domenica 11 settembre 2011

PER MASSIMILIANO CHIAMENTI, UNA VITA E UNA MORTE NEL SEGNO DELL'ANTIFRASI

Conoscevo Chiamenti (filologo e poeta da poco toltosi la vita nella sua casa di Bologna) solo per i suoi studi danteschi. Che erano incisivi, rivoluzionari, metodologicamente rigorosissimi, eppure antiaccademici nelle conclusioni: quando, ad esempio, dimostrava inequivocabilmente, contro Maria Corti, che non c'è, in Dante, una chiara presenza intertestuale del Liber Scalae; o quando parlava, in modo sorprendente, con solide argomentazioni, di un "Dante sodomita" (io parlerei piuttosto di un Dante ermafrodito, nel senso in cui Guinicelli dice, in modo a sua volta controverso e polisemico: "Nostro peccato fu ermafrodito", o comunque androgino, ambiguo, oltre, nella sua sublimità, ogni identità sessuale, onde a Forese rivolge quelle parole indecifrabii: "Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e quale io teco fui").

Ecco, la stessa polivalenza, la stessa ambiguità si trovano nella figura di Chiamenti; e anche la sua morte è sotto il segno dell'antifrasi. Vuole il luogo comune che chi dice di volersi uccidere non lo farà. E' vero l'esatto contrario: tutti i suicidi sono preceduti da un annuncio che è anche richiesta d'aiuto. La quale non esclude il desiderio di morire: il suicida ama la vita, si uccide, forse, per troppo amore della vita, per l'impossibilità di vivere la vita che vorrebbe, o di vivere la Vita in assoluto, senza limitazioni e senza barriere e senza compromessi, nella pura luce di una gioia impossibile. La leggenda secondo cui chi dice di volersi uccidere poi non lo farà è nata dall'inconscio desiderio di deresponsabilizzarsi, di non sentirsi obbligati ad intervenire, di non avvertire lo schiacciante e soverchiante obbligo morale di fare qualcosa per aiutare la persona che soffre, per impedirne e scongiurarne la morte.

Del resto, nessun suicidio può essere evitato. La pulsione di morte vince ogni ostacolo, spezza ogni barriera. Persone chiuse in una stanza si fracassano la testa contro le pareti; persone legate ad un letto cessano di respirare finché il loro cuore non si ferma.

L'atteggiamento di chi ignora le dichiarazioni di intenti suicidi è perfettamente umano. La vita vuole solo la vita, non vuole, inconsciamente, sentirsi inquinata, insidiata e turbata da forze contrarie, oscure, devastanti. Orfeo si volge, alle soglie dell'Ade, perché la sposa è ormai stata contaminata dalla morte, e non può più camminare e respirare nel mondo dei vivi. "Dal morso di vipera dell’immortalità / la passione di donna prende fine. / È già pagata - ricorda le mie urla! - / questa distesa estrema. / Orfeo non deve scendere a Euridice. / I fratelli - turbare le sorelle". Così la Cvetaeva.

In una sua poesia, Chiamenti gioca a fare la donna, anzi la Madre, "madre introita". Perché la Morte è donna, è il fondo oscuro, la materia umida, l'"orrido borro", dice ancora Dante, da cui sgorga la vita, e a cui la vita vuole tornare per spegnersi; e in cui, per contro, il seme vitale vuole stillare e sprofondare, per dare alla luce una nuova vita che sarà a sua volta preda della morte, in una catena senza fine. Nella sua stessa ostentata e letteraturizzata diversità, nella sua indecidibile ambiguità sessuale, per il modo stesso in cui le viveva, Chiamenti corteggiava la morte. Che infine l'ha accolto.

Non si può estetizzare la morte. È blasfemo. Eppure la letteratura (di per sé lettera morta, discorso postumo, voce che continua a parlare, indefinitamente, dopo la morte di chi le ha dato forma) non fa altro, a ben vedere, anche quando celebra la vita.

"Resterà solo la voce arcaica del cantore". "Io liberò felice ai superi / con i calici di ambrosia". Così dicono alcuni versi di "Viva la morte", insolitamente sublimi e classici in un poeta così spesso crudamente realistico. Ora, senza retorica, il suo voto si è adempiuto.

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