domenica 6 aprile 2014

Carmen Bugan, "The Divorce" (traduzione di Chiara De Luca)



The divorce

Before they brought him to the courtroom, they gave him three apples:
‘Your wife sent you these.’ He cradled each apple in the cup of his hands,
The smoothness of their skin became the cheeks of each child.

Inside the courthouse there was a quiet opening and closing of doors.
A crowd of people was chanting his name under the windows.
When the door opened, I saw his bare feet in brown shoes.

His children held each other tight against the wall.
Their breaths, white with cold, were rising towards the ceiling.
They listened for the voices of their parents.

When the divorce was over, he was allowed to see them:
They kissed his chained hands, promised to be good, let their tears fall
On his prison uniform with his own, all three of them burying him.

How I wished we could hide him with our bodies and take him home!
The Securitate peeled us off him. But we were the apple seeds left to grow
In the sound of his chains on the cement floor.


Il divorzio

Prima di portarlo nell’aula del tribunale, gli diedero tre mele:
“Queste te le manda tua moglie.” Le cullò una a una nel palmo delle mani,
la pelle liscia di ciascuna divenne quella della guancia di uno dei tre figli.

Dentro il tribunale c’era tutto un quieto aprirsi e chiudersi di porte.
Una folla di persone salmodiava sotto le finestre il suo nome.
Quando la porta si aprì, vidi i suoi piedi scalzi nelle scarpe marroni.

I suoi figli si stringevano l’un l’altro contro la parete.
Il loro respiro, imbiancato dal gelo, saliva verso il soffitto.
Cercavano di sentire le voci dei genitori.

Quando il divorzio fu concluso, gli fu concesso di vederli:
loro gli baciarono le mani incatenate, promisero di essere buoni, lasciarono
le lacrime mescersi alle sue sull’uniforme della prigione, seppellendolo insieme.

Come avrei voluto nasconderlo con i nostri corpi per  riportarlo a casa!
La polizia segreta ci strappò da lui. Ma eravamo i semi di mela lasciati a crescere
nel suono delle sue catene sul pavimento di cemento.



Da Crossing the Carpathians, Carcanet, Manchester 2004

sabato 5 aprile 2014

Carmen Bugan: due riflessioni su poesia, esilio, linguaggio



Perché non scrivo nella mia lingua natale

La mia esperienza di scrittura poetica in inglese può essere spiegata nel migliore dei modi raccontandovi la composizione della poesia sul divorzio dei miei genitori. In rumeno, anni fa, la intitolai Divortul, ossia Il Divorzio. Quando iniziai a sognare in inglese, e quando le parole iniziarono a salirmi alle labbra in inglese, avvertii dentro di me una occulta corrente di novità. Libertà e vivezza: la mia lingua pian piano si scioglieva, e volevo vedere come tutto ciò risuonava nella mia nuova lingua. Dapprima scrissi ciò che ricordavo della poesia in rumeno, poi cercai di tradurlo: fu intitolata, successivamente, L'Aula, Un voto d'amore e infine Il Divorzio. Molte delle prime versioni inglesi avevano al proprio interno troppe spiegazioni: perché mia madre era stata costretta a divorziare, cos'era accaduto in aula – proprio come se tutta la storia del paese dovesse essere narrata solo perché la poesia stessa potesse scaturire. Poi, quando divenni più radicata nella mia “terra lontana”, appresi a condensare il racconto in immagini che lasciassero trasparire, sullo sfondo, la molteplicità dei racconti. E così accadde con molte altre poesie, finché la lingua inglese cominciò a farmi vibrare in accordo con i suoi suoni, e le parole rumene cessarono di tornare a ritradurre le poesie. A distanza di tempo, penso che sarebbe necessario un grande sforzo per riversare la cultura da cui scrivo ora nella cultura rumena che avevo abbandonato appena prima della Rivoluzione. E se ora cercassi di scrivere in rumeno, sarebbe piuttosto come tornare a casa su una vecchia mappa (linguistica).
Ma c'è qualcosa di più. Mi chiedono tanto spesso perché io non scriva in rumeno che penso a ciò lungamente e profondamente. Per prima cosa, non voglio scrivere nella lingua in cui la mia famiglia subì interrogatori, visite in prigione, minacce di ogni tipo. Certamente non voglio ricordare tutte le volte che ci scrivemmo e bruciammo le nostre parole: fummo sorvegliati ventiquattr'ore al giorno negli ultimi cinque anni che ho trascorso nel mio paese, e tutto ciò che dicevamo fu registrato da microfoni disposti intorno alla casa. Odiavo sottintesi, menzogne, la paura delle parole. Ora faccio parte di coloro che scrivono in una lingua appresa. E faccio parte di coloro che si sforzano di definire le proprie responsabilità come persone che, nate in un paese, vivono, di propria volontà, in un altro. Questa potrebbe apparire a molti una di quelle condizioni che si riesce facilmente a superare. Ma la ragione per la quale si scrive nella propria lingua natia, dall'esilio, è che la lingua natia ha in sé bellezza e verità. I poeti scrivono nella loro lingua natia per ricordare il calore di casa, gli usi della città e del villaggio, la giovinezza felice. Vogliono ricreare un senso di casa, un bozzolo tiepido intorno all'esperienza raggelata dell'esilio. Ma il mio esilio è il mio bozzolo. Preferisco esprimermi in inglese che ricordare i bambini che mi chiamavano “figlia di un criminale” nella mia lingua natia: quella non ebbe mai suono di sicurezza, di bene o di casa. Quando smisi di guardarmi le spalle per vedere se qualcuno mi stesse seguendo per farmi del male, smisi di cercare di scrivere poesia nella mia lingua natale. Credo che le poesie stesse facciano apparire la mia scelta meno stridente o meno impertinente. Nella mia situazione non è così male stare sulla sponda della dimenticanza.


Da Vent'anni dopo: riflessioni su Esilio e Lingua

Sono giunta ad odiare la lingua in cui sono nata. Non è un giudizio, è un'emozione che dura da vent'anni; sono assolutamente certa di non essere sola in quest'esperienza. Ma questo fenomeno è anche un simbolo fortissimo di sopravvivenza: come l'acqua, se le parole sono arrestate da una diga, continueranno a vagare e proromperanno in un altro luogo – in un'altra lingua. In inglese, per un po', mi sentii con la lingua annodata, ma dopo aver imparato la lingua potei parlare con franchezza di ciò che era successo a noi e a me. Non appena ciò iniziò ad accadere iniziai a dominare me stessa, ad avere e ad esprimere le mie opinioni, a scrivere poesia senza temerne le conseguenze. Divenni libera e proclamai il mio Salut au monde con la stessa intensità con cui Walt Whitman proclamava nella sua poesia che ognuno di noi è invincibile, con i propri diritti di uomo o di donna sopra questa terra. Così mi gettai con furia nella lingua inglese e nella vita: danzai per le strade nel cuore della notte senza temere le tenebre, appesi le mie poesie agli alberi nel campus universitario ad Ann Arbour quando ero studentessa, trovai i documenti su mio padre nella biblioteca universitaria e divenni fiera che gli altri sapessero che i miei genitori non avevano chinato il capo, non si erano venduti a una dittatura, e che eravamo sopravvissuti a tutto con cuori e spiriti intatti. Infine, fui io a bandire la lingua rumena dalla mia poesia. Non c'era spazio per lei in questa luce, nel dire la verità, nel potente sforzo di vivere come un essere umano felice dall'altra parte del mondo. Non tornai più in Romania, tranne che per una visita di una settimana nel 1995, quando diedi l'ultimo addio a mia nonna che stava morendo di cancro, perché quando mio padre pose la propria vita e le nostre vite in pericolo per abbattere il regime di Ceausescu, nessuno lo seguì. La gente accorse per vederlo, lo vide e poi si nascose, terrorizzata, dove poteva.

