mercoledì 3 maggio 2017

Elisabetta Brizio - "Il nome e l'enigma. Nuovi tentativi di avvicinamento a 'Natura morta' di Paolo Ruffilli"





(Passa la forma,
muore si dissolve
per sempre ci scompare.
È la materia, dicono,
che scorrendo resta:
si trasforma cambia
si deforma,
senza cessare d’essere.)

Bernières, Calvados: 18 agosto
(Diario di Normandia)


Il soggettivismo non schiaccia mai Ruffilli, in poesia, anche se fino a un certo punto egli vi ha trasfuso molto di sé. Ecco, qual è questo punto? Il momento dell’abbandono della misura soggettiva per una riflessione versificata sull’altro da sé? Forse, La gioia e il lutto e Le stanze del cielo. Ma nel successivo Affari di cuore si incaricava di affrontare direttamente – e inevitabilmente con il coinvolgimento dell’esperienza personale – la fisiologia dell’amore, insieme a quello che negli Appunti per una ipotesi di poetica, a chiusura di Natura morta (Aragno 2012), egli definisce il «salto nel vuoto che l’amore pretende». Ricordate L’isola e il sogno? Dove, a differenza delle storie che erano affluite in Un’altra vita, non si dava la possibilità di un nuovo corso alla propria esistenza. Con Affari di cuore la biografia sembra riacquistare i suoi contorni, ma piú che una ricaduta in una anamnestica personale si tratta qui di misurarsi con il tema amoroso – e ‘tema amoroso’ non è la migliore espressione in quanto rinviante a un che di scorporato –, dunque di trattare l’amore (emozione choc, eros, istinto, affetto, idealizzazione) senza tergiversare, né devitalizzandolo in esiti di vaghezza, ma osservando il love affair dall’interno. Perché, Ruffilli lamenta, la poesia, la grande poesia, tranne qualche sporadica eccezione, tende ad aggirare l’ostacolo, a smussare gli aspetti piú aspri dell’amore. Non sfugge a questa inibizione Montale, che esibisce senhal, donne dello schermo e figure salvifiche che si rifanno agli angeli dello Stilnovo, figure che in fondo finiscono per essere non troppo dissimili dagli «emblemi eterni» e dalle «evocazioni pure» di Ungaretti (Memoria d’Ofelia d’Alba), pur da Montale per altri versi cosí lontano.
In Affari di cuore imperversava una soggettività dirompente: a chi apparteneva? Sembrava attenuarsi la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del Ruffilli che «pensa poeticamente»: l’inflessione pensante qui appariva in parte compromessa in quanto molti versi disegnavano una quasi tangibile materialità dei corpi, niente affatto stilizzata e sublimata. È il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore costituisce la vera trama di quest’opera? Non lo sappiamo, ma non possiamo fare a meno di notare che anche in questo caso Ruffilli ha seguito il metodo della immersione, senza alcuna mediazione esterna.
Ogni autobiografia protratta e l’eccessivo protendersi del cosí detto poeta-Io sconfinerebbero nella finitezza e indicherebbero un termine, sicché la nozione di tempo sarebbe destinata ad un arresto. Ruffilli ovviamente lo sa, secondo lui il tempo è «una delle dimensioni in essere», il passato è un fattore anticipante e il futuro chiarisce i segni del trascorso. In questi termini, il futuro è precoce e tardivo, intempestivo. Identificare nel passato, pur nel costante flusso temporale, un dettaglio indicatore di una dissomiglianza, di un divario, sorprendere qualcosa di non compatibile con il presente è anche prendere atto di una discontinuità che, se ricomposta, restituisce il sentimento temporalizzato dell’adesso-sempre del tempo. Cosí in Notizie dalle Esperidi: «Alla sconfitta del presente / resta illusione / di dominare ciò che è trascorso. / Eppure esiste / il punto di rottura, / passo da cui proceda evoluzione (‘di sé non solo conoscenza / ma negazione’)».
