domenica 6 aprile 2014

Ringkomposition. Massimo Sannelli, a un anno dall’abiura

Ad un anno dalla sua pubblica abiura dei suoi libri di versi sente di aver fatto un passo avanti? O indietro, a seconda di cosa veramente intendeva lasciarsi alle spalle?

R. Molto più di un solo passo. Comunque un passo avanti, questo è certo. Ma il passo deve anche ridere, se no si cade nel personaggio tragico: che non deve esistere, perché il tragico non può resistere. Nello stesso tempo, non volevo (e non voglio più) agire solo umanisticamente, fuori tempo e snervato: un libero retore in una libera rete non fa paura neanche a Berlusconi.

Potrebbe dirci qualcosa in merito alla sua attività svolta in questi ultimi tempi per le pagine di «Trentino Libero»? Ne emerge un opinionista sui generis, un umanista infedele a quella linea che tende a smarcarsi dall’espressione viva, ritmica, musicale più che concettuale…

R. È la costruzione ironica e ringhiante di un nuovo tipo di autore. Lì provo uno stile che sintetizza molti stili. Il progetto è una freccia. È un proietto e va bene. È un proiettile, e così via. E niente dóxa, là dentro, non più; ma una cosa: un lamento che si realizza e poi si rende irrealizzabile – attenzione –, si dissolve (in risate e in silenzio) e poi si realizza di nuovo. Ora le svelo un mistero buffo: io scrivo musica, di solito, ma nessuno lo sa. Il mondo cerca solo idee, per ripeterle, e la prosa è brava a sembrare il carro delle idee.

Sapevo che lei avesse compiuto studi musicali approfonditi, ma non che scrivesse musica. Che genere di musica compone? Ho detto male “genere” e di sicuro anche “compone”, questo lo so. Forse musica mentale, astratta, non pensata per alcuno strumento in particolare, un po’ come l’Arte della fuga di Bach? Anche la poesia del resto è musica humana, non musica instrumentis constituta, musica ineseguibile se non con il pensiero. Ma lei tende ad asservire il pensiero alla dimensione musicale, e con tutta probabilità sbaglio anche in questo caso. Il suo mistero insomma non è affatto buffo…

R. Ho fatto musica elettronica, a volte. In realtà adesso si tratta di scrittura, cioè del presente. Questo presente è molto tecnico: sono fogli elettronici, sullo schermo, come ora. La musica di questo foglio è una serie di parole e sperimento, sempre – quindi anche ora, anche qui –, la potenza di alcune espressioni. Non sul piano del timbro e dell’altezza, che saranno realizzate dal performer, a modo suo. No: i testi sono esperienze ritmiche, perché gli accenti non sono modificabili e l’ordine delle parole è dato, qui, nella partitura. Ecco il punto: non scrivo per esprimermi ma per esprimere, quindi è sempre un atto teatrale e dedicato all’apparenza. Voglio rappresentare fisicamente il messaggio, che è una presenza: da un lato. Dall’altro: voglio fare e dare la partitura degli esperimenti sonori. In generale: non sopporto di essere un portatore di messaggi, anche se è inevitabile portare un messaggio. Per questo amo lo show, la mostruosità del lavoro, il silenzio. E la musica arriva per soffocare la presunzione e il senso, da un lato; dall’altro: unità di tempo, luogo e azione, va bene, ma la tripla unità deve avere anche l’unità di intenzione, quindi di vita. Il canto deve essere sincronizzato con la sensazione, che è mentale, quindi il canto deve essere sincronizzato con la mente; ma la mente è nel corpo, quindi il canto deve essere sincronizzato con il corpo; ma il corpo è in un luogo – e cambia molti luoghi, in cui sente caldo o freddo, fame o sete, pace o dolore – quindi il canto deve essere sincronizzato con il luogo, in cui avvengono le sensazioni. C’è un altro punto: la vita non è perfettamente solitaria, perché ci sono rapporti e nodi, quindi il canto deve essere sincronizzato anche con la socialità e con l’asocialità. Io sono solo apparentemente un poeta, cioè mi rappresento come poeta: la musica che faccio ha solo l’apparenza occasionale dei versi. E quindi? Io scrivo una musica verbale che è – nella mia intenzione – il doppio del corpo, del tempo, del luogo e dell’azione. Questa musica verbale non deve essere intesa come un messaggio, anche se porta messaggi; deve essere intesa come una rappresentazione. Ecco: chi mi legge, legge me. Dove non mi riconosco più, riscrivo me.

Nei suoi testi dal “tempo breve” che escono in forma aperiodica su «Trentino Libero» le sue cognizioni estetiche si intrecciano a ragioni etiche, alla polemica quasi mai esplicita. Tuttavia, sembra inoltre passarvi qualcosa della sua vita privata, magari per interposta persona…

R. Non è vita privata. È un concetto disgustoso, per me. Ne ho abbastanza, della mia vita privata. Negli articoli – e non solo negli articoli – ci sono alcune percezioni, ma non ci sono più i fatti. In generale, in realtà, io non voglio privacy, ma voglio silenzio, per lavorare. E naturalmente faccio tutta la vita pubblica possibile, perché apparire è un modo per stare quasi sempre in silenzio. Può piacere o no, ma io vivo e lavoro così. Il silenzio riguarda l’uomo intimo, che è il segreto assoluto. Questo silenzio pratico e pubblico, sotto l’apparenza della voce ripetuta, è come la musica in prosa: c’è, può essere anche amata, si vede e sente, ma nessuno lo sa.

Queste informalissime “terze pagine” andranno a finire in un libro, come molti suoi lettori, tra cui me, si augurano?

R. Disprezzavo la dispersione o no? Sì. Penso sempre ad un secondo corpo: il corpo loricato, una bibliografia-portami via, una bibliografia-amore della mia vita. Penso sempre alla forma del libro, perché è la forma dell’unione.

Con quale spirito affronta le sue Lecturae Dantis?

R. Montando e smontando qualche piccolo gioco: la selva-vasel, la vagina delle membra di Marsia, e altro. Si può ridere anche di questo magistero del romanzo-in-versi, con il suo ritmo cantilenante. Dante regge bene una dissacrazione tenera, anche perché ha fatto un discreto scempio del suo entourage. E così tollera le punture del Narciso-Attore.