(da After Twenty Years: Reflections on Exile and Language «interLitQ.org» http://www.interlitq.org/issue10/carmen_bugan/job.php)


Tutte le poesie edite di Carmen Bugan appariranno, con traduzione a fronte, presso l'editore Kolibris (http://kolibris.wordpress.com). 

Questi i libri già editi: http://www.amazon.co.uk/Carmen-Bugan/e/B0034PBSMM

Qui un profilo biografico: http://poetrytranslation.net/carmen-bugan

martedì 25 marzo 2014

Elisabetta Brizio, "Ruffilli traduttore di Kavafis"





   Il sole del pomeriggio era la frazione del giorno preferita da Kavafis. Da un lato, abbiamo una luce che poteva essere goduta sotto il cielo, girovagando, com’era sua abitudine, per il centro storico di Alessandria dopo le ore di lavoro. La stessa luce, incidente e non riflessa, diviene implacabile se penetra negli interni, dove, per la sua inclinazione, nulla assorbe o lascia in ombra, mette-a-fuoco (incendia) fino i minimi contorni nel chiuso e nel profondo delle stanze. Il sole del pomeriggio (il cui declinare viene effigiato nello sfumare dei caratteri nel titolo di copertina) è la memoria che procura ricordi riafferrati come presenze nette («l’emozione d’amore ancora intatta»), di specie amorosa in particolare, con tutti i loro dettagli più o meno significativi. Dall’altro, il declinare della luce del pomeriggio favorisce l’irrompere della nostalgia sia per «le candele spente» del tempo che per le voci che «ci parlano nei sogni», voci che intercettano e restituiscono il ricordo insieme alla mancanza del suo oggetto nella solitudine della sfatta luminosità della sera.
Il sole del pomeriggio presenta un florilegio da Costantino Kavafis introdotto da Paolo Ruffilli, e da lui tradotto con Tino Sangiglio, dedicatario del volume insieme a Filippo Maria Pontani, già interprete e traduttore del poeta greco per i tipi della Mondadori. Nella sua introduzione Ruffilli focalizza alcuni punti fondamentali per una rilettura della poesia di Kavafis. Riconsidera anzitutto «il mito dell’ellenismo» come capitolo decisivo della modernità, canone-anticanone di una poesia caratterizzata da un mutamento di grado e ormai non più finalizzata alla celebrazione o alla valorizzazione di istanze etiche e civili. Una poesia che da tempo ha assunto un’accezione meditativa e riflessa, che ha spostato quasi esclusivamente all’interno la propria indagine, e che qui si avvale di toni epigrammatici ed elegiaci.
«La genialità di Kavafis – Montale osservava – consiste nell’essersi accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo Europaeus di oggi; e nell’essere riuscito ad immergerci in quel mondo come se fosse il nostro» – e sarebbe interessante far reagire, giustapporre e mettere a confronto e a contrasto la luce più sfumata e intrisa d’ombre del meriggio di Kavafis con quella nietzschiana dei meriggi montaliani, che invade e penetra il paesaggio immobilizzandolo, calcinandolo fin quasi a dissolverlo.
L’ellenismo è ricostituito da Kavafis fondendo eloquio comune e tradizionale purezza del linguaggio poetico. Una scelta che attenua le intense emozioni di cui la sua poesia si nutre, smorza la tensione sentimentale e la sua effusione, gli affetti d’amore per proibiti corpi efebici, per figure remotissime, perlopiù d’invenzione «nel vagheggiamento di una Storia superiore (Eurione, Lanis, Endimione)», Ruffilli dice, inquadrate entro una sonorità contratta, contenuta nei margini di un alessandrinismo versale circoscritto ma non cristallizzato.
La lingua greca, usata ormai marginalmente (percepita, paradossalmente, quasi come lingua minore, mentre in origine fu, com’è evidente, teatro espressivo del maggiore codice culturale dell’identità europea, grande crogiolo e filtro del carattere mediterraneo, tra matrice afrosemitica e fantasma indoeuropeo), diviene lo strumento per tutelare quell’esigenza di separatezza e di riservatezza che Kavafis perseguiva. Inoltre, quella greca si offriva come lingua ignara di censure. Logos, allora, congeniale al fine di «cedere ai Desideri» senza che «alcuna virtù ti dissuada», di dare libero sfogo anche al dato tangibile di una sensualità che rivive nella memoria («la memoria dei corpi», Ruffilli la chiama) e che si ricrea nell’attenzione del lettore. Perché il corpo d’amore passa, Kavafis dice, «per le sublimi contrade di Poesia», non soltanto quando l’amante è anzitempo rapito dalla morte.
Attraverso la ripetizione il tempo subisce un arresto, e la sospensione, Ruffilli osserva, è una strategia estetica che promuove una «trasposizione romanzesca», ottenuta anche con l’intercalarsi di prima e terza persona, dunque nella unificazione dell’elemento biografico e di quello dei motivi unanimi. Ruffilli dà insomma l’impressione di cogliere meglio di altri l’essenza del sempre asserito, più che documentato, ellenismo di Kavafis: la rilettura del microcosmo della lirica e dell’epigramma greci nell’ottica di un tempo sospeso, in chiave sì, appunto, epigrammatica, lirica, idillica, ma anche con risvolti orfici e iniziatici. Sotto questo riguardo, più che a Penna e a certe cose dell’ultimo Saba, cui verrebbe spontaneo accostarlo, Kavafis può apparire più vicino di quanto non sembri alla linea simbolista ed ermetica (che in fondo segnò, attraverso l’influsso, del resto più olimpico che alessandrino, più solenne che intimistico, del grande e oggi quasi dimenticato Sikelianós, i suoi esordi, come quelli di un Seferis).


                                                Elisabetta Brizio


Costantino Kavafis, Il sole del pomeriggio, trad. di Tino Sangiglio e Paolo Ruffilli  (Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2014)







domenica 16 marzo 2014

Gabriele Marchetti, "Carducci e noi: la metrica tradizionale e il verso libero"