La biografia, quello che Ruffilli chiama «il confronto con se stessi», deve trarsi dalle implicazioni individuali e farsi inchiesta e confronto generazionali, per focalizzare l’intrico di fattori (ambientali, pulsionali, ecc.) che hanno costituito lo sviluppo dell’io. È quindi essenziale una «biografia interiorizzata», che abbia cioè superato la prova di quell’artificio che – lo vedremo – è il presupposto del conoscere sia se stessi che i fenomeni esterni. Come nelle foto in versi di Camera oscura, la vita necessita di una visione in profondità: le cose, indizi segni dati (defilati, marginali, ma insignificanti mai), una volta stazionati nella mancanza della luce, acquisiranno luci e colori. Come negli spazi interni di Piccola colazione, lo stato claustrale è la condizione per la conquista del fuori. Allora, un’azione può determinare una reazione contraria. Ed è anche cosí che si compie il nostro percorso identitario.
Tuttavia, ciò che importa ora è sottolineare, con Natura morta, il distacco definitivo dalla dimensione della autobiografia, importa rilevare una impersonalità conseguita, la neutralità dello scrivente, perché intrattenersi esclusivamente sulla singola esperienza – circostanza che per altro non ha riscontri ossessivi in Ruffilli – precluderebbe il definire la vita, o la definirebbe come qualcosa di troppo privato, troppo breve, di colpo conclusa. Soprattutto, troppo parziale, limitata: delimitata. Con Natura morta siamo invece nel campo del generalizzabile. Il sottotitolo suona: Aforismi e frammenti da una Cosmogonia ritrovata con un Piccolo inventario delle cose notevoli e Appunti per una ipotesi di poetica. Aforismi: cioè una definizione sintetica che compendia e condensa tutta una serie di acquisizioni e di esperienze, che stabilisce dei margini, che esprime un ideale di saggezza. Dunque, una pronuncia definitoria. Ma al tempo stesso, come nel caso del Nietzsche inattuale, prolettica, precorrente – ma non profetica –, visto che le cose prendono una designazione nell’atto stesso di esporle, narrando. I risultati della ricerca di Ruffilli si manifestano mentre la ricerca è in opera, mentre si compie. Sorge quindi il problema della traduzione in parole: il nome c’è, ma quanto è adeguato a significare il dinamico e contrastato spazio esistenziale nel quale il dinamismo trova la sua articolata dialettica? A significare il suo teso e profondo e corrugato moto espressivo, la sua problematica declinazione-implosione verbale e stilistica? Ciò che insomma si vuole oggettivare è uno stato metamorfico, il che non è sempre una scommessa vinta: di qui il carattere sperimentale dello stile aforistico che mira a nominare la mutevolezza e la contraddizione, cioè i motori del mondo. E nominare la mutevolezza implica il previo diventare pensante-immaginante-interrogante del soggetto lirico, insieme alla assunzione di un marcato tono aforistico, talora con tendenza all’epifonema. Dicevo: ‘sperimentale’; sperimentale ma non distorcente o degradato a provocazione, rapsodico ma mai incline all’infrazione dei significati condivisi.
Quanto a frammenti: non solo schegge dell’anima di una modernità che ha eroso il suo centro. Se c’è da assumere un linguaggio per designare ciò che è allo stato di latenza, questo non può darsi che per schizogenesi, oppure per lampi e barlumi (‘barlume’: luce balbettante, lume indistinto, indizio fuggevole). Non a caso Ruffilli è indifferente al fatto comunicativo, e ha l’onestà di dirlo. L’esigenza della comunicazione è esclusa dal suo orizzonte, d’accordo. Tuttavia la reazione di empatia tra autore e utente comunque sorgerà, se sorgerà, se colui che nel suo caso non siamo neppure autorizzati a chiamare ‘destinatario’ della sua scrittura sarà in condizioni di captare qualcosa che lo metta in sintonia. Dice Ruffilli che «ogni percorso di gnosi è sempre una pratica esoterica», un esercizio che misconosce limiti di carattere sociale o socioculturale, e che si dispiega senza che ideologie o convenzioni convenute intervengano a limitarla. Ci si riconosce, ci si intende al volo, oppure no, tutto qui. Ruffilli scrive per sé seguendo una ossessione di ricerca «in chiave di gnosi», una conoscenza quindi superiore, piú sofisticata.