Ripensa mai a Scuola di poesia? Con nostalgia? Con indulgenza verso quello che lei era, o con soddisfazione? O come?

R. No, non ci penso mai. Non ci penso più, perché il libro è fatto. La gravità è sgravata e grava – vaga, vaghissima – su altre e altri, se ci sono i lettori. Nessuna nostalgia, mai. E neanche la soddisfazione, se non per certi giri di prosa – cioè: musica – che sono il mio lavoro (la «parte migliore»).
Quale delle sue varie attività sembra maggiormente gratificarla? Lei mi risponderà che ogni azione comprende tutte le altre, che nulla è settoriale o sufficiente a sé, e che dunque la mia domanda non ha senso…

R. No, ha senso. E penso questo: la soddisfazione è una cosa del corpo, prima di tutto. Non posso essere scettico, in generale, quando si tratta di corpi. E il corpo deve manifestarsi. La soddisfazione è in questo: poter essere artistici senza essere grammatici. Quindi: essere verbale – è quasi un obbligo – e anche non verbale, nello stesso tempo e nella stessa azione. Il cinema dà – è – soddisfazione, soprattutto quando non c’è parola: chi cerca prova (e fa esperimenti, ma non in vitro, non a freddo).

Come si lega al suo lavoro il suo ultimo film da attore, Tempo di vita di Aleksandr Balagura?

R. Il film è una ricostruzione di vari livelli del passato: la ragazza al mercato, gli intellettuali ex-sovietici, una coppia, le fotografie (il cane nella neve, la coppia che salta, la slitta). La mia parte è quella del Poeta. All’inizio parlo con un fotografo tedesco, a caso, ed è apparsa la voce stanca dell’intellettuale che dice «noi decadenti»; è apparsa senza studio, come una cosa naturale, e lo era, per un senso di disagio (lo ammetto, lo ammetto); poi c’è un monologo sul cinema, in solitudine, davanti al mare. Come si lega questo lavoro a tutto il lavoro? Si lega per un atto di volontà e basa: perché la volontà lega tutto. E si lega perché il monologo fu improvvisato sul momento, quindi non era conoscenza (lo ammetto, lo ammetto): con ironia e con volontà di lodare Genova, il cinema, Guerra, Resnais, Godard. L’esaltazione più forte sussurrava una frase semplice – «io vivo qui». – e la dissi, da dentro a fuori.

«La voce stanca dell’intellettuale che dice “noi decadenti” »… Non è così nel film, ma dette così le sue parole sanno un po’ di snobismo, di quell’atteggiarsi che ormai abbiamo un po’ tutti sgamato in quanto ad autenticità, e Jep Gambardella ci ha messo il suo carico, urbi et orbi. Finalmente. O no?

R. C’è un fatto politico. La politica mi colpisce solo se ha dei caratteri tra l’eroico e il perverso, il performativo e il disperato: fermo restando che i mostri sono mostri (e sono quasi tutti mostri). Non vedo alcuna morale nella politica – lo Stato non può essere morale, essendo una rappresentazione – ma ci vedo una serie di sensazioni, anche poetiche, quasi sempre deliranti, come nelle prime pagine delle Vergini delle rocce di d’Annunzio. Il mondo è un’altra cosa. Meglio così. L’estetica non è solo nell’arte. Meglio così. E le idee di Gheddafi sul teatro e sullo sport occidentale potrebbero anche non essere tanto assurde. Noi paghiamo le rappresentazioni, paghiamo per le rappresentazioni, amiamo essere intrattenuti, a pagamento, ed essere ritratti, sempre a pagamento. La grande bellezza ritrae un certo mondo romano. Bene: Roma è piena di Jep, e di finzioni sgamate da Jep, chi la conosce lo sa. Quanto alla decadenza: in realtà, non c’è tutto questo bisogno di essere italiani. Con un po’ di delicatezza, con una sensazione privata, quasi onirica, io – forse – so che (forse) si romperà tutto il perimetro dell’istituzione (della rappresentazione, che è momentanea).

Ha ancora un senso – artisticamente, non commercialmente – il cinema tradizionale secondo lei? O avevano ragione Guy Debord o Carmelo Bene a dire che il cinema può ormai esistere soltanto come distruzione, decostruzione, distorsione, negazione del cinema tradizionalmente inteso come storia rappresentata?

R. Tutto questo può valere nell’Occidente, finché dura. E adesso dirò una cosa sgradevole: Carmelo Bene è adorabile – sempre e in tutto –, ma lo è da Lisbona a Praga. Bene dice cose essenziali sull’uomo, ma non può dirle a tutti: è universale ma è localizzato, se no che italiano sarebbe? Un’opera filmica non può essere semplicemente un buon centauro, cioè una mescolanza tecnica di tecniche e felice di essere come è? E può evitare di opporsi, ma fare, fare le cose e basta?

Greenaway afferma che il cinema è una cosa troppo importante per lasciarla ai narratori. È vero?

R. Greenaway è stato anche più chiaro: «If you want to be a storyteller, be an author, be a novelist, be a writer, don’t be a film director. Cinema is not the greatest medium for telling stories. It is too specific, leaves so little room for the imagination to take wing other than in the strict directions indicated by the director». Ecco il punto. Lo Zoo di Venere può essere un modo di praticare la precisione e – anche – di usare la musica, per piegarla e coinvolgerla; e per irretirla o credere di farlo nelle «direzioni indicate dal regista». Il Director dirige le Direzioni, come uno stratega.

Il cosiddetto cinema di poesia non tende forse di per sé a cessare di essere cinema comunemente inteso, a divenire, chiasticamente, il poema filmico teorizzato da Pasolini?

R. Se «il cinema comunemente inteso» è un racconto ordinato, il cinema di poesia deve diventare un poema filmico, è chiaro. Ma attenzione a Pasolini. Uno come Pasolini non parla mai di cose diverse da sé. Quanto a noi – il pubblico, gli intellettuali, i diretti dal Director non storyteller e molto sadico –, noi cerchiamo idee ed interpretazioni dove ci sono solo specchi personali. Ora, Pasolini non si interpreta, ma chiede un rapporto gerarchico, perché si è posto automaticamente fuori dall’umano, praticando l’Opera e il Sesso, due forme di eccesso. Oggi citare Pasolini è affascinante – per forza di cose: è un pezzo unico –, ma noi sbagliamo sempre la premessa: vogliamo interpretare il massimo livello della solitudine, che è un fatto religioso, come se la solitudine fosse un messaggio da capire, una disgrazia da compatire, e non un ruolo che ti taglia fuori. Se io sono solo, ti voglio solo come pubblico, capisci? Nessuno lo capisce. Il cinema di poesia è un atto superbo e sublime, nello stesso tempo: puro narcisismo di Narciso, rifatto sempre. E il regista non può essere molto dolce, comunque: la direzione non è mai delicata, per statuto.

