I lupi
e il rumore del tempo di Osip
Mandel’štam, traduzione e introduzione di Paolo Ruffilli,
Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2013
Quando Mandel’štam parla, in Silentium, di
"inscindibile legame" (quello dell'armonia originaria, pura come la spuma da cui nacque Venere, cristallina come un silenzio appena solcato o sfiorato dalla prima vibrazione del suono al suo sorgere), pensa quasi certamente al suo Dante: "E però sappia
ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela
in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia". Quel passo
di Dante è stato spesso citato per suffragare la tesi dell'intraducibilità della
poesia. In questa intervista, Paolo Ruffilli svela in parte le dinamiche e le strategie che gli hanno invece permesso di scomporre
e ricomporre quel mosaico di sillabe-tessere che è la poesia, riuscendo - magari attraverso i "compensi", gli aggiustamenti e le
ricalibrature del rapporto fra suono e senso, di cui parlava Fortini, o la
"metapoesia analogica" della più recente traduttologia - di salvaguardarne (come
un prezioso capolavoro che dev'essere trasportato con tutte le cautele, o un
affresco antichissimo ed ormai evanescente che debba prima essere "staccato", poi restaurato) la sottile, delicatissima, e perciò fragile, armonia. (M. V.)
Parlandone
con Paolo Ruffilli
a cura di
Elisabetta Brizio
Una volta superato l’abbozzo,
stai ben attento a tenerti in mente
una semplice frase senza aggiunte,
netta contro il buio che ci hai
dentro,
e quella, pur strizzando gli occhi,
resta fissa per come ti è arrivata,
e sta alla carta in proporzione
come la cupola al cielo ancora vuoto.
Osip Emil’evič
Mandel’štam
Nella sua
Storia della letteratura russa
Dmitrij Petrovǐc Mirskij scriveva, a proposito della poesia di
Mandel’štam: “ciò che più conta nella sua poesia (per quanto
interessanti siano le sue opinioni storiche) è la forma
e la maniera di accentuarla e di attirare su di essa l’attenzione.
Egli raggiunge questo scopo mediante associazioni verbali
contraddittorie: troviamo in lui magnifici arcaismi inusitati accanto
a termini della vita quotidiana rimasti finora esclusi dalla poesia.
Soprattutto la sua sintassi è un miscuglio curioso, in cui periodi
di alta retorica si scontrano con frasi puramente colloquiali. La
costruzione dei suoi poemi è tale da accentuare la difficoltà, la
scabrosità della forma: essa si presenta come una linea spezzata che
cambia direzione ad ogni strofa. I suoi lampi di maestosa eloquenza
rifulgono ancor più immersi in questo contesto bizzarro. La sua
eloquenza è splendida, ma dipende tutta dalla dizione e dal ritmo,
ed è impossibile a rendersi in una traduzione”. In I
lupi e il rumore del
tempo lei sembra essere riuscito ad attuare
questa sintonizzazione e questa ricostituzione (e restituzione)
“equiliriche” – direbbe Quasimodo – ai testi originali…
Ruffilli
Mi sono
sempre sentito in sintonia con la poesia di Mandel’štam: ha le
caratteristiche che mi coinvolgono perché è partitura musicale,
contrassegnata dal ritmo sincopato del nostro tempo. Sapendo per
esperienza che in poesia la musica è tutto ed è capace di mescolare
e uniformare tutto (il livello alto e quello basso, l’adesione e
l’ironia, l’eccelso e il quotidiano, la storia comune e il
particolare…), mi sono abbandonato al flusso straordinario dei suoi
versi per tradurli. Mai potrà essere replicata la sua forma
originale, ma ci si può avvicinare più di quanto non si pensi. Il
problema è che, per tradurre la poesia, bisogna avere esperienza di
poesia.