Ma come intercettare ciò che non è evidente, o che è caratterizzato da un rilievo incerto? E come rendere espliciti a se stesso gli esiti di questa ricerca? Se ciò che riveste maggiore importanza dell’evidenza è l’assenza? Paradossalmente, l’assenza è l’archi-elemento, lo «stampo» e l’«impronta» del fattuale e dell’essere vivente. Piú che presenza mancante, assenza è poter essere. Alla prima questione risponde il paradigma della immaginazione, fondante in Ruffilli solo se non assunto nel suo senso romantico ma in accezione einsteiniana. Come dicevo – rimettendomi alle affermazioni di Ruffilli – nel capitolo a lui dedicato nel mio Per legame musaico, l’immaginazione è attitudine a immaginare in tendenza tutt’altro che campata in aria e tutt’altro che priva di fondamenti e di appigli nel mondo reale, avendo il coefficiente fantastico, ricondotto ad evidenza in vista di una sua dimostrazione, intimamente a che fare con il fondale delle insospettabili stratificazioni, con strutture nascoste e con la fattualità di fondo dove si sta fattivamente scandagliando. Niente di piú lontano dalla fantasticheria e dalla immaginosità gratuite e svincolate. Che altro fa il metodo della scienza per avvicinarsi alla verità se non partire proprio dalla finzione nei test di laboratorio? L’immaginazione è finzione nel pensiero; fingendosi qualcosa – Leopardi, Pessoa, per fare solo due nomi – prenderà forma una verità sfuggente e mai a fuoco qualora cercata per altra via. Fernando Pessoa, sulle «meraviglie fluide dell’immaginazione»: «M’indoro di tramonti ipotetici, ma l’ipotetico è vivo nella supposizione. Mi rallegro di brezze immaginarie, ma l’immaginario vive quando lo si immagina. Ho un’anima per varie ipotesi, ma quelle ipotesi hanno un’anima loro e perciò mi offrono l’anima che hanno. Non c’è altro problema se non quello della realtà, e questo problema è insolubile e vivo. Che so io della differenza tra un albero e un sogno? Posso toccare l’albero; so di avere il sogno. Cos’è questo nella sua verità? Cos’è questo? Sono io che da solo nell’ufficio deserto posso vivere immaginando senza detrimento per l’intelligenza» (Il libro dell’inquietudine, tr. it. di M. José de Lancastre e A. Tabucchi).
Per rispondere al secondo interrogativo, che verte su «quale linguaggio per cercare», è necessaria una riconsiderazione della materia linguistica. Disponiamo di suoni limitati per fare discorsi infiniti, e questo è speculare in poesia, dove siamo di fronte alla brevitas di un discorso che di fatto si dilata affinché la vasta assenza che ci pervade si faccia significante. L’assente, ciò che ha maggiore rilievo, viene alluso, detto, evocato, significato altrimenti rispetto alla via canonica suggerita dalla logica: per avvicinamenti simultanei, per astrazione emblematica, simbolicamente, per alchemica combinazione verbale. Ovviamente questo processo in Ruffilli esula dalle convenzioni della retorica e mira alla ellissi, ad alleggerire la scrittura, all’essenzializzazione dei nomi e al diradamento della sintassi.
Parliamo una lingua o ne siamo parlati? La lingua è metamorfosi, vive morendo o muore vivendo, è «in essere». Non è il nome – la poesia – ad attuare la metamorfosi (può esserlo nella sfera privata), esso si limita a testimoniarla. E per paradossale rovesciamento, secondo la legge dell’«inversamente proporzionale», «piú basso è il tono e piú alto è l’effetto», il sublime, ciò che sta sotto la soglia, risulta-risalta non dall’enfasi o dalla deriva ridondante ma dal sottotono, dal tonalmente inferiore. Per questo principio la leggerezza della parola, fatta di vuoto e di assenza, coglie l’attenzione del lettore idealmente affine a quel medesimo grado di allusività.