Che cosa pensa del film La grande bellezza?

R. È bellissimo. Compresa la parte tagliata con Giulio Brogi. Apparire non è il contrario di essere, è un’ingenuità dirlo, è ingenuo sostenerlo, ma bisogna farlo, se no non esisti, e apparire – in opere, quindi in lavoro – non è male, e mondano non è immondo, ma che cosa lo dico a fare? Mondano e monaco possono essere simili, in un certo senso. È bello così e basta, tutto qui.

Di Genova – quale sfondo del soggiorno ligure di Shelley, Keats, Byron – Roberto Mussapi scriveva che la città per sopravvivere «deve guardare il mare». «Genova non può voltare il capo alle spalle, dove un muro la chiude e condanna, non può volgersi e quindi interrogarsi, scrivere meditando la propria avventura, può solo viverla, consumandola sulle onde. Per questo non fonda una tradizione d’immagini, un mito. Scrive la sua storia sulle acque, e ne affida l’appercezione, l’intermittente e rapsodica memoria alla luce della Lanterna. Solo una luce sul mare, un segnale di vita lanciato nel buio, sarà il suo monumento e il suo emblema. Conquista i mercati e il controllo delle banche, ma conia la sua moneta sui raggi gettati all’acqua. Va avanti, non conosce pietre miliari ma rotte evanescenti, le sue imprese si cancellano sulla superficie del mare fondo e senza memoria. Come se tutta la sua vita fosse una partenza, se ogni sua azione fosse mossa dal vento». Qual è la sua Genova, quella granitica, labirintica e ombrosa, oppure quella ariosa, trasognata e solare di Giorgio Caproni? O quella segreta che lei tende a ricostruire, sia documentalmente che attraverso impressioni e impronte lievi, relativa al passaggio a Genova di alcune figure della storia? Meritano insomma un discorso a parte i raffinati volumi da lei curati con Vittorio Laura, Una rapida ebbrezza. I giorni genovesi di Elisabetta d’Austria, e il più recente Filippo V di Spagna a Genova, o trasmettono anch’essi qualcosa di essenziale del corrente umore della città?

R. La descrizione di Mussapi è troppo, in tutti i sensi: troppe parole e troppa retorica. Basta un livello normale: Genova è ruvida e nervosa, imperfetta, ma non ignorante. Io la vedo come uno stimolo, continuo, continuamente riveduto e scorretto, perché questa è anche la Città Barbara, parola di Caproni. Oggi, di fronte alla Barbara, io non sono uno storico locale, anche se ogni tanto mi occupo di storia locale. Lo faccio in nome di una strana fede, che è questa: gli eventi del 1702 (Filippo V) o del 1893 (Elisabetta d’Austria, Sissi) non sono storia locale, ma azioni di una poesia e di un teatro – vitale e vero – che provo a riscrivere, perché c’è stato. Lo giuro: c’è stato. E non mi interessano tanto i dati storici, quanto le situazioni e le sensazioni. Il luogo mi sembra glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza: tutto quello che accade qui deve essere glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza. Mi interessa lo statuto di Genova, cioè ogni conferma dello stile ricco e barbaro, senza noia. Quando accade, prendo nota.


                                                                                                                                   5 aprile 2014

(a cura di Elisabetta Brizio)

Carmen Bugan, "The Divorce" (traduzione di Chiara De Luca)



The divorce

Before they brought him to the courtroom, they gave him three apples:
‘Your wife sent you these.’ He cradled each apple in the cup of his hands,
The smoothness of their skin became the cheeks of each child.

Inside the courthouse there was a quiet opening and closing of doors.
A crowd of people was chanting his name under the windows.
When the door opened, I saw his bare feet in brown shoes.

His children held each other tight against the wall.
Their breaths, white with cold, were rising towards the ceiling.
They listened for the voices of their parents.

When the divorce was over, he was allowed to see them:
They kissed his chained hands, promised to be good, let their tears fall
On his prison uniform with his own, all three of them burying him.

How I wished we could hide him with our bodies and take him home!
The Securitate peeled us off him. But we were the apple seeds left to grow
In the sound of his chains on the cement floor.


Il divorzio

Prima di portarlo nell’aula del tribunale, gli diedero tre mele:
“Queste te le manda tua moglie.” Le cullò una a una nel palmo delle mani,
la pelle liscia di ciascuna divenne quella della guancia di uno dei tre figli.

Dentro il tribunale c’era tutto un quieto aprirsi e chiudersi di porte.
Una folla di persone salmodiava sotto le finestre il suo nome.
Quando la porta si aprì, vidi i suoi piedi scalzi nelle scarpe marroni.

I suoi figli si stringevano l’un l’altro contro la parete.
Il loro respiro, imbiancato dal gelo, saliva verso il soffitto.
Cercavano di sentire le voci dei genitori.

Quando il divorzio fu concluso, gli fu concesso di vederli:
loro gli baciarono le mani incatenate, promisero di essere buoni, lasciarono
le lacrime mescersi alle sue sull’uniforme della prigione, seppellendolo insieme.

Come avrei voluto nasconderlo con i nostri corpi per  riportarlo a casa!
La polizia segreta ci strappò da lui. Ma eravamo i semi di mela lasciati a crescere
nel suono delle sue catene sul pavimento di cemento.