Nella
“Nota di traduzione” lei dice di aver tradotto i testi del suo
florilegio da Mandel’štam da versioni in lingua inglese. Forse
l’intermediazione di una traduzione terza rende, paradossalmente,
il traduttore finale più libero, e dunque più fedele allo spirito,
se non alla lettera, oltre a preservarlo dagli abbagli cui potrebbero
condurre una immersione e una immedesimazione troppo dirette con il
magma verbale dell’originale?
Ruffilli
L’inglese
(e mi riferisco a traduzioni di poeti inglesi di qualità) mi è
servito per restare legato al senso, ma fondamentale è stato
ascoltare la lettura registrata degli originali da parte di russi di
lingua madre. È la musica che dà senso pieno a quello che chiamiamo
significato. Per il resto, da traduttore della poesia che mi
interessa e mi coinvolge, non mi sono mai lasciato imbrigliare dal
dictat della lettera. Paradossalmente, non c’è niente che tradisca
più della lettera, come sostiene la stessa tradizione sapienziale.
A
proposito dell’atto di tradurre i propri versi lo stesso
Mandel’štam rifletteva: “E, in questo stesso istante, / che so,
magari un giapponese / traduce proprio i miei versi in turco /
spingendosi a frugarmi dentro” (Tartari,
Usbechi e Samoiedi). Ha avuto questa
sensazione quasi rapinosa?
Ruffilli
È un
passaggio ironico di Mandel’štam e allude al fatto che il
traduttore va oltre l’esperienza di semplice lettore (il quale si
limita a “far proprio” ciò che legge), sforzandosi di entrare
nell’ottica dell’autore e della sua dinamica interna per cercare
di renderne al meglio i versi in un’altra lingua. L’importante,
per chi traduce poesia, è mettersi in sintonia con l’autore che
sta traducendo e questo accade per davvero scivolando dentro la
musica della sua partitura.
Nel suo
caso, parafrasando ciò che Valgimigli diceva in riferimento a
Quasimodo, è il poetare a riflettersi sul tradurre, o viceversa, o
entrambe le cose?
Ruffilli
Non esiste
una regola che valga in assoluto. Io non parlo, per me, del
traduttore professionale (quello, insomma, che traduce quanto gli
viene richiesto). Io traduco solo la poesia dalla quale sono preso e
coinvolto, il che non vuol dire che ci sia coincidenza di idee e di
sentire. L’operazione è, comunque, dinamica e dunque uno scambio
reciproco avviene. Ma sempre senza voler scavalcare l’autore che
sto traducendo, meno che mai volendolo trasformare in una versione
personalizzata o, peggio, marchiata dai propri stilemi.
In
“Appunti per una ipotesi di poetica”, a conclusione del suo
Natura morta, lei
osservava che l’uomo ha sempre praticato l’astrazione come
meccanismo di difesa, nel tentativo di padroneggiare una natura
soverchiatrice. L’uomo è simbolista sia istintivamente che –
nella misura in cui va contro natura – innaturalmente. Con quelle
parole con tutta probabilità alludeva in linea generale al
fonosimbolismo e al carattere ideofonico e ideosemantico insiti nel
linguaggio fin dalla sua origine più remota. In senso più proprio e
specifico, la poesia simbolista evoca, sfuma, dilata i margini del
significante, istituisce un referente indeterminato, ha spesso esiti
mistici o irrazionali. Ora, la prospettiva acmeista accolta da
Mandel’štam reagisce proprio all’eccesso di soggettivismo e di
evasività delle poetiche simboliste. Gli acmeisti attaccano le basi
del simbolismo per un’espressione – lei scrive nella sua
introduzione ai versi di Mandel’štam – “in grado di
raggiungere l’acme, cioè l’essenza, il vertice dell’oggetto
rappresentato”. Non è questa anche una sua profonda esigenza che
si realizza nella sua poesia?
