Mallarmé considerava la poesia una cosa per pochissimi), sia meno poeta del ligure. E' un modo diverso, semplicemente, di intendere e realizzare la poesia.
Leggiamo la tanto vituperata Ride la gazza, nera sugli aranci (da Nuove poesie, 1936-42):

Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.

Credo che l'unico termine che uno studente mediamente colto debba andarsi a cercare sul vocabolario sia forse zàgare, e cioè i fiori degli agrumi (qui, verosimilmente, quelli dell'arancio). Ma per quanto riguarda il livello iconico del testo, siamo molto lontani da Montale: l'affastellamento degli elementi, che sembrerebbero non avere legami tra loro, di chiara matrice simbolista, imbroglia la ricezione e la fantasia del lettore. Egli dovrà intendere pietà della sera non come il sentimento cristiano, quanto come l'ufficio liturgico che si svolge dopo i vespri (l'ultimo della giornata, insomma); da qui scaturisce l'aggancio con l'immagine della notte e della luna, come prima con quella dei bambini che giocano sul sagrato della chiesa. E i ricordi (ombre conservate nella memoria) sospingono il poeta ad altre età, alla fanciullezza (che è forse un richiamo universale allo stato adamitico, con l'immagine dei fanciulli che dormono nudi), al paesaggio siciliano (l'insistenza sull'acqua, sul mare, sulla vegetazione tipicamente insulare); che guarda caso è il paesaggio di tradizione teocritea, anche se qui non c'è nessun accenno diretto ad una radice letteraria ben definita.
Mentre Montale inizia un'immagine e la porta fino al suo compimento, con un incedere lineare, leopardiano nel suo tenore filosofico, Quasimodo sfalda l'immagine in immagini più piccole, che poi rimonta creando echi che ad un lettore distratto diranno sempre molto poco, a parte convincerlo che questa è poesia di difficile lettura. Ma una logica interna sussiste anche nel collage che ne risulta (ed è in fin dei conti la stessa tecnica che adoperano Rimbaud e Mallarmé, altri due poeti tacciati di illeggibilità); certo richiede, più che una preparazione letteraria vera e propria, una sensibilità che è diventata qualità rara, specie nel lettore moderno, distratto da troppo altre sirene.
E stupisce (o forse no?) che di questi tempi così aperti, a parole, ad ogni forma di integrazione, ad un dialogo con qualunque cultura, proprio nel mondo della poesia si innalzino muri per ghettizzare un autore.

(Gabriele Marchetti)

mercoledì 16 luglio 2014

Una nuova raccolta poetica di Gabriele Marchetti

Riporto qui la mia postfazione. Il libro si può scaricare integralmente, e gratuitamente, cliccando a sinistra sulla dicitura PDF, da questo collegamento: https://archive.org/details/MarchettiImpaginato

«COME FOGLIE DA UN CIELO INESISTENTE». PICCOLA NOTA SEMIPOLEMICA PER UN NOVANTIQUO LIRISMO

Ci si dovrà interrogare, prima o poi, sulle motivazioni che hanno condotto, negli ultimi anni, alla diffusione (nella letteratura, nella comunicazione, forse anche nella vita) del cosiddetto minimalismo, vera e propria "mutazione antropologica" che contrassegna questa nostra ‒ per echeggiare una citazione abusata ‒ modernità liquida: di uno sguardo, cioè, curvo verso la terra, ripiegato sull'immediato, sul limitato, o addirittura sul banale, cieco ai vasti respiri della sensibilità e del pensiero.