Da Crossing the Carpathians, Carcanet, Manchester 2004

sabato 5 aprile 2014

Carmen Bugan: due riflessioni su poesia, esilio, linguaggio



Perché non scrivo nella mia lingua natale

La mia esperienza di scrittura poetica in inglese può essere spiegata nel migliore dei modi raccontandovi la composizione della poesia sul divorzio dei miei genitori. In rumeno, anni fa, la intitolai Divortul, ossia Il Divorzio. Quando iniziai a sognare in inglese, e quando le parole iniziarono a salirmi alle labbra in inglese, avvertii dentro di me una occulta corrente di novità. Libertà e vivezza: la mia lingua pian piano si scioglieva, e volevo vedere come tutto ciò risuonava nella mia nuova lingua. Dapprima scrissi ciò che ricordavo della poesia in rumeno, poi cercai di tradurlo: fu intitolata, successivamente, L'Aula, Un voto d'amore e infine Il Divorzio. Molte delle prime versioni inglesi avevano al proprio interno troppe spiegazioni: perché mia madre era stata costretta a divorziare, cos'era accaduto in aula – proprio come se tutta la storia del paese dovesse essere narrata solo perché la poesia stessa potesse scaturire. Poi, quando divenni più radicata nella mia “terra lontana”, appresi a condensare il racconto in immagini che lasciassero trasparire, sullo sfondo, la molteplicità dei racconti. E così accadde con molte altre poesie, finché la lingua inglese cominciò a farmi vibrare in accordo con i suoi suoni, e le parole rumene cessarono di tornare a ritradurre le poesie. A distanza di tempo, penso che sarebbe necessario un grande sforzo per riversare la cultura da cui scrivo ora nella cultura rumena che avevo abbandonato appena prima della Rivoluzione. E se ora cercassi di scrivere in rumeno, sarebbe piuttosto come tornare a casa su una vecchia mappa (linguistica).
Ma c'è qualcosa di più. Mi chiedono tanto spesso perché io non scriva in rumeno che penso a ciò lungamente e profondamente. Per prima cosa, non voglio scrivere nella lingua in cui la mia famiglia subì interrogatori, visite in prigione, minacce di ogni tipo. Certamente non voglio ricordare tutte le volte che ci scrivemmo e bruciammo le nostre parole: fummo sorvegliati ventiquattr'ore al giorno negli ultimi cinque anni che ho trascorso nel mio paese, e tutto ciò che dicevamo fu registrato da microfoni disposti intorno alla casa. Odiavo sottintesi, menzogne, la paura delle parole. Ora faccio parte di coloro che scrivono in una lingua appresa. E faccio parte di coloro che si sforzano di definire le proprie responsabilità come persone che, nate in un paese, vivono, di propria volontà, in un altro. Questa potrebbe apparire a molti una di quelle condizioni che si riesce facilmente a superare. Ma la ragione per la quale si scrive nella propria lingua natia, dall'esilio, è che la lingua natia ha in sé bellezza e verità. I poeti scrivono nella loro lingua natia per ricordare il calore di casa, gli usi della città e del villaggio, la giovinezza felice. Vogliono ricreare un senso di casa, un bozzolo tiepido intorno all'esperienza raggelata dell'esilio. Ma il mio esilio è il mio bozzolo. Preferisco esprimermi in inglese che ricordare i bambini che mi chiamavano “figlia di un criminale” nella mia lingua natia: quella non ebbe mai suono di sicurezza, di bene o di casa. Quando smisi di guardarmi le spalle per vedere se qualcuno mi stesse seguendo per farmi del male, smisi di cercare di scrivere poesia nella mia lingua natale. Credo che le poesie stesse facciano apparire la mia scelta meno stridente o meno impertinente. Nella mia situazione non è così male stare sulla sponda della dimenticanza.


Da Vent'anni dopo: riflessioni su Esilio e Lingua

Sono giunta ad odiare la lingua in cui sono nata. Non è un giudizio, è un'emozione che dura da vent'anni; sono assolutamente certa di non essere sola in quest'esperienza. Ma questo fenomeno è anche un simbolo fortissimo di sopravvivenza: come l'acqua, se le parole sono arrestate da una diga, continueranno a vagare e proromperanno in un altro luogo – in un'altra lingua. In inglese, per un po', mi sentii con la lingua annodata, ma dopo aver imparato la lingua potei parlare con franchezza di ciò che era successo a noi e a me. Non appena ciò iniziò ad accadere iniziai a dominare me stessa, ad avere e ad esprimere le mie opinioni, a scrivere poesia senza temerne le conseguenze. Divenni libera e proclamai il mio Salut au monde con la stessa intensità con cui Walt Whitman proclamava nella sua poesia che ognuno di noi è invincibile, con i propri diritti di uomo o di donna sopra questa terra. Così mi gettai con furia nella lingua inglese e nella vita: danzai per le strade nel cuore della notte senza temere le tenebre, appesi le mie poesie agli alberi nel campus universitario ad Ann Arbour quando ero studentessa, trovai i documenti su mio padre nella biblioteca universitaria e divenni fiera che gli altri sapessero che i miei genitori non avevano chinato il capo, non si erano venduti a una dittatura, e che eravamo sopravvissuti a tutto con cuori e spiriti intatti. Infine, fui io a bandire la lingua rumena dalla mia poesia. Non c'era spazio per lei in questa luce, nel dire la verità, nel potente sforzo di vivere come un essere umano felice dall'altra parte del mondo. Non tornai più in Romania, tranne che per una visita di una settimana nel 1995, quando diedi l'ultimo addio a mia nonna che stava morendo di cancro, perché quando mio padre pose la propria vita e le nostre vite in pericolo per abbattere il regime di Ceausescu, nessuno lo seguì. La gente accorse per vederlo, lo vide e poi si nascose, terrorizzata, dove poteva.

(da After Twenty Years: Reflections on Exile and Language «interLitQ.org» http://www.interlitq.org/issue10/carmen_bugan/job.php)


Tutte le poesie edite di Carmen Bugan appariranno, con traduzione a fronte, presso l'editore Kolibris (http://kolibris.wordpress.com). 