Ruffilli
Non c’è
poesia che non sia simbolica e dunque simbolista (già parlando, si
dice una cosa per intenderne un’altra, figuriamoci in versi). La
polemica di Mandel’štam contro il simbolismo (che, poi, non è
polemica vera, ma solo una serie di distinguo) è contro il movimento
in senso ideologico, come teorizzazione che, come tutte le
teorizzazioni, sconfina nella forzatura. Immergersi dentro di sé
ignorando ciò che è fuori di sé è come immergersi fuori di sé
ignorando ciò che c’è dentro di sé. Al di là del gioco di
parole, Mandel’štam vive la più profonda delle interiorizzazioni
ma senza mai perdere il senso di realtà (che non ha niente a che
fare con il realismo, va detto a scanso di equivoci). Mandel’štam
ironizza a proposito di ogni tipo di “realismo” e non soltanto a
proposito di quello socialista. Il “realismo”, proprio come il
“simbolismo”, è un modo miope o astigmatico di guardare alla
realtà. Realtà che, nel suo mistero, è qualcosa di molto
complicato che neppure la scienza con i suoi strumenti apparentemente
pratici riesce a mettere in scacco. E l’acmeismo insisteva sulla
necessità di arrivare appunto all’acme di ogni oggetto portato
sulla scena della poesia per rivelarlo nell’incontro con il
soggetto, facendo convivere i sensi (compreso il sesto), senza
arrivare al cannibalismo del simbolismo (che l’oggetto se lo
ingoiava). Si capisce allora come, in particolare, gli acmeisti e
soprattutto Mandel’štam contestassero ai simbolisti la mancanza di
etica nel rifugiarsi in una realtà “tutta loro” che non faceva i
conti con la vita quotidiana e con la storia.
Potrebbe
accomunarla a Mandel’štam l’incuranza – nella fattispecie
della prassi creativa – verso il “rumore del tempo”, fatte le
dovute distinzioni? Così come l’indifferenza, da parte di
entrambi, nei confronti di istanze comunicative da ascrivere alla
scrittura letteraria?
Ruffilli
Non c’è
dubbio che, nel mio sentirmi in sintonia con Mandel’štam, ci siano
anche certe coincidenze di atteggiamento e di convinzione, in primo
luogo nella non curanza assoluta di ogni rumore del proprio tempo,
inteso come moda o scuola e vincolo ideologico e tendenza
globalizzante. E devo dire che anch’io avverto una spiccata
indifferenza per il consenso legato alla banalizzazione, in un’epoca
come la nostra in cui si è radicalizzata la diminuzione al basso del
valore, nel caso particolare letterario. I media, oggi, si occupano
solo della letteratura di serie B e C. La serie A è bandita, via via
anche dagli editori.
Leggiamo
nella sua introduzione: “La poesia, per Mandel’štam, cominciava
così: all’orecchio risuonava ossessiva, prima informe, poi sempre
più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale”. Non c’è
in queste parole qualcosa che caratterizzi anche la fase avantestuale
del suo lavoro, benché le due posizioni non possano che seguire
processi differenti? Una assimilazione del flautista a quella del
poeta che opera attraverso la voce in Mandel’štam (“io mi porto
alle labbra questo verde”; “non potete impedirmi di muovere le
labbra nel silenzio”), mentre in lei, stando alle sue stesse
dichiarazioni, la parola poetica si origina da una sorta di
“ossessione mentale” che la induce a conferirle consistenza come
le note in una partitura musicale. Un connubio di ricettività
musicale e ragione che sorveglia e disciplina, insomma…
Ruffilli
Anche in
questo mi sento vicino a Mandel’štam, perfino nel movimento stesso
a cui mi costringe l’impulso dell’ossessione musicale, alzandomi
a segnare il ritmo a passi e a pronunciare il suono a voce alta,
perché l’ossessione che mi attiva è sempre musicale… proprio
come racconta per sé Mandel’štam. La ragione entra in campo
sempre dopo e, nonostante faccia la sua parte di controllo (come è
giusto che sia), non ha mai l’ultima parola, che spetta
all’orecchio.