In tutte le sue varie maschere (dalla deformazione sperimentalistica al piano realismo, dall'ingenua poesia del quotidiano e dei sentimenti elementari al più crudo realismo “cannibale” scimmiottato da modelli americani, fino alla “poesia asemantica” che cancella ogni nesso logico e ogni prospettiva di comunicazione, senza nemmeno cercare nuove strutture e nuove possibilità espressive) il minimalismo sembra avere invaso, fino a dominarlo, il campo della poesia: vuoi per le esigenze dei festival e dei reading, il cui pubblico, stordito dalle consuetudini spettacolari e mediatiche, non è particolarmente incline alla concentrazione e allo sforzo interpretativo, e considera e apprezza più l'esteriorità che il messaggio, più l'apparenza che l'essenza; vuoi per le necessità, le aspirazioni o le illusioni dell'editoria, che forse spera di riguadagnare pubblico e vendite alla poesia proponendo versi di immediato impatto e facile fruizione, che strappano un sorriso o un breve pensiero ad un pubblico sempre meno attento; vuoi per la sempre più frequente mancanza di una specifica e profonda cultura letteraria anche in chi controlla, guida e giudica il mondo dell'editoria e i meccanismi dei premi, delle antologie, delle riviste (troppo spesso non solo il lettore comune, ma anche il presunto specialista bolla come retorico o manieristico ogni discorso che non sia, nel suo senso primario, di immediata comprensione, ogni lessico che esuli dalle poche centinaia di voci del vocabolario quotidiano e televisivo).

Decisamente inattuale, perché lirica, simbolica, musicale, memore di una tradizione interiorizzata, fatta propria e intimamente riplasmata, fino a divenire una seconda, rinnovata natura (uno specchio della natura, o una natura più pura essa stessa, con le radici del ritmo, le fronde delle sillabe, gli echi e i riverberi dei canti), è la poesia di Gabriele Marchetti: lontana dai clamori, dalle luci, dalle logiche di un sistema letterario che, in modo ancor più insidioso perché, forse, inconsapevole ed irriflesso, finisce spesso per far propri e ricalcare le forme i tempi i modi, quanto mai lontani dalla poesia, della comunicazione di massa.

Si potrebbe ripetere, per l'ispirazione e la motivazione fondamentali della poesia di Marchetti, ciò che D'Annunzio diceva della genesi di Alcyone: cioè di scrivere, o meglio di cantare, «imitando le aure le acque e le spiche col suono d'una semplice canna, tenui avena». Ma è, quella semplicità, quella naturalezza, proprio come nella tradizione bucolica, prima classica, poi rinascimentale, simbolista, ermetica, non specchio disarmato e nudo di ingenuità, ma al contrario frutto di uno studio, di una ricerca, di una decantazione e di un filtro esercitati tramite la consapevolezza stilistica e formale.

Una figuratività, una visività indefinibili, inafferrabili percorrono i versi del poeta: si pensa a volte ai macchiaioli (per i contorni e le figure riconoscibili e insieme sfumati, per la linea del pensiero ‒ della percezione che si fa pensiero ‒ coerente, naturale e insieme sinuosa e frastagliata), a volte all'allusività simbolica, all'evocazione ombrosa e svanente, del Van Gogh più cupo, altre volte ancora addirittura a certe immagini orientali, finissime e cesellate, aggraziate, apparentemente indifese eppure solide e scolpite come il diamante (ho in mente, ad esempio, le liriche cinesi tradotte da Onofri, o quegli haikai giapponesi che furono per Ungaretti modello segreto, remoto ‒ e rinnegato).

Ma si tratta, a ben vedere, di una visività (o visionarietà) e di una figurazione immateriali, che mostrano, o anelano a mostrare, l'invisibile, l'impalpabile eco psicologica, l'inafferrabile riverbero esistenziale delle scene, degli oggetti, dei paesaggi, degli stessi ricordi che infine, ricomposti dalla memoria, sono a loro volta immagini, figurazioni interiori, nutrite dalla mente e dal cuore: come una sorta di Rimbaud («noter l'inexprimable», «écrire des silences», «fixer des vertiges») rivissuto, rivisitato e riattraversato con la voce e lo sguardo di un poeta profondamente italiano, nutrito e plasmato dai secoli della propria tradizione (tanto che questa poesia è davvero, nel senso più autentico, classico-moderna, nella misura in cui anche le radici simboliste della nostra modernità sono già da tempo diventate, in certo modo, per l'inevitabile moto ricorsivo della storia, classiche ‒ al punto di apparire, oggi, datate a molti fautori sia del postmodernismo frammentario, sia della più ingenua poesia del quotidiano e del vissuto).