Sarei curioso di domandare ad un qualunque studente di liceo cosa ne pensa di Giosuè Carducci; sa sa, almeno, chi sia stato. E lo chiederei anche a coloro che si sono lasciati da un pezzo gli anni della scuola dietro le spalle, nella speranza di non sentirmi rispondere che è il nome di una piazza, o di una via.
Ma soprattutto vorrei chiederlo ai poeti di oggi, ai tanti fautori sfegatati di quella libertà espressiva che ormai è diventata anarchia, degna figlia di questa epoca: mi rivolgerei, insomma, a chi usa il verso libero e finisce per abusarne per pochezza tecnica.
Se avessi il coraggio di porre la domanda, se davvero avessi tutto questo tempo da perdere, molto probabilmente scoprirei che non ne conosce le origini, o non gli interessano: perché non gli servirebbe a nulla, nei festival cui partecipa, sapere che Carducci ha aperto le porte, assieme a Baudelaire e a Whitman, all'unico tipo di versificazione che sa adoperare.
Ma mentre Baudelaire e Whitman tendevano verso una prosa poetica già slacciata dagli ingombri della metrica, Carducci applicò questa libertà ancora in nuce ad una poesia curatissima e regolare, nei suoi metri; il che dovrebbe apparirci come un paradosso.
Rinnovatore il Carducci lo fu sempre, fin dalle prime raccolte. A lui si deve il recupero di forme strofiche della letteratura delle origini ormai cadute in disuso. In questo lo aiutava certamente il suo attaccamento ai classici, che lo avrebbe portato a farsi editore di moltissimi testi della nostra tradizione per i tipi del Barbera e in seguito a reggere la cattedra di Letteratura Italiana a Bologna. L'uso sapiente e vario della metrica, se è già evidente nei testi di Juvenilia e Levia Gravia (dal sonetto al sonetto caudato, all'endecasillabo sciolto, alle strofe asclepiadee e saffiche) in Giambi ed Epodi giunge a far combaciare in uno il metro e le tematiche: l'attacco all'establishment italiano, degno di un Solone, sfrutta appieno le capacità polemiche della prosodia antica. Qui sta la dimostrazione dell'uso che il Carducci sapeva fare dei vari metri, che non si devono mai ad una scelta casuale, ma sempre ponderata, per far rendere al meglio la materia cantata.
Ma è nelle Odi barbare, che fin dal loro apparire suscitarono un clamoroso caso letterario, che Carducci porta a compimento il cammino già intrapreso da alcuni predecessori, più o meno illustri, per utilizzare nella poesia italiana i grandi metri classici.
Prima di lui, già fin dall'Umanesimo, c'erano stati tentativi di piegare la metrica latina alle regole di una prosodia affatto diversa: penso all'Alberti e al Dati che nel Certame Coronario del 1441 adoperavano esametri e strofe saffiche rimate (tre endecasillabi e un quinario); al Tolomei, che nei Versi et regole de la nuova poesia toscana usa anch'egli strofe saffiche; al Chiabrera delle odi anacreontiche e pindariche, al Fantoni, al Rolli (cui dobbiamo l'endecasillabo rolliano, che rende l'endecasillabo falecio con un quinario sdrucciolo e uno piano). A questi predecessori, il Carducci volle fare l'onore di riunirne i tentativi nel volume La poesia barbara nei secoli XV e XVI, dimostrando in ciò una grande onestà intellettuale, invece che prendersi tutto il merito.
Sono però le Odi barbare a rappresentare il tentativo meglio riuscito di rendere in versi accentuativi italiani i versi quantitativi latini. I metri strani, barbari (anzi, doppiamente barbari perché se lo sono per il lettore italiano, ancora di più lo sarebbero stati per il lettore latino o greco), a un semplice sguardo assomigliano, posti sulla carta, a lunghe frasi molto vicine alla prosa. Facciamo un esempio:

''tu sali e baci, o dea, col roseo fiato le nubi,
baci de' marmorei templi le fosche cime'',

che sono i versi iniziali di All'aurora. Sono entrambi più lunghi di un endecasillabo, pur mantenendo la grazia e la basilare musicalità del metro più famoso; ma hanno in sé una dose maggiore di libertà, permettono insomma al poeta una distribuzione migliore della sua materia, meno costretta dalle tre, quattro sillabe che andrebbero perse. Dovrebbero invece italianizzare l'esametro latino, che è un metro molto duttile e che Carducci rende di norma con un settenario e un novenario, e meno spesso con un senario o un ottonario e un novenario, accentuato quest'ultimo sulle sillabe 2 - 5 - 8 (e anche 3 - 5 - 8); e il pentametro latino, reso con due settenari, o un quinario  e un settenario.
Usati assieme, dovrebbero riprodurre il distico elegiaco, come in:

''quando a le nostre case la diva severa discende
da lungi il rombo de la volante s'ode''.

L'intento del Carducci, naturalmente, non poteva essere quello di sfociare alla bell'e meglio in una prosa che, per quanto artistica, per quanto lirica, avrebbe avvilito ai suoi occhi la divinità della poesia. Era piuttosto il desiderio di fornire alla poesia italiana nuovi strumenti per nuove sfide, perché fosse capace di suonare una musica adatta ad ogni soggetto. Ecco spiegata la varietà dei metri impiegati, tra cui:
la strofa saffica (di cui abbiamo già detto), senza rima, adoperata in Dinanzi alle terme di Caracalla:

''corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian triste move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve'';

la strofa alcaica (anticipata da Chiabrera), resa con un quinario doppio (piano e sdrucciolo), un quinario doppio (piano e sdrucciolo), un novenario, un decasillabo, come in Per la morte di Napoleone Eugenio:

''questo la inconscia zagaglia barbara
prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
vita sorrisi da i fantasmi
futtuanti ne l'azzurro immenso'';

la strofa asclepiadea, resa con l'endecasillabo sdrucciolo (o un doppio quinario sdrucciolo), un settenario sdrucciolo e un settenario piano. Questi elementi possono comporsi diversamente, alternando tre endecasillabi sdruccioli e un settenario sdrucciolo, o due endecasillabi sdruccioli, un settenario piano e un settenario sdrucciolo, o anche due settenari sdruccioli nei versi dispari e due endecasillabi sdruccioli in quelli pari, o ancora quattro endecasillabi sdruccioli. Come si vede, una sorta di invito all'irregolarità;
l'archilochio, formato da due versi che possono essere raddoppiati a formare strofe di quattro versi, con una certa varietà di metri, come un esametro più un settanario piano o un senario sdrucciolo, o un esametro e un ottonario piano più un settenario piano, o ancora un endecasillabo sdrucciolo e un settenario piano più uno sdrucciolo:

''molosso ringhia, o antichi versi italici,
ch'io col batter del dito segno o richiamo i numeri

vostri dispersi, come api che al rauco
suon del percosso rame ronzando si raccolgono'';

il sistema giambico, formato di norma da endecasillabi (piani o sdruccioli) e da settenari (piani o sdruccioli) alternati tra loro, forma già usata da Fantoni e dallo stesso Carducci nei Giambi ed epodi;
il pitiambico, reso con un esametro e un settenario sdrucciolo:

''ecco, la verde Sirmio nel lucido lago sorride
fiore delle penisole''.