L’elemento
musicale che culminerà nella lingua della poesia è l’antipodo del
“tono ingessato”, dell’enunciato cristallizzato che implica uno
snaturamento semantico, è ciò – Mandel’štam dice in Silentium
– “che è vivo inscindibile legame”, purché venga messo in
atto il paradigma del flautista. Rendere questa musicalità, meglio,
questa istanza musicale, è un ostacolo alla traducibilità dei versi
in altra lingua?
Ruffilli
Per uno che
come me parte dalla musica per tradurre, come dicevo più sopra, il
problema è relativo. Non c’è niente di veramente intraducibile,
sia pure nell’approssimazione. Ma lottando con la musica delle
parole, l’approssimazione si riduce e si realizza il miracolo di
sentire suonare nella propria lingua ciò che suonava nella lingua di
partenza. Si tratta, in fondo, di fare il percorso opposto a quello
della lingua che da indifferenziata, come puro suono, ha scisso il
significato dal significante. Si tratta di rimontare dal significato
il più possibile nel significante. Detto così, in teoria, può
apparire lambiccato. Ma, per chi ha pratica di poesia, è evidente
che il processo diventa in qualche modo naturale.
Quali
opzioni ha seguito nell’uso, seppure contenuto, delle rime, incluse
quelle imperfette? Una domanda non troppo banale se si considera il
loro valore non unicamente musicale, bensì relazionale, concettuale,
tematico, performativo… Versi rimali quali, per fare qualche
esempio, “fissato:tracciato”, “conchiglia:bisbiglia”,
“baionetta:imperfetta”, sembrerebbero istituire relazioni e
analogie sottili e peculiari, intrecciare, per così dire, una nuova
ragnatela percettiva da gettare nelle forme del mondo…
Ruffilli
Siamo sempre
portati a voler dare coscienza fin nel dettaglio ai passaggi
creativi, fa parte della nostra innata necessità di spiegare e di
capire. Ma i processi creativi sfuggono spesso e volentieri a
qualsiasi tentativo di decifrazione logica. In ogni caso, nel mio
tradurre, io faccio appello a quegli stessi impulsi che valgono nello
scrivere in proprio. Ci sono collegamenti istantanei, fili che si
tirano a vicenda emergendo dal profondo, più che una volontà di
perseguire rime o analogie… Se mai, starà al critico dare le
spiegazioni di una sua analisi razionale del testo.
Alcuni
versi da lei antologizzati stabiliscono una dialettica tra silenzio e
musica, a tutto vantaggio per la seconda (“la parola è pura
allegria, la guarigione dalla malinconia), benché, Mandel’štam
scrive in Provo un’invincibile paura,
“la musica non salva dall’abisso”. L’esperienza del silenzio
sembra farsi letterale, perdere quel carattere auratico, ineffabile,
proprio di tanta poesia, dove l’assenza del nome viene
categorizzata come voce ancora più essenziale, la spia di una più
alta pregnanza. Qui, talora, l’accezione “silenzio” sembra
assumere riflessi negativi: “perché mai così poca è la musica, /
perché mai così tanto silenzio?”( È il
vento a far frusciar le foglie).
È così?
Ruffilli
La
dialettica tra musica e silenzio attraversa l’intera esperienza di
Mandel’štam, rimandando all’impossibile superamento della
contraddizione e al suo mistero. Del resto, rispetto al “silenzio”
della realtà in cui siamo calati e che non risponde alle nostre
domande, la musica è la chiave per aprire qualche porta…
istintivamente, l’uomo primitivo ha fatto ricorso al suono ritmato
e cadenzato per interrogare quel silenzio da cui si sentiva
schiacciato. Pur facendo giustamente conto sull’intelligenza per
tentare di spiegare l’avventura misteriosa in cui ci troviamo a
vivere, la musica resta la misteriosa chiave che apre certe porte. Ce
lo dicono adesso anche gli scienziati: la musica è una matematica
pura in cui i numeri sono organizzati da un soffio che non riusciamo
ancora a misurare.