Di fatto, è come se la parola poetica di Marchetti descrivesse non la realtà, naturale o interiore, ma immaginari dipinti che la raffigurino; come se la realtà, il vissuto, l'esperienza, l'emozione (che non è meno intensa, ma semmai ancora più acuta ed autentica, come avvertita doppiamente, per il fatto di essere riflessa e moltiplicata nel prisma delle reminiscenze letterarie) fossero già percepiti attraverso la mediazione e il riverbero di un'esperienza estetica anteriore, anzi di una catena di esperienze estetiche, analogicamente interconnesse, che ha costituito e plasmato, nel corso del tempo (ma da una distanza che si estende al di là del tempo), la sensibilità, l'io, l'individualità percipiente e creatrice.

Né si tratta di una figuratività esteriore, ornamentale, barocca, di una generica analogia o di un parallelismo privo di vero contatto fra l'immagine implicita e la parola che la dice, o non può dirla, e arriva solo ad accennarla o ad evocarla; piuttosto, di un comune sostrato ineffabile che alimenta sia la parola che l'immagine, e che entrambe, dialogando scambievolmente o specchiandosi l'una nell'altra, sfiorano, suggeriscono, senza poterlo mostrare appieno.

(Poesia intesa, come la pittura per Leonardo, in una pagina citata splendidamente dal D'Annunzio delle Vergini delle rocce, quale «cosa mentale», «cosa naturale vista in un grande specchio»: «se tu conosci che lo specchio per mezzo de’ lineamenti ed ombre e lumi ti fa parere le cose spiccate, ed avendo tu fra i tuoi colori le ombre ed i lumi più potenti che quelli dello specchio, certo, se tu li saprai ben comporre insieme, la tua pittura parrà ancor essa una cosa naturale vista in un grande specchio»: visione, nel segno del pittore come in quello del poeta, realistica ma in pari tempo ideale, esperienziale ma filtrata dall'intelletto, materica eppure platonica ‒ forgiata ed intrisa, forse, di quella «materia intelligibile» di cui parlava Plotino).

Tradizione e memoria, si direbbe, come destino, in qualche modo tracciato e predeterminato dal fatto di scrivere in una lingua madre che ci preesiste, che ci è stata donata, in cui siamo caduti, in cui esistiamo ed insistiamo, ma che in certo modo rinasce e risorge, ricreata, ogni qual volta torniamo a farla risuonare, nell'anima o sulla pagina: destino, dunque, profondamente e consapevolmente accolto, vissuto e rivissuto, come in un gioioso amor fati.

«I giorni spengono, senza un ritorno - / come foglie da un cielo inesistente». Il noto, quasi in sé consunto, motivo simbolista (ma già della lirica antica) della feuille morte riceve, dall'improvvisa illuminazione metafisica (ma si tratta di una metafisica o di un'ontologia negative, di un Essere-Nulla, di un sostrato privo di determinazioni, ma da cui tutte le forme traggono origine e sussistenza), nuovo valore e nuova significazione. Il vissuto cade, per intermittenze, da un tempo anteriore ‒ allo stesso modo che da una memoria arcana gocciano, con lento e minuto stillicidio, i simboli, i segni, le sillabe, i ritmi ‒ e le tinte si raccolgono brevemente a comporre un'immagine mentale nuovamente dissolta dal bianco della pagina.

Le interne anomalie metriche, le accentazioni desuete che di tanto in tanto, come nell'Ungaretti di Sentimento del tempo, intervengono a sollecitare e ad alterare la compagine dell'endecasillabo, sono espressione di questa stessa sfasatura, di questo delicato e sottile, ma vitale, straniamento, di questo essenziale clinamen, ben più efficace e penetrante di qualsiasi rude realismo, o di qualsiasi infrazione chiassosa e provinciale.