Anche in questo esiguo numero di esempi sembra di leggere i versi immortali degli antichi, per politezza, precisione, spirito di grandezza, anelito di bellezza.
Proprio questa ricerca (o meglio, si tratta qui nuovamente di una riscoperta) della bellezza sepolta dai secoli non avrebbe tratto giovamento dall'abbassamento della poesia a prosa. Carducci non l'avrebbe permesso, e per primo a sé stesso. Le sue Odi volevano essere sia la riproposizione di metri classici, ma anche, e in fondamentale accompagnamento ad essi (per non svilirli con la totale dedizione alla pochezza della modernità), la riaccensione dell'antica sensibilità dell'uomo davanti alla natura (sfiorando una sorta di paganesimo) e alla sua grandiosità. Il connubio non riuscì sgradito nemmeno a uomini come il Mommsen e il Wilamowitz, cultori e difensori dei valori antichi; tant'è che il primo, giunto nel 1879 a Firenze dalla Svizzera dove aveva fatto ricerche epigrafiche, inviò al genero un'edizione delle Odi Barbare. Il Wilamowitz tradusse in tedesco la famosa ode Alle fonti del Clitumno, presentata poi a Greifswald nel 1885 in una breve relazione nella quale parlava dell'autore in termini quasi entusiastici.
Non serve ricordare quanti, dopo le prime edizioni delle Odi, si scoprirono carducciani: basti l'esempio eclatante del giovane D'Annunzio, incline fin dagli anni del liceo ad imbeversi di ogni novità per riproporla di suo; o quello del Pascoli, che riprende molte delle soluzioni metriche del maestro, come le strofe saffiche di tre endecasillabi e un quinario, e ne migliora altre.
Di pari passo con l'emulazione, anche tematica, dannunziana (ma fu la malattia di una generazione: si vedano il Ferrari, il Panzacchi, il Marradi, si veda il Poema dell'adolescenza di Enrico Thovez, lo stesso che poi attaccherà molto violentemente il poeta di Valdicastello) e quella solo esteriore del Pascoli, all'inizio del '900 scattava in Italia una reazione al genere di poesia propugnato dal Carducci e dai suoi ''allievi''. Essa fu duplice, e antitetica nei modi e nei mezzi. Se i crepuscolari ripudiavano D'Annunzio e si ritiravano nelle loro stanze da ammalati o in vecchi giardini polverosi senza rinunciare alla metrica (ma rinunciando a quello slancio vitale che aveva guidato il Carducci anche in ambito politico), il futurismo era agitato da una furia giacobina che imponeva urlando una versificazione libera; ma lo faceva con la coscienza di ciò che stava chiedendo: non accadde perché sarebbe risultato più semplice fare poesia (e d'altronde, che poesia si poteva fare se anch'essa, come sistema di autori, stili, metri, tradizioni, etc., era il bersaglio del movimento?), quanto perché i partecipanti, Marinetti in testa, davvero volevano qualcos'altro. Gian Pietro Lucini, che teorizzò la natura del verso libero (anticipato dal Thovez che sosteneva ci si dovesse sbarazzare dei vecchi metri e della divisione in strofe per favorire l'uso di ritmi diversi a seconda del soggetto, come i poeti greci; e già nel 1887 il Fraccaroli, nel suo libro D'una teoria razionale di metrica italiana, suggeriva allo stesso modo l'idea del ritmo come elemento guida), nella prefazione alle sue Revolverate fu definito da Marinetti ''il più strano avversario (del futurismo), ma anche, involontariamente, il più strenuo difensore''. I futuristi lo tenevano quasi per nemico, alla solita maniera loro, rumorosa e in fondo innocua; ma dovevano a lui la base teorica del movimento, anche se Capuana con i Semiritmi (1888) rivendicò la propria parte di merito. Il verso libero, comunque lo si voglia considerare, è l'evoluzione naturale di tutta una tradizione; ma senza le Odi Barbare del Carducci sarebbe mancato l'anello di (dis)giunzione col passato. Una strofa come quella alcaica, ad esempio, poteva sembrare un caso di anisosillabismo, quindi quasi un invito a far pratica di irregolarità. Si pensi a certi versi di Montale e del Pasolini de Le ceneri di Gramsci, dove l'endecasillabo è la base a cui avvicinarsi o allontanarsi per numero di sillabe. 
Nel bene e nel male, il poeta maremmano fu il punto di partenza per la versificazione libera moderna e oggi ce ne siamo dimenticati. Lo abbiamo relegato, come tutte le letture liceali, in quel vasto gruppo di opere ed autori che non rileggeremo mai perché su di essi grava sempre, non ancora sbiadita, l'ombra lunga dell'imposizione scolastica.
Potremmo quasi dire, parafrasando il titolo di queste brevi note, che la questione si risolve a Carducci o noi: intendendo con Carducci la tradizione, le sue forme, le sue soluzioni, e con noi la stragrande maggioranza dei poeti odierni, che guardano lontano, sì, ma non riconoscono l'errore madornale che hanno sotto al naso: sono tutti prigionieri di una stessa palude dove li hanno precipitati la faciloneria, la scarsa cultura poetica, la furbizia nell'usare un metro che non è un metro, ma è prosa, come sosteneva Pierre Guiraud in un saggio del 1970. E quindi, almeno dal punto di vista tecnico, non scrivono nemmeno poesia, e non meriterebbero il nome di poeti.
Ma è quella particella disgiuntiva, quell'o, che mi fa paura. È  il foro d'apertura che precipita nel nulla della supponenza e dell'ignoranza, impedendo una risalita. Il passato è diventato il nostro nemico, il babau da evitare. La poesia deve smuovere le coscienze, deve agire, deve portare le persone a chissà quali fini. Deve essere actio, questo sostengono i poeti odierni, e non si accorgono che purtroppo non può più essere che lectio.
Una poesia fatta per riempitivo dei vuoti dell'esistenza, scritta per gioco, per vanteria, per farsi invitare ai festival, per guadagnarsi lodi ed applausi, non è nemmeno poesia perché non ha delle basi solide su cui poggiare. Se alla poesia si vuole affidare uno scopo che non sia quello di fissare per sempre la bellezza fugace con gli strumenti forgiati da una lunga tradizione, allora non serve che esista; ogni scopo materiale svilisce il canto, è solo propaganda.
E se proprio si vuole fare propaganda, si segua almeno la lezione del Carducci, che fu il più grande scuotitore di coscienze della sua età: ma con strumenti e regole, non giocando a fare i poeti col trucchetto di andare a capo ogni tanto.

mercoledì 12 febbraio 2014

Silvia Secco, "Sonetti"

Piccoli gioielli (ludi, pàighnia, avrebbero detto gli antichi) di perizia compositiva (rime frante, sdrucciole, assonanti, ipermetre, accentazioni atipiche, sinalefi audaci) sono questi sonetti: dissimulati, scardinati dall'interno (un po' come i "sonetti inglesi" di Montale, o certe strofe di Pascoli); irti di sincopi, di intermittenze, aritmie, soprassalti, di movenze, si potrebbe dire, jazzistiche. Il neometricismo degli ultimi decenni (dallo Zanzotto di Ipersonetto al Gruppo 93) si sviluppa in chiave metaletteteraria, con uno sperimentalismo straniante, tormentoso, spesso rivolto alla nullificazione del senso. Qui, invece, esso si unisce ad un lirismo intimo e delicato, venato d'illuminazioni e trasparenze, che ostinato perdura, e riaffiora a tratti, come carsicamente, filtrato e temprato, fra gli spasmi della parola e del metro, la frantumazione delle sillabe e del verso, le asperità espressionistiche della rappresentazione, fedele all'esperienza, eppure non mimetica. (M. V.)


Artaud

Artaud ci riconobbe molto prima
noi due nati con spirito cavo in cui
s'insinua il cosmo in spasmi di parole
taglienti come lame pure come
lune, affilati accenti come punte
di una biro. Le parole arrivano
alle mani. Diritte, e molto prima
che alla voce: sudore che saliva
e s'inchiostra a segnare e incide.

E io che vorrei urlare quanto ti sono
affine resto muta a contenerti:
tutto. Tu che sei tutto intorno e interno
in questa sera liquida di cera
colata giu' lungo il mio stelo.