In nome della linguistica, ‘melos’ e ‘melodia’ sono termini fratelli. In nome della fantasia – o dell’orecchio, cioè in nome di una parafilologia sentimentale – un italiano potrebbe aggiungere un terzo termine: ‘mela’, la mela corruttibile cosí spesso in posa. In latino malum, come il male, ma questo ci porterebbe ad altre rive. Prendiamo questa triade scientifica per due terzi e fantastica per un terzo. Melos-melodia-mela: la musica esprime l’unità dell’uomo con il cosmo (per questa suggestione mi rifaccio liberamente a un ricordo da Gian Casper Bott, Natura morta). Ora un accenno a Schelling: «le forme della musica sono le forme dell’essere e della vita dei corpi celesti in quanto tali: la musica non è nient’altro che il ritmo percepito e l’armonia dell’universo visibile». Per Schelling, per quanto assurdo possa sembrare, la musica è reale, anzi è la piú materiale delle arti in quanto legata alla materia, il suono ha origine dalla materialità della natura. E il ritmo «è una divisione periodica dell’omogeneo, in cui l’uniforme è combinato con la diversità, e quindi l’unità con la molteplicità» (tr. it. di Luigi Pareyson, L’estetica di Schelling): allora abbiamo insieme unità e autonomia dei particolari (Ruffilli direbbe: «nel suo / essere saldata / per unione nel distacco»). «Lo stesso ritmo, che per Schelling è l’essenza della musica, è strettamente connesso col cuore della natura [...]. Il suono emerge dalla materialità stessa della natura» (Pareyson su Schelling).
Inoltre, il genere della natura morta, estraneo alle istanze narrative esplicate nelle opere di carattere storico, ha qualche affinità con la musica solo strumentale, dove non c’è intreccio, non c’è un fatto, non c’è azione. Sono richiami irrelati per introdurre la dimensione musicale in Ruffilli. La musica è per eccellenza metamorfosi e stabilisce una estensione ininterrotta tra ambiti, canoni e prospettive. Ha a che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Poesia e dimensione musicale, un binomio onnipresente nell’opera di Ruffilli; ritmandosi, la parola poetica assume la funzione di infondere il senso dell’unità delle voci contrarie, di una concordia discordante, o di una discordia concordante, come nelle cosmologie rinascimentali. In lui, la musica ante rem: come ha piú volte dichiarato, è da una «ossessione mentale di tipo musicale» che le parole prendono corpo come in una partitura. La ragione è sottoposta alla musica, ogni a capo in poesia risponde a un’esigenza musicale. La musicalità è piú normativa della grammaticalità, assolvendo quest’ultima a una funzione unicamente strumentale. Ma la parola possiede una virtú che la musica non ha, in quanto sperimenta la fissione tra immagine acustica e concetto.
Alla visione del mondo di Ruffilli sottende una solida base filosofica, particolarmente attiva in questa – come scritto in quarta – «serrata rappresentazione (ed analisi) sulla razionalità della natura e sulla naturalezza della storia» che è Natura morta. Una prospettiva inflessibile, per quanto versata nello sgretolamento di un verso volutamente discontinuo e brevilineo che descrive nella sua ipotesi di poetica, una versificazione per frammenti, per stralci lirici discriminati quale mimesi o comunque semiotica dell’incespicare e della pronuncia esitante dell’io (ancora, ‘barlume’, lume balbettante) nella disgregazione pulviscolare della modernità. In tutti i codici estetici, il frammento è stigma-emblema, tratto peculiare dell’età in cui viviamo, non esperta della totalità ma degli elementi labili. Ruffilli scrive: «una frantumazione è anche corrispondente a una mancanza di continuità temporale e modifica l’esperienza della memoria, perché il passato non è piú un’entità astratta fuori di noi, alle nostre spalle, il passato siamo noi e dunque il tempo verbale per significarlo non è piú l’imperfetto, ma il presente». Da un lato Ruffilli vive l’età del dimidiamento dell’io, della sua «andatura intermittente» e della dispersione delle sue qualità spirituali, dall’altro aspira alla ricomposizione della frammentarietà in un quadro piú vasto, in un organismo ricostruito a partire dalla numerosità dei suoi brani. Una sorta di opus tessellatum per una riorganizzazione semantica, limpidamente incoerente, del soggetto e della realtà.