«Aspetto l'attimo che questa vita / si smagrisce nel silenzio distante / che la fa quasi sembrare infinita». L'oscillazione metrica rimarca la sospensione temporale dell'istante che dilata il tempo, e che si fa vuota e pura lontananza, possibilità dischiusa e indefinita, visiva ed interiore. «La fonte si è gelata, / la terra suona scura / nel silenzio che molce ‒ / un bisbigliare dolce / di gemme che infiorano / o muoiono socchiuse». Il settenario non ha, qui, più nulla di quella cantabilità un poco esteriore, arcadica, ad esso associata: al contrario, la levità dell'andamento metrico riesce a cogliere in modo insostituibile il quasi-nulla, il quasi-silenzio, il suono interiore e sognato delle gemme che muoiono sul nascere, la prossimità di vita e morte nel trapassare inafferrabile dell'istante ‒ e quel «molce», parola aulica che farebbe insorgere gli odierni fautori della spontaneità e dell'autenticità e nemici della retorica e della letterarietà, è invece, in questo contesto, la spia essenziale di una dolcezza malata, di una soavità che nasce dall'annullamento: dolcezza, perciò, inquietante e remota, che viene e sale da profondità lontane (come in D'Annunzio: «passò per le scaglie e pe' nodi l'odore che il cuore ti molce»).

Sembrano, i versi di Marchetti, descrivere un mondo passato, d'altro tempo ‒ o forse un mondo senza tempo, popolato di simboli sospesi, di enigmi fissati e per sempre irrisolti, come nella pittura metafisica. Eppure, ci si rende conto che, a ben vedere, nulla di ciò che il poeta descrive o crea è inimmaginabile nel mondo d'oggi, come in quello di ogni epoca: vite che finiscono, spesso prima del tempo, o meglio in accordo pacifico e ras-segnato con un ordine assoluto, fatale ‒ stagioni che si avvicendano, il lavoro dei campi con i suoi ritmi e le sue fasi ‒ i giochi eterni, oscuramente sapienti, dei bambini ‒ gli animali e le piante e i loro nomi che, finalmente riconciliati con una natura ritrovata, sono di per sé, a volte, fonte di evocazioni poetiche ‒ gli elementi naturali che tornano essi stessi, con il valore simbolico che vi è connaturato, a ridefinire e nuovamente circoscrivere lo spazio del dicibile e dell'indicibile.

«Le ragazze fanno foto nel sole: / alle spalle resta il verde del prato, / in mezzo ai tronchi il sorriso dei morti / che luccica, sbiadato». Una foto è una foto, abbia in sé la patina nostalgica ed ingiallita di un vecchio salotto, la perfezione gelida e straniante dell'«epoca dell'immagine del mondo» o lo splendore fatuo ed effimero dell'odierna smaterializzazione digitale: essa è sempre phos, luce, immagine ricordo inganno simulacro interiore («e m'è rimasa nel pensier la luce», canta il verso di Petrarca forse più amato da Ungaretti); allo stesso modo che fra l'erba e i tronchi continua a brillare non visto, e a risuonare inudibile, il sorriso dei morti (un verde, questo, fiaccato eppure persistente, insidiato ed eterno, come nel primo, più pascoliano Quasimodo: «un verde più nuovo dell'erba / che il cuore riposa»).

Come a dire che la natura è eterna, e con essa è eterna la poesia con i suoi archetipi, le sue immagini cristallizzate e fissate per sempre, i suoi emblemi immutabili e sempre vivi. E il volerle del tutto cancellare, violare o sovvertire (la natura come la poesia), inseguendo il fantasma del nuovo o l'oggettivazione illusoria di una presunta, contingente realtà, e idolatrando la contemporaneità come valore assoluto, non è che una delle tante forme (forse la più subdola, perché ammantata e mascherata di una modernità e un rinnovamento necessari) dell'alienazione dell'uomo da se stesso e dal mondo.

Questa può apparire una visione antimoderna, nostalgica, retriva, retorica, legata ad un attardato umanesimo di retroguardia. Forse lo è.

                                             

                                                                     Matteo Veronesi

lunedì 7 luglio 2014

Due poesie sul viaggio

Ripubblico qui due mie poesie apparse sulla rivista elettronica "L'Ombra delle Parole", diretta da Giorgio Linguaglossa. (M. V.) 