Questi i libri già editi: http://www.amazon.co.uk/Carmen-Bugan/e/B0034PBSMM

Qui un profilo biografico: http://poetrytranslation.net/carmen-bugan

martedì 25 marzo 2014

Elisabetta Brizio, "Ruffilli traduttore di Kavafis"





   Il sole del pomeriggio era la frazione del giorno preferita da Kavafis. Da un lato, abbiamo una luce che poteva essere goduta sotto il cielo, girovagando, com’era sua abitudine, per il centro storico di Alessandria dopo le ore di lavoro. La stessa luce, incidente e non riflessa, diviene implacabile se penetra negli interni, dove, per la sua inclinazione, nulla assorbe o lascia in ombra, mette-a-fuoco (incendia) fino i minimi contorni nel chiuso e nel profondo delle stanze. Il sole del pomeriggio (il cui declinare viene effigiato nello sfumare dei caratteri nel titolo di copertina) è la memoria che procura ricordi riafferrati come presenze nette («l’emozione d’amore ancora intatta»), di specie amorosa in particolare, con tutti i loro dettagli più o meno significativi. Dall’altro, il declinare della luce del pomeriggio favorisce l’irrompere della nostalgia sia per «le candele spente» del tempo che per le voci che «ci parlano nei sogni», voci che intercettano e restituiscono il ricordo insieme alla mancanza del suo oggetto nella solitudine della sfatta luminosità della sera.
Il sole del pomeriggio presenta un florilegio da Costantino Kavafis introdotto da Paolo Ruffilli, e da lui tradotto con Tino Sangiglio, dedicatario del volume insieme a Filippo Maria Pontani, già interprete e traduttore del poeta greco per i tipi della Mondadori. Nella sua introduzione Ruffilli focalizza alcuni punti fondamentali per una rilettura della poesia di Kavafis. Riconsidera anzitutto «il mito dell’ellenismo» come capitolo decisivo della modernità, canone-anticanone di una poesia caratterizzata da un mutamento di grado e ormai non più finalizzata alla celebrazione o alla valorizzazione di istanze etiche e civili. Una poesia che da tempo ha assunto un’accezione meditativa e riflessa, che ha spostato quasi esclusivamente all’interno la propria indagine, e che qui si avvale di toni epigrammatici ed elegiaci.
«La genialità di Kavafis – Montale osservava – consiste nell’essersi accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo Europaeus di oggi; e nell’essere riuscito ad immergerci in quel mondo come se fosse il nostro» – e sarebbe interessante far reagire, giustapporre e mettere a confronto e a contrasto la luce più sfumata e intrisa d’ombre del meriggio di Kavafis con quella nietzschiana dei meriggi montaliani, che invade e penetra il paesaggio immobilizzandolo, calcinandolo fin quasi a dissolverlo.
L’ellenismo è ricostituito da Kavafis fondendo eloquio comune e tradizionale purezza del linguaggio poetico. Una scelta che attenua le intense emozioni di cui la sua poesia si nutre, smorza la tensione sentimentale e la sua effusione, gli affetti d’amore per proibiti corpi efebici, per figure remotissime, perlopiù d’invenzione «nel vagheggiamento di una Storia superiore (Eurione, Lanis, Endimione)», Ruffilli dice, inquadrate entro una sonorità contratta, contenuta nei margini di un alessandrinismo versale circoscritto ma non cristallizzato.
La lingua greca, usata ormai marginalmente (percepita, paradossalmente, quasi come lingua minore, mentre in origine fu, com’è evidente, teatro espressivo del maggiore codice culturale dell’identità europea, grande crogiolo e filtro del carattere mediterraneo, tra matrice afrosemitica e fantasma indoeuropeo), diviene lo strumento per tutelare quell’esigenza di separatezza e di riservatezza che Kavafis perseguiva. Inoltre, quella greca si offriva come lingua ignara di censure. Logos, allora, congeniale al fine di «cedere ai Desideri» senza che «alcuna virtù ti dissuada», di dare libero sfogo anche al dato tangibile di una sensualità che rivive nella memoria («la memoria dei corpi», Ruffilli la chiama) e che si ricrea nell’attenzione del lettore. Perché il corpo d’amore passa, Kavafis dice, «per le sublimi contrade di Poesia», non soltanto quando l’amante è anzitempo rapito dalla morte.
Attraverso la ripetizione il tempo subisce un arresto, e la sospensione, Ruffilli osserva, è una strategia estetica che promuove una «trasposizione romanzesca», ottenuta anche con l’intercalarsi di prima e terza persona, dunque nella unificazione dell’elemento biografico e di quello dei motivi unanimi. Ruffilli dà insomma l’impressione di cogliere meglio di altri l’essenza del sempre asserito, più che documentato, ellenismo di Kavafis: la rilettura del microcosmo della lirica e dell’epigramma greci nell’ottica di un tempo sospeso, in chiave sì, appunto, epigrammatica, lirica, idillica, ma anche con risvolti orfici e iniziatici. Sotto questo riguardo, più che a Penna e a certe cose dell’ultimo Saba, cui verrebbe spontaneo accostarlo, Kavafis può apparire più vicino di quanto non sembri alla linea simbolista ed ermetica (che in fondo segnò, attraverso l’influsso, del resto più olimpico che alessandrino, più solenne che intimistico, del grande e oggi quasi dimenticato Sikelianós, i suoi esordi, come quelli di un Seferis).


                                                Elisabetta Brizio


Costantino Kavafis, Il sole del pomeriggio, trad. di Tino Sangiglio e Paolo Ruffilli  (Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2014)







domenica 16 marzo 2014

Gabriele Marchetti, "Carducci e noi: la metrica tradizionale e il verso libero"