Iris
Forse del vero
Esiste un punto dove il sogno passa
Al nostro cielo, nudo di mistero”
(A. Caramella, Scissura Sagittale da Murales Lunares)

Sale. Il giorno scioglie i nodi ai capelli
ai tuoi rosari, Iris. Di-sfà i cristalli
sgela a saliva e ti ci bagni il dito.
Lo porti alle labbra e bevi. E’ piovuto

ieri. E’ nato tuo figlio. Ha un diamante
a fine del ciglio. E dentro un istante
di perfetta compassione. Un tutt’uno
(a pelle a pelle a ventre a labbra a seno),

d’unione. Come se rive, brandelli,
derive… Se avessero soluzione
in un punto, un ponte arca-arcobaleno

d’assoluzione che è lì! Nel compiuto
e primo nominarsi d’occhi e tocchi
latte e sale a solvere il male. In niente.



La ragione
(sonetto discutibile)

E' un Ottobre che inoltra e il sole cala
prima dietro le facciate. Mi scalda
ancora e all'improvviso me ne accorgo
colta fra vasi e foglia, sovraesposta.

Il paragone urgente è doloroso
com'è la solitudine dei nidi
lasciati grigi a farsi pietre sotto
gli angoli spioventi di coperture

disabili ai tormenti torrentizi
delle maldicenze. Penoso come
la ragione -per cui esistono cose-

e ad esistere insisto anch'io! Oppure no:
nemmeno il dolore nientediniente
oltre al cavo del nido, al maledetto nodo

in gola, al dono di rassegnazione.



La speranza dei soffioni
(Aereosonetto)

 

“Lenta l’armonia dei grilli  

tenta i cieli opachi”

(N. Gelamonte, “Notte Estiva”da Vento dell’Orsa)



Sublime la speranza dei soffioni
nelle eroiche dispersioni dei semi
sui campi, i lampi semantici estremi
di lucciole al bivio / delle opinioni

derise dai bravi (gli ignavi) e assenti.
Sublimi i perdenti in partenza. Eppure
partiti, l’audacia delle radure
nel folto, i vuoti inattesi-insolenti

di memoria, il maltolto: da aquiloni
a dito (il filo sfinito che stenti
a vedere ma tieni), le abrasioni

sulle mani (ci entra il mondo) che tremi:
paure per cui ti sublimi, fessure,
fondo. Lì germina il grano. In diademi.



Sonetto dei sorrisi
(falsonetto capovolto)

Voi che di me il contrario di me fate”
(Giovanni Giudici,da “Salutz”)

Io so fingerli. Ne ho di smaglianti
e candidi che non si direbbe mai.
So stenderli al sole a rassicurarti

puliti come lenzuoli. Ti ci puoi
sdraiare senza togliere le scarpe
né informarti se siano asciutti o umidi:

le superfici o le trame o gli angoli
degli occhi... So anche sollevarli: miti
all'invito degli zigomi, adatti
all'espressione che ho imparato che vuoi

ch'io indossi come fosse naturale.
Di alcuni autentici ti sei scordato.
Peccato fossero i miei preferiti:
schiusi come fiori nelle tue mani.



Mezzamela

A sera ricomponimi la parte
che esce con te al mattino dopo il bacio.
Il giorno intero è un allungarsi d'arti
a cercare le tue mani. Combacio io

perfettamente liscia a te, aderente
alla superficie. Inumidiscimi
e riempi: bocca di labbra. La fronte
nel cavo fra i seni. Colma, chiudimi.

E salda: le tue crepe coi miei fili.
Ho trame supine per te. Le intreccio
alle vertigini che hai. La tela

che si forma è un frutto: una mezzamela
esatta. L'una è la metà di niente
sola. Tu fondile. In unica polpa.



La Dolente

La chiamavano Dolente. Abitava
in argine al canale. Aveva bianche
le mani, banale il giorno. Impastava
reale e sogno (al bisogno) ad ampie branche.

Ne faceva pane. E il fosso fragrava
in torrente e le anse in ansie ed in schinche
e rapide, e il mare in male (Ah! Volveva…)
E si doleva lei. (E un po’ godeva, anche…)

Povera lei, dolorosa… Al confine
piantava all’alba una rosa. Ogni sera
la coglieva… Un pianto… (Come di spine

tra le dita: un senso alla vita e un fine
denso lento colava….) Unica e vera
gioia è il lamento. (In chi alla noia è incline.)

mercoledì 1 gennaio 2014

PICCOLA RAPSODIA SEMIREAZIONARIA D'INIZIO ANNO SU DETERMINISMO, NEO-DARWINISMO, FREUDISMO, LINGUAGGIO

Freud, è stato scritto, fu un Conquistatore. Nel senso che, forse, nulla ha colonizzato le menti e le coscienze, e nulla ha confuso le coordinate e, per così dire, creolizzato le identità all'interno di se stesse, come la psicanalisi: la quale, oltre e più che diagnosticare complessi, ossessioni, angosce, ha largamente contribuito a crearli, ad instillarli sottilmente, goccia a goccia, nelle menti, fin quasi a plasmare una sorta di freudismo di massa che ha invaso tutto, dall'alta cultura fino alla pubblicità e alle soap opera.
E ha fatto, la psicanalisi, di quelle angosce ossessioni feticci, veri e propri Miti, attraverso il diretto influsso di Freud sulla letteratura e sull'arte: non solo su quelle che sono venute dopo, ma anche sul modo di interpretare quelle del passato (il Sofocle e il Leonardo di Freud sono ormai i nostri: ma fino a che punto riflettono quelli reali, ammesso che sia definibile e conoscibile, in sé e per sé, l'assoluta oggettività di una figura o di un'epoca?).
Il freudismo, dapprima avversato, è divenuto anche una forma di potere. Anzi quasi una religione atea, con il suo profeta, i suoi dogmi, i suoi miti, le sue eresie, il suo paradiso (l'appagamento sessuale) e il suo inferno (l'angoscia, la repressione, ma anche la presunta diversità o la presunta perversione).
Perché Freud e non Frankl? Perché la ricerca di un equilibrio che consenta di "amare e lavorare" (ossia di essere "normali", di essere parte integrante e produttiva di una società concepita ancora in termini utilitaristici e borghesi, e perfettamente collimante con l'odierno efficientismo tecnocratico) e non, invece, la ricerca del Logos, del Senso (fosse pure infine inattingibile) che sta alla base e all'origine e alla meta e al vertice di tutto, anche dell'amare e del lavorare? Forse perché il Senso spaventa ed angoscia, oggi, più del Sesso?