I Elegia della memoria e del viaggio



Non è che memoria ogni viaggio



                                                              Diviene

solo immagine pura, soltanto

un fantasma tremante ogni meta

come un'Itaca opaca, un'isola

svanente, appena

toccata, e abbandonata –

così è ogni viaggio, già

tracciato e concluso, partenza

e ritorno, nel giro del pensiero

così ogni vita, ogni respiro, il verso

che lacera lo spazio come lama

e poi di nuovo regredisce al bianco

lunare deserto dell'origine



E tutto è parola, visione che vibra

e vacilla nel suono che la suscita –

picchi lontani, luminìo di acque

tenui parole affidate alle foglie

e sorrisi specchiati dalla neve –

e ogni viaggio non è che memoria



II Da una provincia d'Europa



Le mie città –

il movimento

e il risveglio, o la perpetua veglia

che ho e non ho vissuto



Barcellona

era un piccolo prato senza nome

nel divenire del giorno, nel morire

dell'ora meridiana sulla riga

fra ombra e luce –

lontano

ma presente il bisbiglìo dei canti

e il brulicare dei piaceri, e il porto

dalle grandi navi ferme, dalle mille

luci specchiate, in quello strano

gelo di nuovi marmi –

                                                     Parigi

una notte affondata, una spenta

elegia su una carta

sbiadita, il silenzio mattutino

di una vetrina –

Venezia il morire delle insegne

sul tremito delle acque, il lamento senza voce

e il pianto che mi seguiva come un'ombra –

Roma e Firenze un serto di rovine

offerta vana di parvenze mute –

e Milano la città dei morti

che vivono sotterra, inseguendo i loro giorni

divorando le ore

e amano la notte come larve



Ora le chiamo, vuoti nomi, le città che ho fuggito

che non mi hanno chiamato –

vengono da sole a questo tavolo

al rogo fioco della lampada



Ardono più vivi

di loro i loro spettri

sulla mia pagina vana, in questo lembo

sperduto di provincia da cui parlo







domenica 29 giugno 2014

Giselda Pontesilli, "Per un pensiero comune europeo. Primi appunti"