In Lupus
in fabula il lupo è la morte che predilige la
giovinezza, come in Canova nel monumento dell’Augustinerkirche.
Declinato al plurale, come nel titolo di questo volume, non può non
alludere alle “belve” del bolscevismo. Soltanto a loro?
Ruffilli
Si parla di
certe belve, per alludere anche a tutte le altre, di ogni tempo e
luogo. Ma, misurandosi con il proprio tempo, a partire da quelle
della follia bolscevica e staliniana in particolare. Per
testimoniare, ancora una volta, che passare sulla testa delle persone
in nome delle idee è far torto alle idee stesse, trasformandole da
valori superiori in interessi di parte. E per sottolineare, nel segno
dell’assurdo quotidiano e oltre la follia dei malvagi, una certa
spiegabile normalità del male legata alle circostanze della vita
nella storia.
Diversamente
dal simbolismo – che si fonda sulla bipartizione tra ciò che
percepiamo e l’impercettibile – la poesia per Mandel’štam
necessita, a suo dire, di uno “spazio tridimensionale” che
includa la vita. Poesia è stratificazione, concrezione, visione
forse anche quadrimensionale qualora si tengano in conto il protrarsi
delle cose nel tempo e una loro dimensione spaziale che sembra
partecipare delle caratteristiche temporali…
Ruffilli
È quello
che si diceva più sopra, delle circostanze di una vita inserita
nella storia. Ciò di cui il simbolismo si dimenticava e che invece
era ben presente come esperienza in Mandel’štam, nella
stratificazione e concrezione appunto, dalla quale non si può
prescindere, e nell’intreccio delle dimensioni che è la tessitura
del nostro essere. Mandel’štam, che è stato un genio precoce,
oltre al talento che lo illuminava dal profondo, aveva conoscenze e
competenze che neppure ci immaginiamo.
Nella
Conversazione su Dante
Mandel’štam – un grande ispiratore del commento di Massimo
Sannelli alla Comedìa
– accenna a una fisiologia dell’italiano: Dante costringe
l’“asiatico” (così Mandel’štam si definiva nella
Conversazione) a
spostare la lingua in avanti. Imparando l’italiano su Dante ha
percepito che la lingua gli si muoveva in avanti, diveniva più
prensile, andava verso le labbra. A noi che siamo già italiani così
insegna filologicamente Dante. Ma Mandel’štam era asiatico. Può
questo valere come metafora per chi è italiano-italofono dalla
nascita? Oppure lo siamo già, italiani, e non abbiamo niente da
imparare? E non conosceremo mai Dante da questo punto di vista?
Insomma, esiste una fisiologia sonora di Dante, anche per noi nati
italiani? O per singoli autori? Oppure niente di tutto questo, e la
filologia della lingua di Mandel’štam è per noi soltanto una
bella visione poetica, una fantasia?
Ruffilli
Non c’è
poeta degno di questo nome che, a leggerlo, non spinga a spostare la
lingua più avanti. Figuriamoci Dante, che è un propulsore
formidabile da tutti i punti di vista e non meno certo sul piano
musicale. Ma, si sa, la maggioranza degli italiani non ha letto e non
legge Dante, neppure quelli che sembrerebbero leggerlo a scuola…
Meno che mai quelli che lo hanno ascoltato letto da altri, magari da
Benigni, in una delle operazioni di finto acculturamento più di
successo nella società del consenso. La Commedia è una lettura
della maturità che riguarda pochi, in un rapporto di
incontro-scontro con le ragioni autentiche e drammatiche della vita.
Per questo Mandel’štam, al confino e in carcere, si portava dietro
il suo Dante.
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