*****

A proposito di linguaggio e ricerca del senso, del Logos.
Alla luce del neo-darwinismo, come si possono spiegare fenomeni come la differenziazione delle lingue (la quale parrebbe andare contro la ragione per cui il linguaggio verbale dovrebbe essere nato, ossia favorire la coesione fra gli appartenenti alla specie umana, e che non sempre si giustifica alla luce di fattori storici o geografici) e la creatività individuale, la quale spesso (basti pensare a Dante o a Manzoni) condiziona la stessa evoluzione, in senso diacronico, della lingua, e che dubito possa essere spiegata esclusivamente in termini fisiologici o biologici (a meno di non voler tornare a Lombroso o a Nordau)?
Appunto. Bisognerebbe arrivare ad un neo-darwinismo che non fosse riduzionista. Il rischio del riduzionismo e del monismo incombe, mi sembra, su talune prospettive neo-darwiniane. Si tratterebbe appunto di spiegare perché, se siamo fatti di materia come tutti gli altri viventi, il nostro linguaggio verbale (come il pensiero che ad esso è collegato) ha innegabilmente un grado di complessità, di molteplicità, di sfumature, di individualità che non è ravvisabile nei linguaggi degli altri animali (mentre i linguaggi non verbali umani, per quanto possano essere e siano essi stessi storicizzati, socializzati, culturalizzati, trovano, almeno se considerati in nuce, nel mondo animale significative analogie); e vedere in che modo la teoria dell'evoluzione rende ragione di questo scarto abissale, che non sembra possa essere spiegato solo in termini neurofisiologici.
Mi viene in mente ora, per contro, che la proverbiale oscurità della poesia moderna e contemporanea può spiegarsi, metaforicamente, proprio in termini biologici, darwiniani: la poesia si chiude e si ripiega, iniziaticamente, su se stessa per difendersi da una società che vuole negarle ogni valore, annientarla, distruggerla; e forse una lingua si differenzia dalle altre, staccandosi dal sostrato comune, quando l'identità e l'integrità del gruppo umano che la parla vengono minacciate, e un dato patrimonio culturale deve essere difeso dalla contaminazione e dalla profanazione, oltre che trasmesso – può essere il caso della lingua iniziatica dei Dogon studiata da Leiris – , mentre si mescola e si contamina con altre, come nel caso del creolo, regredendo fra l'altro a strutture logico-sintattiche quasi infantili, quando l'esigenza vitale è quella di comunicare con gruppi umani estranei.
Ma si tratta pur sempre di un'evoluzione culturale che non coincide con una mutazione a livello genetico, biologico, fisiologico, e che non so fino a che punto si possa spiegare alla luce della “memetica”, dei fenomeni imitativi, perché non di mimesi si tratta, ma, al contrario, di differenziazione, di creazione, d'innovazione, di scarto – quello "scarto dalla norma" che è cifra essenziale e generatrice di ogni stile letterario è forse alla base, in senso lato, di ogni differenziazione linguistica, nel tempo e nello spazio: tenere in efficienza il linguaggio secondo Pound, dare un senso più puro alle parole della tribù per Mallarmé è la funzione della poesia: e forse all'origine del linguaggio articolato c'è una figura di sciamano-stregone, di thémenos tà onòmata, datore dei nomi, per citare Platone.
A tutto ciò si aggiunga che la teoria della monogenesi delle lingue parrebbe, oggi, aver trovato nuovo fondamento e nuove conferme (Ruhlen, ad esempio). Come si pone, di fronte a ciò, una prospettiva neo-darwiniana?
Alcune delle proto-radici universali individuate o ipotizzate (http://www.merrittruhlen.com/files/Global.pdf) possono derivare dal caso; altre da prestiti e contatti (che è però improbabile si siano estesi ad aree così geograficamente e culturalmente lontane le une dalle altre); altre da trascrizioni fonetiche erronee o accostamenti forzati; altre ancora potrebbero corroborare l'ipotesi di un'origine imitativa, fonosimbolica, onomatopeica del linguaggio (benché anche le onomatopee che riproducono uno stesso rumore naturale varino, spesso notevolmente, da una lingua all'altra: altro fenomeno singolare).
Ma almeno alcune di queste corrispondenze non possono essere casuali, e sono troppo precise, circostanziate, specifiche, e troppo legate a nozioni astratte, per poter essere spiegate alla luce di una o più delle circostanze sopra elencate. 


                                                                       (M. V.)

domenica 29 dicembre 2013

Paolo Ruffilli traduttore di Mandel’štam



I lupi e il rumore del tempo di Osip Mandel’štam, traduzione e introduzione di Paolo Ruffilli, Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2013






Quando Mandel’štam parla, in Silentium, di "inscindibile legame" (quello dell'armonia originaria, pura come la spuma da cui nacque Venere, cristallina come un silenzio appena solcato o sfiorato dalla prima vibrazione del suono al suo sorgere), pensa quasi certamente al suo Dante: "E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia". Quel passo di Dante è stato spesso citato per suffragare la tesi dell'intraducibilità della poesia. In questa intervista, Paolo Ruffilli svela in parte le dinamiche e le strategie che gli hanno invece permesso di scomporre e ricomporre quel mosaico di sillabe-tessere che è la poesia, riuscendo - magari attraverso i "compensi", gli aggiustamenti e le ricalibrature del rapporto fra suono e senso, di cui parlava Fortini, o la "metapoesia analogica" della più recente traduttologia - di salvaguardarne (come un prezioso capolavoro che dev'essere trasportato con tutte le cautele, o un affresco antichissimo ed ormai evanescente che debba prima essere "staccato", poi restaurato) la sottile, delicatissima, e perciò fragile, armonia. (M. V.)


Parlandone con Paolo Ruffilli
a cura di Elisabetta Brizio



Una volta superato l’abbozzo,
stai ben attento a tenerti in mente
una semplice frase senza aggiunte,
netta contro il buio che ci hai dentro,
e quella, pur strizzando gli occhi,
resta fissa per come ti è arrivata,
e sta alla carta in proporzione
come la cupola al cielo ancora vuoto.

Osip Emil’evič Mandel’štam



Nella sua Storia della letteratura russa Dmitrij Petrovǐc Mirskij scriveva, a proposito della poesia di Mandel’štam: “ciò che più conta nella sua poesia (per quanto interessanti siano le sue opinioni storiche) è la forma e la maniera di accentuarla e di attirare su di essa l’attenzione. Egli raggiunge questo scopo mediante associazioni verbali contraddittorie: troviamo in lui magnifici arcaismi inusitati accanto a termini della vita quotidiana rimasti finora esclusi dalla poesia. Soprattutto la sua sintassi è un miscuglio curioso, in cui periodi di alta retorica si scontrano con frasi puramente colloquiali. La costruzione dei suoi poemi è tale da accentuare la difficoltà, la scabrosità della forma: essa si presenta come una linea spezzata che cambia direzione ad ogni strofa. I suoi lampi di maestosa eloquenza rifulgono ancor più immersi in questo contesto bizzarro. La sua eloquenza è splendida, ma dipende tutta dalla dizione e dal ritmo, ed è impossibile a rendersi in una traduzione”. In I lupi e il rumore del tempo lei sembra essere riuscito ad attuare questa sintonizzazione e questa ricostituzione (e restituzione) “equiliriche” – direbbe Quasimodo – ai testi originali…

Ruffilli
Mi sono sempre sentito in sintonia con la poesia di Mandel’štam: ha le caratteristiche che mi coinvolgono perché è partitura musicale, contrassegnata dal ritmo sincopato del nostro tempo. Sapendo per esperienza che in poesia la musica è tutto ed è capace di mescolare e uniformare tutto (il livello alto e quello basso, l’adesione e l’ironia, l’eccelso e il quotidiano, la storia comune e il particolare…), mi sono abbandonato al flusso straordinario dei suoi versi per tradurli. Mai potrà essere replicata la sua forma originale, ma ci si può avvicinare più di quanto non si pensi. Il problema è che, per tradurre la poesia, bisogna avere esperienza di poesia.

Nella “Nota di traduzione” lei dice di aver tradotto i testi del suo florilegio da Mandel’štam da versioni in lingua inglese. Forse l’intermediazione di una traduzione terza rende, paradossalmente, il traduttore finale più libero, e dunque più fedele allo spirito, se non alla lettera, oltre a preservarlo dagli abbagli cui potrebbero condurre una immersione e una immedesimazione troppo dirette con il magma verbale dell’originale?