Pubblico, sperando di ispirare e suscitare ulteriori interventi, il progetto di ricerca di Giselda Pontesilli, con il quale questa piccola rivista elettronica vorrebbe, negli esigui limiti entro i quali le è possibile approcciare un disegno così vasto, inaugurare, o almeno abbozzare, una riflessione intorno alla tanto sfaccettata e proteiforme e forse mai come in quest'epoca altrettanto vaga ed insidiata, ma proprio per questo feconda ‒ idea d'Europa, e di identità europea.
Provincia ed Europa: un'antitesi solo apparente, se è vero che, per Kafka come per Serra ‒ ma già, ad esempio, per Petrarca nella sua Vaucluse ‒ la provincia era una provincia europea, visitata e penetrata dalle suggestioni, dai semi e dai fermenti di un moto e di un fervore lontani e più vasti, e anzi insufflata, quasi, da uno spirito profetico, da un alito antiveggente, da una prospettiva già aperta sulla vastità del futuro; e che, a ben vedere, l'Europa è forse, etimologicamente, come l'Erebo, ereb, ombra, crepuscolo, tramonto, versante o repositorio in cui vengono a spegnersi, a morire e a raccogliersi nel silenzio e nel riposo dell'autocoscienza idee, correnti e aneliti giunti da lontano, e mai del tutto cancellati, trasfigurati o sostituiti nella creazione e nella fucina del nuovo spirito e della nuova identità (penso all'influsso, oggi sempre più evidente, che la civiltà egizia esercitò su quella greca, e poi, proprio attraverso fonti greche, sull'ermetismo rinascimentale, o, più da vicino, al ruolo che la cultura araba, e quella ebraica, giocarono nel medioevo europeo ‒ basti pensare all'influsso della lirica d'amore araba sulle origini di quella provenzale e siculo-toscana, o all'impronta dell'escatologia islamica, ma anche della mistica ebraica, su Dante, o all'Elegia giudeo-italiana, o al fondamentale ruolo dell'averroismo nella filosofia fra Medioevo e Rinascimento...) ‒ Europa, dunque, essa stessa come provincia, non solo domina gentium, non «donna di province» ma provincia di province, fulcro e centro nati dai bordi e dalle ceneri di fuochi antichi, di identità antecedenti, che nell'athanor dell'Europa si rifusero e risorsero più limpidi, trovarono dunque una palingenesi, e insieme un inveramento: provincia di province anche nel senso di un'unità che si rispecchia ed affiora nelle manifestazioni particolari, e nella quale queste ultime trovano il proprio fondamento e la propria dimensione.
Ed Europa, nel senso del personalismo ‒ nel senso in cui Montale scriveva, in francese, di essere «un personnaliste convaincu» ‒, come varia unitas, come identità molteplice, come «persona di persone», come mosaico di espressioni e di angolature intese sia a livello di comunità, nazioni, lingue, dunque di identità collettive, sia, in certo modo, sul piano dell'interiorità dell'individuo, di un'Europa, per così dire, interiore (già Petrarca si sentiva «unus conflatus ex pluribus»), che risuona con il suo intreccio e il suo concento di voci e di eredità e di possibili aperture dentro ciascuno di noi, in quanto homo Europaeus.
In questa luce, forse, si possono chiarire anche la tanto dibattuta questione delle radici cristiane dell'Europa, il problema dell'Europa come Christianitas di cui parlava già Novalis: se è vero che solo il cristianesimo, e non il mondo antico (eccezion fatta forse per certi aspetti della civiltà ellenistica) pose le basi (poi, è vero, tanto spesso disattese dalla Chiesa nei chiaroscuri della sua storia) per l'abolizione della schiavitù, per la dignità della donna, e per un'autentica democrazia senza distinzioni di nascita e di censo, è altrettanto vero che l'identità europea può essere identità cristiana soprattutto nella misura in cui quest'ultima venga concepita non come esclusione, settarismo, integralismo o scontro di civiltà, ma, al contrario, come universalismo: come venerazione del «dio ignoto», come ipostasi universale e molteplice di Cristo Figlio dell'Uomo, nella cui contemplazione, nel cui infinito specchio, si scompongono e si fondono distinzioni ed opposizioni, nella speranza e nella possibilità di una universale redenzione.
«Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Galati, 3, 28). Forse, in tal senso, Montale è, accanto ad Eliot, poeta europeo per eccellenza (e, in senso molto lato, anche poeta cristiano):

Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un'alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz'ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud...


                                                                (M. V.)