Sarei curioso di domandare ad un qualunque studente di liceo cosa ne pensa di Giosuè Carducci; sa sa, almeno, chi sia stato. E lo chiederei anche a coloro che si sono lasciati da un pezzo gli anni della scuola dietro le spalle, nella speranza di non sentirmi rispondere che è il nome di una piazza, o di una via.
Ma soprattutto vorrei chiederlo ai poeti di oggi, ai tanti fautori sfegatati di quella libertà espressiva che ormai è diventata anarchia, degna figlia di questa epoca: mi rivolgerei, insomma, a chi usa il verso libero e finisce per abusarne per pochezza tecnica.
Se avessi il coraggio di porre la domanda, se davvero avessi tutto questo tempo da perdere, molto probabilmente scoprirei che non ne conosce le origini, o non gli interessano: perché non gli servirebbe a nulla, nei festival cui partecipa, sapere che Carducci ha aperto le porte, assieme a Baudelaire e a Whitman, all'unico tipo di versificazione che sa adoperare.
Ma mentre Baudelaire e Whitman tendevano verso una prosa poetica già slacciata dagli ingombri della metrica, Carducci applicò questa libertà ancora in nuce ad una poesia curatissima e regolare, nei suoi metri; il che dovrebbe apparirci come un paradosso.
Rinnovatore il Carducci lo fu sempre, fin dalle prime raccolte. A lui si deve il recupero di forme strofiche della letteratura delle origini ormai cadute in disuso. In questo lo aiutava certamente il suo attaccamento ai classici, che lo avrebbe portato a farsi editore di moltissimi testi della nostra tradizione per i tipi del Barbera e in seguito a reggere la cattedra di Letteratura Italiana a Bologna. L'uso sapiente e vario della metrica, se è già evidente nei testi di Juvenilia e Levia Gravia (dal sonetto al sonetto caudato, all'endecasillabo sciolto, alle strofe asclepiadee e saffiche) in Giambi ed Epodi giunge a far combaciare in uno il metro e le tematiche: l'attacco all'establishment italiano, degno di un Solone, sfrutta appieno le capacità polemiche della prosodia antica. Qui sta la dimostrazione dell'uso che il Carducci sapeva fare dei vari metri, che non si devono mai ad una scelta casuale, ma sempre ponderata, per far rendere al meglio la materia cantata.
Ma è nelle Odi barbare, che fin dal loro apparire suscitarono un clamoroso caso letterario, che Carducci porta a compimento il cammino già intrapreso da alcuni predecessori, più o meno illustri, per utilizzare nella poesia italiana i grandi metri classici.
Prima di lui, già fin dall'Umanesimo, c'erano stati tentativi di piegare la metrica latina alle regole di una prosodia affatto diversa: penso all'Alberti e al Dati che nel Certame Coronario del 1441 adoperavano esametri e strofe saffiche rimate (tre endecasillabi e un quinario); al Tolomei, che nei Versi et regole de la nuova poesia toscana usa anch'egli strofe saffiche; al Chiabrera delle odi anacreontiche e pindariche, al Fantoni, al Rolli (cui dobbiamo l'endecasillabo rolliano, che rende l'endecasillabo falecio con un quinario sdrucciolo e uno piano). A questi predecessori, il Carducci volle fare l'onore di riunirne i tentativi nel volume La poesia barbara nei secoli XV e XVI, dimostrando in ciò una grande onestà intellettuale, invece che prendersi tutto il merito.
Sono però le Odi barbare a rappresentare il tentativo meglio riuscito di rendere in versi accentuativi italiani i versi quantitativi latini. I metri strani, barbari (anzi, doppiamente barbari perché se lo sono per il lettore italiano, ancora di più lo sarebbero stati per il lettore latino o greco), a un semplice sguardo assomigliano, posti sulla carta, a lunghe frasi molto vicine alla prosa. Facciamo un esempio:

''tu sali e baci, o dea, col roseo fiato le nubi,
baci de' marmorei templi le fosche cime'',

che sono i versi iniziali di All'aurora. Sono entrambi più lunghi di un endecasillabo, pur mantenendo la grazia e la basilare musicalità del metro più famoso; ma hanno in sé una dose maggiore di libertà, permettono insomma al poeta una distribuzione migliore della sua materia, meno costretta dalle tre, quattro sillabe che andrebbero perse. Dovrebbero invece italianizzare l'esametro latino, che è un metro molto duttile e che Carducci rende di norma con un settenario e un novenario, e meno spesso con un senario o un ottonario e un novenario, accentuato quest'ultimo sulle sillabe 2 - 5 - 8 (e anche 3 - 5 - 8); e il pentametro latino, reso con due settenari, o un quinario  e un settenario.
Usati assieme, dovrebbero riprodurre il distico elegiaco, come in:

''quando a le nostre case la diva severa discende
da lungi il rombo de la volante s'ode''.

L'intento del Carducci, naturalmente, non poteva essere quello di sfociare alla bell'e meglio in una prosa che, per quanto artistica, per quanto lirica, avrebbe avvilito ai suoi occhi la divinità della poesia. Era piuttosto il desiderio di fornire alla poesia italiana nuovi strumenti per nuove sfide, perché fosse capace di suonare una musica adatta ad ogni soggetto. Ecco spiegata la varietà dei metri impiegati, tra cui:
la strofa saffica (di cui abbiamo già detto), senza rima, adoperata in Dinanzi alle terme di Caracalla:

''corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian triste move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve'';

la strofa alcaica (anticipata da Chiabrera), resa con un quinario doppio (piano e sdrucciolo), un quinario doppio (piano e sdrucciolo), un novenario, un decasillabo, come in Per la morte di Napoleone Eugenio:

''questo la inconscia zagaglia barbara
prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
vita sorrisi da i fantasmi
futtuanti ne l'azzurro immenso'';

la strofa asclepiadea, resa con l'endecasillabo sdrucciolo (o un doppio quinario sdrucciolo), un settenario sdrucciolo e un settenario piano. Questi elementi possono comporsi diversamente, alternando tre endecasillabi sdruccioli e un settenario sdrucciolo, o due endecasillabi sdruccioli, un settenario piano e un settenario sdrucciolo, o anche due settenari sdruccioli nei versi dispari e due endecasillabi sdruccioli in quelli pari, o ancora quattro endecasillabi sdruccioli. Come si vede, una sorta di invito all'irregolarità;
l'archilochio, formato da due versi che possono essere raddoppiati a formare strofe di quattro versi, con una certa varietà di metri, come un esametro più un settanario piano o un senario sdrucciolo, o un esametro e un ottonario piano più un settenario piano, o ancora un endecasillabo sdrucciolo e un settenario piano più uno sdrucciolo:

''molosso ringhia, o antichi versi italici,
ch'io col batter del dito segno o richiamo i numeri

vostri dispersi, come api che al rauco
suon del percosso rame ronzando si raccolgono'';

il sistema giambico, formato di norma da endecasillabi (piani o sdruccioli) e da settenari (piani o sdruccioli) alternati tra loro, forma già usata da Fantoni e dallo stesso Carducci nei Giambi ed epodi;
il pitiambico, reso con un esametro e un settenario sdrucciolo:

''ecco, la verde Sirmio nel lucido lago sorride
fiore delle penisole''.