Ruffilli
L’inglese (e mi riferisco a traduzioni di poeti inglesi di qualità) mi è servito per restare legato al senso, ma fondamentale è stato ascoltare la lettura registrata degli originali da parte di russi di lingua madre. È la musica che dà senso pieno a quello che chiamiamo significato. Per il resto, da traduttore della poesia che mi interessa e mi coinvolge, non mi sono mai lasciato imbrigliare dal dictat della lettera. Paradossalmente, non c’è niente che tradisca più della lettera, come sostiene la stessa tradizione sapienziale.

A proposito dell’atto di tradurre i propri versi lo stesso Mandel’štam rifletteva: “E, in questo stesso istante, / che so, magari un giapponese / traduce proprio i miei versi in turco / spingendosi a frugarmi dentro” (Tartari, Usbechi e Samoiedi). Ha avuto questa sensazione quasi rapinosa?

Ruffilli
È un passaggio ironico di Mandel’štam e allude al fatto che il traduttore va oltre l’esperienza di semplice lettore (il quale si limita a “far proprio” ciò che legge), sforzandosi di entrare nell’ottica dell’autore e della sua dinamica interna per cercare di renderne al meglio i versi in un’altra lingua. L’importante, per chi traduce poesia, è mettersi in sintonia con l’autore che sta traducendo e questo accade per davvero scivolando dentro la musica della sua partitura.

Nel suo caso, parafrasando ciò che Valgimigli diceva in riferimento a Quasimodo, è il poetare a riflettersi sul tradurre, o viceversa, o entrambe le cose?

Ruffilli
Non esiste una regola che valga in assoluto. Io non parlo, per me, del traduttore professionale (quello, insomma, che traduce quanto gli viene richiesto). Io traduco solo la poesia dalla quale sono preso e coinvolto, il che non vuol dire che ci sia coincidenza di idee e di sentire. L’operazione è, comunque, dinamica e dunque uno scambio reciproco avviene. Ma sempre senza voler scavalcare l’autore che sto traducendo, meno che mai volendolo trasformare in una versione personalizzata o, peggio, marchiata dai propri stilemi.

In “Appunti per una ipotesi di poetica”, a conclusione del suo Natura morta, lei osservava che l’uomo ha sempre praticato l’astrazione come meccanismo di difesa, nel tentativo di padroneggiare una natura soverchiatrice. L’uomo è simbolista sia istintivamente che – nella misura in cui va contro natura – innaturalmente. Con quelle parole con tutta probabilità alludeva in linea generale al fonosimbolismo e al carattere ideofonico e ideosemantico insiti nel linguaggio fin dalla sua origine più remota. In senso più proprio e specifico, la poesia simbolista evoca, sfuma, dilata i margini del significante, istituisce un referente indeterminato, ha spesso esiti mistici o irrazionali. Ora, la prospettiva acmeista accolta da Mandel’štam reagisce proprio all’eccesso di soggettivismo e di evasività delle poetiche simboliste. Gli acmeisti attaccano le basi del simbolismo per un’espressione – lei scrive nella sua introduzione ai versi di Mandel’štam – “in grado di raggiungere l’acme, cioè l’essenza, il vertice dell’oggetto rappresentato”. Non è questa anche una sua profonda esigenza che si realizza nella sua poesia?

Ruffilli
Non c’è poesia che non sia simbolica e dunque simbolista (già parlando, si dice una cosa per intenderne un’altra, figuriamoci in versi). La polemica di Mandel’štam contro il simbolismo (che, poi, non è polemica vera, ma solo una serie di distinguo) è contro il movimento in senso ideologico, come teorizzazione che, come tutte le teorizzazioni, sconfina nella forzatura. Immergersi dentro di sé ignorando ciò che è fuori di sé è come immergersi fuori di sé ignorando ciò che c’è dentro di sé. Al di là del gioco di parole, Mandel’štam vive la più profonda delle interiorizzazioni ma senza mai perdere il senso di realtà (che non ha niente a che fare con il realismo, va detto a scanso di equivoci). Mandel’štam ironizza a proposito di ogni tipo di “realismo” e non soltanto a proposito di quello socialista. Il “realismo”, proprio come il “simbolismo”, è un modo miope o astigmatico di guardare alla realtà. Realtà che, nel suo mistero, è qualcosa di molto complicato che neppure la scienza con i suoi strumenti apparentemente pratici riesce a mettere in scacco. E l’acmeismo insisteva sulla necessità di arrivare appunto all’acme di ogni oggetto portato sulla scena della poesia per rivelarlo nell’incontro con il soggetto, facendo convivere i sensi (compreso il sesto), senza arrivare al cannibalismo del simbolismo (che l’oggetto se lo ingoiava). Si capisce allora come, in particolare, gli acmeisti e soprattutto Mandel’štam contestassero ai simbolisti la mancanza di etica nel rifugiarsi in una realtà “tutta loro” che non faceva i conti con la vita quotidiana e con la storia.

Potrebbe accomunarla a Mandel’štam l’incuranza – nella fattispecie della prassi creativa – verso il “rumore del tempo”, fatte le dovute distinzioni? Così come l’indifferenza, da parte di entrambi, nei confronti di istanze comunicative da ascrivere alla scrittura letteraria?

Ruffilli
Non c’è dubbio che, nel mio sentirmi in sintonia con Mandel’štam, ci siano anche certe coincidenze di atteggiamento e di convinzione, in primo luogo nella non curanza assoluta di ogni rumore del proprio tempo, inteso come moda o scuola e vincolo ideologico e tendenza globalizzante. E devo dire che anch’io avverto una spiccata indifferenza per il consenso legato alla banalizzazione, in un’epoca come la nostra in cui si è radicalizzata la diminuzione al basso del valore, nel caso particolare letterario. I media, oggi, si occupano solo della letteratura di serie B e C. La serie A è bandita, via via anche dagli editori.

Leggiamo nella sua introduzione: “La poesia, per Mandel’štam, cominciava così: all’orecchio risuonava ossessiva, prima informe, poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale”. Non c’è in queste parole qualcosa che caratterizzi anche la fase avantestuale del suo lavoro, benché le due posizioni non possano che seguire processi differenti? Una assimilazione del flautista a quella del poeta che opera attraverso la voce in Mandel’štam (“io mi porto alle labbra questo verde”; “non potete impedirmi di muovere le labbra nel silenzio”), mentre in lei, stando alle sue stesse dichiarazioni, la parola poetica si origina da una sorta di “ossessione mentale” che la induce a conferirle consistenza come le note in una partitura musicale. Un connubio di ricettività musicale e ragione che sorveglia e disciplina, insomma…

Ruffilli
Anche in questo mi sento vicino a Mandel’štam, perfino nel movimento stesso a cui mi costringe l’impulso dell’ossessione musicale, alzandomi a segnare il ritmo a passi e a pronunciare il suono a voce alta, perché l’ossessione che mi attiva è sempre musicale… proprio come racconta per sé Mandel’štam. La ragione entra in campo sempre dopo e, nonostante faccia la sua parte di controllo (come è giusto che sia), non ha mai l’ultima parola, che spetta all’orecchio.