Il mio studio su Adriano Olivetti vorrà mostrare come il suo pensiero e la sua opera contribuiscano, in modo originale e sostanziale, alla composizione di un contesto culturale -ancora in via di formazione- che definirei, per ora,
neo-personalistico e che potrebbe concretamente diventare
(per l'ampiezza dei pensatori che ne fanno parte e grazie
al comprendere comune che proprio ora riappare),
il nuovo pensiero unificante d'Europa.
Un orizzonte di pensiero unificante, l'Europa lo ha sempre avuto: è accaduto dal Rinascimento carolingio al Romanticismo; non è più accaduto nel '900, quando l'unità culturale d'Europa, che fino ad allora aveva agito e resistito -malgrado le sopraggiunte divisioni politiche- per tanti secoli, si lacerò catastroficamente, senza più, fino a ora, ricostituirsi, a meno di voler considerare unificante la sorda assenza di pensiero rappresentata da economicismo, macchinismo, scientismo, nonché, in definitiva, da tanti miti novecenteschi.
A questo proposito, si vaglierà attentamente la fondamentale critica alle opposte ideologie del '900 -considerate pericolose e falsificanti proprio in quanto ideologie- espressa da vari pensatori che lo studio si propone di comprendere e collegare, compreso Adriano Olivetti, il cui lavoro è al riguardo specificamente significativo.
Il pensiero comune che verrà messo in luce si qualifica infatti innanzitutto come non ideologico, come ontologico; esso quindi, in quanto rinnovato discorso sull'Essere, è un nuovo paradigma, che abbandona "d'un tratto" (come direbbe Kuhn) il paradigma gnoseologico, soggettivistico e infine nichilista iniziato con l'età moderna, così come la modernità aveva d'un tratto abbandonato, in un rivoluzionario e terribile trapasso epocale, il paradigma metafisico antico e medievale.
Tra Ottocento e Novecento, questa rinnovata visione ontologica ha avuto precursori e fondatori, in Occidente e in Oriente, con grandi e tuttora poco noti pensatori, che già Olivetti, con le sue precorritrici edizioni di "Comunità", aveva riconosciuto e valorizzato, cercando al tempo stesso di farne comprendere il necessario, ineludibile apporto alla realizzazione di un nuovo spirito europeo.
Sarà dunque individuato il possibile nuovo
"pensiero comune europeo" a più livelli:
1) la filosofia "accademica", che ne pone le indispensabili premesse teoretiche e le basi speculative profonde, in un percorso che va (per ora citare solo alcuni) da Dilthey ad Heidegger, Husserl, Patočka -e, in Italia, Emanuele Severino;
2) il pensiero di filosofi indipendenti da scuole, o comunque estranei alla filosofia pura (Simone Weil, Hannah Arendt, Maria Zambrano, Edith Stein...) ma anche i cristiani ortodossi Berdjaev, Solovev, Florenskij... e, in Francia, i personalisti cattolici -con riferimento alla feconda stagione francese degli anni Trenta in cui Berdjaev e Maritain animarono lo "studio franco-russo");
3) il lavoro svolto in Italia (e non solo) negli anni '60 e '70 (ma anche '80) in vari ambienti e cenacoli, dei quali ci si propone di mostrare a posteriori le sorprendenti affinità, come: il movimento olivettiano di "Comunità", la comunità fenomenologica di Enzo Paci e dei suoi allievi (in particolare Guido Davide Neri, scopritore e tuttora principale studioso italiano di Patočka), il movimento di pensiero europeista, l'ambiente animato in vario modo da Cristina Campo, l'ambiente universitario legato all'economista Federico Caffè ecc.);
4) Il lavoro di singole personalità della cultura italiana, come lo storico della musica Fedele d'Amico e il filosofo Rosario Assunto.
5) Si farà inoltre ricorso:
α) al lavoro di Giovanni Grandi "L'idea di persona nel pensiero orientale" che raccoglie i contributi al seminario svoltosi nel giugno 2000 presso l'Università di Trieste in collaborazione con l'Istituto Internazionale J. Maritain;
β) al lavoro di Marco Barcaro "Patočka e le filosofie della storia del Novecento -La domanda sul senso nei Saggi eretici-" (tesi discussa nel 2010-2011 all'Università di Padova).
Lo studio si propone infine di delineare una possibile odierna comunità culturale europea, con il collegare e valorizzare speculativamente i vari fermenti che attualmente, da Oriente a Occidente, la attraversano.

lunedì 9 giugno 2014

Radu Vancu, "prima villanella d'amore"