Anche in questo esiguo numero di esempi sembra di leggere i versi immortali degli antichi, per politezza, precisione, spirito di grandezza, anelito di bellezza.
Proprio questa ricerca (o meglio, si tratta qui nuovamente di una riscoperta) della bellezza sepolta dai secoli non avrebbe tratto giovamento dall'abbassamento della poesia a prosa. Carducci non l'avrebbe permesso, e per primo a sé stesso. Le sue Odi volevano essere sia la riproposizione di metri classici, ma anche, e in fondamentale accompagnamento ad essi (per non svilirli con la totale dedizione alla pochezza della modernità), la riaccensione dell'antica sensibilità dell'uomo davanti alla natura (sfiorando una sorta di paganesimo) e alla sua grandiosità. Il connubio non riuscì sgradito nemmeno a uomini come il Mommsen e il Wilamowitz, cultori e difensori dei valori antichi; tant'è che il primo, giunto nel 1879 a Firenze dalla Svizzera dove aveva fatto ricerche epigrafiche, inviò al genero un'edizione delle Odi Barbare. Il Wilamowitz tradusse in tedesco la famosa ode Alle fonti del Clitumno, presentata poi a Greifswald nel 1885 in una breve relazione nella quale parlava dell'autore in termini quasi entusiastici.
Non serve ricordare quanti, dopo le prime edizioni delle Odi, si scoprirono carducciani: basti l'esempio eclatante del giovane D'Annunzio, incline fin dagli anni del liceo ad imbeversi di ogni novità per riproporla di suo; o quello del Pascoli, che riprende molte delle soluzioni metriche del maestro, come le strofe saffiche di tre endecasillabi e un quinario, e ne migliora altre.
Di pari passo con l'emulazione, anche tematica, dannunziana (ma fu la malattia di una generazione: si vedano il Ferrari, il Panzacchi, il Marradi, si veda il Poema dell'adolescenza di Enrico Thovez, lo stesso che poi attaccherà molto violentemente il poeta di Valdicastello) e quella solo esteriore del Pascoli, all'inizio del '900 scattava in Italia una reazione al genere di poesia propugnato dal Carducci e dai suoi ''allievi''. Essa fu duplice, e antitetica nei modi e nei mezzi. Se i crepuscolari ripudiavano D'Annunzio e si ritiravano nelle loro stanze da ammalati o in vecchi giardini polverosi senza rinunciare alla metrica (ma rinunciando a quello slancio vitale che aveva guidato il Carducci anche in ambito politico), il futurismo era agitato da una furia giacobina che imponeva urlando una versificazione libera; ma lo faceva con la coscienza di ciò che stava chiedendo: non accadde perché sarebbe risultato più semplice fare poesia (e d'altronde, che poesia si poteva fare se anch'essa, come sistema di autori, stili, metri, tradizioni, etc., era il bersaglio del movimento?), quanto perché i partecipanti, Marinetti in testa, davvero volevano qualcos'altro. Gian Pietro Lucini, che teorizzò la natura del verso libero (anticipato dal Thovez che sosteneva ci si dovesse sbarazzare dei vecchi metri e della divisione in strofe per favorire l'uso di ritmi diversi a seconda del soggetto, come i poeti greci; e già nel 1887 il Fraccaroli, nel suo libro D'una teoria razionale di metrica italiana, suggeriva allo stesso modo l'idea del ritmo come elemento guida), nella prefazione alle sue Revolverate fu definito da Marinetti ''il più strano avversario (del futurismo), ma anche, involontariamente, il più strenuo difensore''. I futuristi lo tenevano quasi per nemico, alla solita maniera loro, rumorosa e in fondo innocua; ma dovevano a lui la base teorica del movimento, anche se Capuana con i Semiritmi (1888) rivendicò la propria parte di merito. Il verso libero, comunque lo si voglia considerare, è l'evoluzione naturale di tutta una tradizione; ma senza le Odi Barbare del Carducci sarebbe mancato l'anello di (dis)giunzione col passato. Una strofa come quella alcaica, ad esempio, poteva sembrare un caso di anisosillabismo, quindi quasi un invito a far pratica di irregolarità. Si pensi a certi versi di Montale e del Pasolini de Le ceneri di Gramsci, dove l'endecasillabo è la base a cui avvicinarsi o allontanarsi per numero di sillabe. 
Nel bene e nel male, il poeta maremmano fu il punto di partenza per la versificazione libera moderna e oggi ce ne siamo dimenticati. Lo abbiamo relegato, come tutte le letture liceali, in quel vasto gruppo di opere ed autori che non rileggeremo mai perché su di essi grava sempre, non ancora sbiadita, l'ombra lunga dell'imposizione scolastica.
Potremmo quasi dire, parafrasando il titolo di queste brevi note, che la questione si risolve a Carducci o noi: intendendo con Carducci la tradizione, le sue forme, le sue soluzioni, e con noi la stragrande maggioranza dei poeti odierni, che guardano lontano, sì, ma non riconoscono l'errore madornale che hanno sotto al naso: sono tutti prigionieri di una stessa palude dove li hanno precipitati la faciloneria, la scarsa cultura poetica, la furbizia nell'usare un metro che non è un metro, ma è prosa, come sosteneva Pierre Guiraud in un saggio del 1970. E quindi, almeno dal punto di vista tecnico, non scrivono nemmeno poesia, e non meriterebbero il nome di poeti.
Ma è quella particella disgiuntiva, quell'o, che mi fa paura. È  il foro d'apertura che precipita nel nulla della supponenza e dell'ignoranza, impedendo una risalita. Il passato è diventato il nostro nemico, il babau da evitare. La poesia deve smuovere le coscienze, deve agire, deve portare le persone a chissà quali fini. Deve essere actio, questo sostengono i poeti odierni, e non si accorgono che purtroppo non può più essere che lectio.
Una poesia fatta per riempitivo dei vuoti dell'esistenza, scritta per gioco, per vanteria, per farsi invitare ai festival, per guadagnarsi lodi ed applausi, non è nemmeno poesia perché non ha delle basi solide su cui poggiare. Se alla poesia si vuole affidare uno scopo che non sia quello di fissare per sempre la bellezza fugace con gli strumenti forgiati da una lunga tradizione, allora non serve che esista; ogni scopo materiale svilisce il canto, è solo propaganda.
E se proprio si vuole fare propaganda, si segua almeno la lezione del Carducci, che fu il più grande scuotitore di coscienze della sua età: ma con strumenti e regole, non giocando a fare i poeti col trucchetto di andare a capo ogni tanto.