L’elemento musicale che culminerà nella lingua della poesia è l’antipodo del “tono ingessato”, dell’enunciato cristallizzato che implica uno snaturamento semantico, è ciò – Mandel’štam dice in Silentium – “che è vivo inscindibile legame”, purché venga messo in atto il paradigma del flautista. Rendere questa musicalità, meglio, questa istanza musicale, è un ostacolo alla traducibilità dei versi in altra lingua?

Ruffilli
Per uno che come me parte dalla musica per tradurre, come dicevo più sopra, il problema è relativo. Non c’è niente di veramente intraducibile, sia pure nell’approssimazione. Ma lottando con la musica delle parole, l’approssimazione si riduce e si realizza il miracolo di sentire suonare nella propria lingua ciò che suonava nella lingua di partenza. Si tratta, in fondo, di fare il percorso opposto a quello della lingua che da indifferenziata, come puro suono, ha scisso il significato dal significante. Si tratta di rimontare dal significato il più possibile nel significante. Detto così, in teoria, può apparire lambiccato. Ma, per chi ha pratica di poesia, è evidente che il processo diventa in qualche modo naturale.

Quali opzioni ha seguito nell’uso, seppure contenuto, delle rime, incluse quelle imperfette? Una domanda non troppo banale se si considera il loro valore non unicamente musicale, bensì relazionale, concettuale, tematico, performativo… Versi rimali quali, per fare qualche esempio, “fissato:tracciato”, “conchiglia:bisbiglia”, “baionetta:imperfetta”, sembrerebbero istituire relazioni e analogie sottili e peculiari, intrecciare, per così dire, una nuova ragnatela percettiva da gettare nelle forme del mondo…

Ruffilli
Siamo sempre portati a voler dare coscienza fin nel dettaglio ai passaggi creativi, fa parte della nostra innata necessità di spiegare e di capire. Ma i processi creativi sfuggono spesso e volentieri a qualsiasi tentativo di decifrazione logica. In ogni caso, nel mio tradurre, io faccio appello a quegli stessi impulsi che valgono nello scrivere in proprio. Ci sono collegamenti istantanei, fili che si tirano a vicenda emergendo dal profondo, più che una volontà di perseguire rime o analogie… Se mai, starà al critico dare le spiegazioni di una sua analisi razionale del testo.

Alcuni versi da lei antologizzati stabiliscono una dialettica tra silenzio e musica, a tutto vantaggio per la seconda (“la parola è pura allegria, la guarigione dalla malinconia), benché, Mandel’štam scrive in Provo un’invincibile paura, “la musica non salva dall’abisso”. L’esperienza del silenzio sembra farsi letterale, perdere quel carattere auratico, ineffabile, proprio di tanta poesia, dove l’assenza del nome viene categorizzata come voce ancora più essenziale, la spia di una più alta pregnanza. Qui, talora, l’accezione “silenzio” sembra assumere riflessi negativi: “perché mai così poca è la musica, / perché mai così tanto silenzio?”( È il vento a far frusciar le foglie). È così?

Ruffilli
La dialettica tra musica e silenzio attraversa l’intera esperienza di Mandel’štam, rimandando all’impossibile superamento della contraddizione e al suo mistero. Del resto, rispetto al “silenzio” della realtà in cui siamo calati e che non risponde alle nostre domande, la musica è la chiave per aprire qualche porta… istintivamente, l’uomo primitivo ha fatto ricorso al suono ritmato e cadenzato per interrogare quel silenzio da cui si sentiva schiacciato. Pur facendo giustamente conto sull’intelligenza per tentare di spiegare l’avventura misteriosa in cui ci troviamo a vivere, la musica resta la misteriosa chiave che apre certe porte. Ce lo dicono adesso anche gli scienziati: la musica è una matematica pura in cui i numeri sono organizzati da un soffio che non riusciamo ancora a misurare.

In Lupus in fabula il lupo è la morte che predilige la giovinezza, come in Canova nel monumento dell’Augustinerkirche. Declinato al plurale, come nel titolo di questo volume, non può non alludere alle “belve” del bolscevismo. Soltanto a loro?

Ruffilli
Si parla di certe belve, per alludere anche a tutte le altre, di ogni tempo e luogo. Ma, misurandosi con il proprio tempo, a partire da quelle della follia bolscevica e staliniana in particolare. Per testimoniare, ancora una volta, che passare sulla testa delle persone in nome delle idee è far torto alle idee stesse, trasformandole da valori superiori in interessi di parte. E per sottolineare, nel segno dell’assurdo quotidiano e oltre la follia dei malvagi, una certa spiegabile normalità del male legata alle circostanze della vita nella storia.

Diversamente dal simbolismo – che si fonda sulla bipartizione tra ciò che percepiamo e l’impercettibile – la poesia per Mandel’štam necessita, a suo dire, di uno “spazio tridimensionale” che includa la vita. Poesia è stratificazione, concrezione, visione forse anche quadrimensionale qualora si tengano in conto il protrarsi delle cose nel tempo e una loro dimensione spaziale che sembra partecipare delle caratteristiche temporali…

Ruffilli
È quello che si diceva più sopra, delle circostanze di una vita inserita nella storia. Ciò di cui il simbolismo si dimenticava e che invece era ben presente come esperienza in Mandel’štam, nella stratificazione e concrezione appunto, dalla quale non si può prescindere, e nell’intreccio delle dimensioni che è la tessitura del nostro essere. Mandel’štam, che è stato un genio precoce, oltre al talento che lo illuminava dal profondo, aveva conoscenze e competenze che neppure ci immaginiamo.

Nella Conversazione su Dante Mandel’štam – un grande ispiratore del commento di Massimo Sannelli alla Comedìa – accenna a una fisiologia dell’italiano: Dante costringe l’“asiatico” (così Mandel’štam si definiva nella Conversazione) a spostare la lingua in avanti. Imparando l’italiano su Dante ha percepito che la lingua gli si muoveva in avanti, diveniva più prensile, andava verso le labbra. A noi che siamo già italiani così insegna filologicamente Dante. Ma Mandel’štam era asiatico. Può questo valere come metafora per chi è italiano-italofono dalla nascita? Oppure lo siamo già, italiani, e non abbiamo niente da imparare? E non conosceremo mai Dante da questo punto di vista? Insomma, esiste una fisiologia sonora di Dante, anche per noi nati italiani? O per singoli autori? Oppure niente di tutto questo, e la filologia della lingua di Mandel’štam è per noi soltanto una bella visione poetica, una fantasia?

Ruffilli
Non c’è poeta degno di questo nome che, a leggerlo, non spinga a spostare la lingua più avanti. Figuriamoci Dante, che è un propulsore formidabile da tutti i punti di vista e non meno certo sul piano musicale. Ma, si sa, la maggioranza degli italiani non ha letto e non legge Dante, neppure quelli che sembrerebbero leggerlo a scuola… Meno che mai quelli che lo hanno ascoltato letto da altri, magari da Benigni, in una delle operazioni di finto acculturamento più di successo nella società del consenso. La Commedia è una lettura della maturità che riguarda pochi, in un rapporto di incontro-scontro con le ragioni autentiche e drammatiche della vita. Per questo Mandel’štam, al confino e in carcere, si portava dietro il suo Dante.

Per acquistare il libro:

http://www.lceedizioni.com/Prodotti/Vedi/4/I_lupi_e_il_rumore_del_tempo