Presento al lettore italiano questo pregevole, finemente cesellato testo di Radu Vancu, uno dei più significativi poeti rumeni dell'ultima generazione. Nella raccolta Frânghia înflorită (Lacorda fiorita), di cui si può leggere qui, nella limpida versione di Eliza Macadan, una selezione (http://poetrytranslation.net/2014/03/31/radu-vancu/), il poeta rimodula sapientemente, come in un'eco distante, volutamente turbata ed alterata, la terzina dantesca e pasoliniana, facendone misura espressiva di un pensiero ossessivo, di un ciclico ed angosciante ritorno dei morti e ai morti nella dimensione sospesa del sogno («Ce-ţi spune unul dintre morţii tăi / cei mai dragi, cel mai iubit dintre morţi, / când te lasă inima să-l visezi: // „Dragule, în ziua aia când soarele de noiembrie / era călduţ ca un cadavru proaspăt / şi eu îţi muream în braţe / nu-mi închipuiam că aici, / unde totu-i înfricoşător de bine, / e un aer tare ca votca»: «Cosa ti dice uno dei tuoi morti / più cari, il più amato fra i morti, / quando il cuore te lo lascia sognare: / “Caro, quel giorno quando il sole di novembre / era tiepido come un corpo appena spento / e io ti morivo fra le braccia / non mi figuravo che qui, / dove tutto è tremendamente buono, / ci fosse un'aria greve come grappa»).
Ora, la forma è quella della villanella, canto di origine popolare napoletana, ma già passato attraverso numerose trasfigurazioni e riletture, anche otto-novecentesche, dal Parnasse al modernismo, da Banville a Leconte de Lisle, da Auden a Sylvia Plath a Dylan Thomas.
Proprio a quest'ultimo si deve la più celebre villanella della poesia contemporanea («Do not go gentle into that good night, / Old age should burn and rave at close of day; / Rage, rage against the dying of the light»: «Non scivolare inerte in quella buona notte, / arda l'età tarda, e faccia del crepuscolo un'orgia; / Ringhia, ringhia contro la luce che tramonta»), vicina a questi versi per l'ipnotico ricorrere, e rincorrersi, di formule rime assonanze (al cui rispecchiamento ho a volte sacrificato la fedeltà alla lettera) che avvolgono e modellano l'intrico di amore e morte, di tenebre e luce.
Anche una forma che pare ormai svuotata, ridotta a curiosità folclorica, a reperto erudito o ad esercizio virtuosistico, può recuperare una nuova, insospettabile ed incessante vitalità: vitalità un tempo popolare, ingenua, sorgiva, ora inevitabilmente filtrata, polverosa cupa ed inquietante, forse, come quella di un revenant, di un morto sopravvissuto a se stesso, che ritorna nei sogni come sulle pagine, nei pensieri come nei versi con i loro refrain insistiti ed ossessivi. (M. V.)



întâia villanella de amor

nu poţi şti când lumina e-ntr-adevăr lumină
ori numai moartea dulce-ntunericului când
absenţa ta se face din ce în ce mai plină.

deşi coboară-n mine privirea cea satină
a ochilor tăi verzi, întunecat arzând,
nu poţi şti când lumina e-ntr-adevăr lumină.

goi, sânii tăi noptatici în mână îmi suspină
şi trupurile noastre se-ngemănează blând -
absenţa ta se face din ce în ce mai plină -,

apoi, sânii noptatici de suflet mi se-anină
şi-l sfâşie. lumini ţâşnesc din el cântând.
(nu poţi şti când lumina e-ntr-adevăr lumină.)

iei sfâşiatul suflet în mâna cristalină
şi-l sorbi ca pe un abur, din doi unul făcând.
absenţa ta se face din ce în ce mai plină.

pe pielea ta e noaptea o spumă tot mai fină.
sub ea, sufletul meu luceşte ca un gând.
nu poţi şti când lumina e-ntr-adevăr lumină.
absenţa ta se face din ce în ce mai plină.

(din Epistole pentru Camelia, 2002)


prima villanella d'amore

non puoi sapere quando la luce è veramente luce
o soltanto il morire delle tenebre mentre
la tua assenza si fa di giorno in giorno più atroce.

perciò entra in me lo sguardo che traluce
dai tuoi occhi verdi di tenebra ardente
non puoi sapere quando la luce è veramente luce.

nudo, il tuo notturno seno si fa nelle mie mani ansante voce
e i nostri corpi divengono uno solo dolcemente -
la tua assenza si fa di giorno in giorno più atroce -,

poi, il tuo notturno seno diviene alla mia anima croce
e ferita. Le luci da lei stillano in canto.
(non puoi sapere quando la luce è veramente luce.)

prendi l'anima ferita nella mano che riluce
e la delibi come un vapore, in un unico incanto.
la tua assenza si fa di giorno in giorno più atroce.

sulla tua pelle la notte come spuma sottile s'induce.
sul fondo, riluce la mia anima come un pensiero infranto.
non puoi sapere quando la luce è veramente luce.
la tua assenza si fa di giorno in giorno più atroce.

(da Epistole per Camelia, 2002)