mercoledì 12 febbraio 2014

Silvia Secco, "Sonetti"

Piccoli gioielli (ludi, pàighnia, avrebbero detto gli antichi) di perizia compositiva (rime frante, sdrucciole, assonanti, ipermetre, accentazioni atipiche, sinalefi audaci) sono questi sonetti: dissimulati, scardinati dall'interno (un po' come i "sonetti inglesi" di Montale, o certe strofe di Pascoli); irti di sincopi, di intermittenze, aritmie, soprassalti, di movenze, si potrebbe dire, jazzistiche. Il neometricismo degli ultimi decenni (dallo Zanzotto di Ipersonetto al Gruppo 93) si sviluppa in chiave metaletteteraria, con uno sperimentalismo straniante, tormentoso, spesso rivolto alla nullificazione del senso. Qui, invece, esso si unisce ad un lirismo intimo e delicato, venato d'illuminazioni e trasparenze, che ostinato perdura, e riaffiora a tratti, come carsicamente, filtrato e temprato, fra gli spasmi della parola e del metro, la frantumazione delle sillabe e del verso, le asperità espressionistiche della rappresentazione, fedele all'esperienza, eppure non mimetica. (M. V.)


Artaud

Artaud ci riconobbe molto prima
noi due nati con spirito cavo in cui
s'insinua il cosmo in spasmi di parole
taglienti come lame pure come
lune, affilati accenti come punte
di una biro. Le parole arrivano
alle mani. Diritte, e molto prima
che alla voce: sudore che saliva
e s'inchiostra a segnare e incide.

E io che vorrei urlare quanto ti sono
affine resto muta a contenerti:
tutto. Tu che sei tutto intorno e interno
in questa sera liquida di cera
colata giu' lungo il mio stelo.



Iris
Forse del vero
Esiste un punto dove il sogno passa
Al nostro cielo, nudo di mistero”
(A. Caramella, Scissura Sagittale da Murales Lunares)

Sale. Il giorno scioglie i nodi ai capelli
ai tuoi rosari, Iris. Di-sfà i cristalli
sgela a saliva e ti ci bagni il dito.
Lo porti alle labbra e bevi. E’ piovuto

ieri. E’ nato tuo figlio. Ha un diamante
a fine del ciglio. E dentro un istante
di perfetta compassione. Un tutt’uno
(a pelle a pelle a ventre a labbra a seno),

d’unione. Come se rive, brandelli,
derive… Se avessero soluzione
in un punto, un ponte arca-arcobaleno

d’assoluzione che è lì! Nel compiuto
e primo nominarsi d’occhi e tocchi
latte e sale a solvere il male. In niente.



La ragione
(sonetto discutibile)

E' un Ottobre che inoltra e il sole cala
prima dietro le facciate. Mi scalda
ancora e all'improvviso me ne accorgo
colta fra vasi e foglia, sovraesposta.

Il paragone urgente è doloroso
com'è la solitudine dei nidi
lasciati grigi a farsi pietre sotto
gli angoli spioventi di coperture

disabili ai tormenti torrentizi
delle maldicenze. Penoso come
la ragione -per cui esistono cose-

e ad esistere insisto anch'io! Oppure no:
nemmeno il dolore nientediniente
oltre al cavo del nido, al maledetto nodo

in gola, al dono di rassegnazione.



La speranza dei soffioni
(Aereosonetto)

 

“Lenta l’armonia dei grilli  

tenta i cieli opachi”

(N. Gelamonte, “Notte Estiva”da Vento dell’Orsa)



Sublime la speranza dei soffioni
nelle eroiche dispersioni dei semi
sui campi, i lampi semantici estremi
di lucciole al bivio / delle opinioni

derise dai bravi (gli ignavi) e assenti.
Sublimi i perdenti in partenza. Eppure
partiti, l’audacia delle radure
nel folto, i vuoti inattesi-insolenti

di memoria, il maltolto: da aquiloni
a dito (il filo sfinito che stenti
a vedere ma tieni), le abrasioni

sulle mani (ci entra il mondo) che tremi:
paure per cui ti sublimi, fessure,
fondo. Lì germina il grano. In diademi.



Sonetto dei sorrisi
(falsonetto capovolto)

Voi che di me il contrario di me fate”
(Giovanni Giudici,da “Salutz”)

Io so fingerli. Ne ho di smaglianti
e candidi che non si direbbe mai.
So stenderli al sole a rassicurarti

puliti come lenzuoli. Ti ci puoi
sdraiare senza togliere le scarpe
né informarti se siano asciutti o umidi:

le superfici o le trame o gli angoli
degli occhi... So anche sollevarli: miti
all'invito degli zigomi, adatti
all'espressione che ho imparato che vuoi

ch'io indossi come fosse naturale.
Di alcuni autentici ti sei scordato.
Peccato fossero i miei preferiti:
schiusi come fiori nelle tue mani.



Mezzamela

A sera ricomponimi la parte
che esce con te al mattino dopo il bacio.
Il giorno intero è un allungarsi d'arti
a cercare le tue mani. Combacio io

perfettamente liscia a te, aderente
alla superficie. Inumidiscimi
e riempi: bocca di labbra. La fronte
nel cavo fra i seni. Colma, chiudimi.

E salda: le tue crepe coi miei fili.
Ho trame supine per te. Le intreccio
alle vertigini che hai. La tela

che si forma è un frutto: una mezzamela
esatta. L'una è la metà di niente
sola. Tu fondile. In unica polpa.



La Dolente

La chiamavano Dolente. Abitava
in argine al canale. Aveva bianche
le mani, banale il giorno. Impastava
reale e sogno (al bisogno) ad ampie branche.

Ne faceva pane. E il fosso fragrava
in torrente e le anse in ansie ed in schinche
e rapide, e il mare in male (Ah! Volveva…)
E si doleva lei. (E un po’ godeva, anche…)

Povera lei, dolorosa… Al confine
piantava all’alba una rosa. Ogni sera
la coglieva… Un pianto… (Come di spine

tra le dita: un senso alla vita e un fine
denso lento colava….) Unica e vera
gioia è il lamento. (In chi alla noia è incline.)