E ancora negli Appunti per una ipotesi di poetica concepisce la memoria anzitutto come fonte di conoscenza. A un certo punto fa un’affermazione sconcertante, almeno per me: «Non mi volto indietro a riconsiderare con nostalgia quello che non c’è piú». Ciò giustifica sia la memoria come incremento di acquisizioni, sia il fatto che non si possa avere nostalgia per ciò che costantemente si ricrea, non c’è cosa che non sia piú. Implicati in questa tensione conoscitiva, tempo e memoria cospirano contro l’elegiaco, contro il nostalgico. Come in Proust, il tempo passato non è una faglia che ci depaupera, in quanto in noi incorporato. «L’indistinto e il confuso // contengono l’ordine / dell’intera loro somma». La memoria è «in essere, cioè come realtà presente, insieme diacronica e sincronica», e ci dice che «siamo quello che siamo stati e che sono stati altri prima di noi» – e torna di nuovo in mente L’isola e il sogno. Se la prospettiva del frammento implica una intermittenza, forte in Ruffilli è l’istanza della continuità, reificata ad esempio anche attraverso l’iterazione di quelle parti versificate ritornanti in opere successive: strofe – o singoli versi – che incorporano tratti particolari, privilegiati o meno, che costituiscono o hanno costituito una identità individuale. Inoltre, questa tensione dilatoria imita il dinamismo dell’esistente nel suo divenire altro. Anche il nome cambia di contesto e muta di funzione per esaudire una ricerca interminabile.
Come detto sopra, la vera realtà per Ruffilli è quella immaginata, quella al di là del visibile, preliminarmente epochizzato per poi cogliere e restituire, osservava Mengaldo, «le essenze e i destini dei fenomeni»: «quello stato eterno / dentro la vita / disperso e frantumato / dalla vista». Perché ciò che chiamiamo ‘realtà’ non è che un equivoco dei sensi, una nostra alterazione, essendo essa intrinsecamente opaca e inscrutabile nella sua ermeticità alla ragione. Reali, e come tali abilitate a partecipare dell’arte, sono le connessioni di un pensiero immaginoso. In questa misura anche scrivere equivale a varcare l’alterità delle cose tramite l’immaginazione, ad allontanarsi dalla realtà pur restando concrete le ragioni dell’espressione scritturale. La parola per Ruffilli trattiene piú essenza, piú espressività della realtà stessa. E la realtà, quella realtà di cui il nome si fa carico di esprimere? In questa concezione della superiorità della parola non c’è ovviamente alcuno spregio per ciò che è reale, o uno svilimento di ciò che è reale in favore dell’irrealtà o dell’idealizzato. Del resto, in un dialogo incluso in Pentacordo per Paolo Ruffilli egli stesso ha dichiarato che nella sua esperienza «niente in realtà è astratto. Il mio modo di essere è quello che gli inglesi definiscono ‘in touch’, a contatto. Ed ecco come la realtà attraverso il tatto si materializza nel pensiero. Perciò per me non importa che si tratti d’amore o di tempo o di vuoto o di qualsiasi altra cosa: tutto ciò che tocco è la materia del pensiero. Ecco realizzata l’intima correlazione dell’apparentemente incoerente». Non c’è estetismo in Ruffilli, solo fiducia nel nome rivelatore-delatore dell’imprendibile senso delle cose.
Secondo Ruffilli «gli oggetti contano come specchi della mente». La misura umana è l’astrazione, un’astrazione tuttavia operativa. La riduzione a res ficta, la sostituzione degli aspetti del visibile con simboli da sempre hanno permesso all’uomo di padroneggiare una natura arcana e non docile. Quindi l’uomo è (ed è da sempre stato) istintivamente intellettuale perché ha con la realtà un impatto mentalistico al fine di conoscerla e di potervi esercitare un’azione di controllo. «L’uomo è nato simbolista», ha detto Ruffilli, che è come dire che è l’unico essere vivente che va contro natura. Questo avviene inintenzionalmente. Per l’uomo la realtà o l’apparenza rimandano a qualcos’altro, e sono questi «rimbalzi di significato», secondo il linguaggio di Ruffilli, che danno l’input alla elaborazione linguistica. È prerogativa del cervello umano cercare sempre nuove strategie per gestire il cambiamento delle cose.
Ma qual è la «regola del mondo»? La quiete, si dice in Natura morta. Per molti è la non-contraddizione. Ma il principio di non-contraddizione è un sogno e va decostruito: se valido riferito ai concetti, è fallibile quando esteso alle cose del mondo. Ruffilli insomma non insegue una verità logica o una sintesi superiore. La sua poetica dell’immaginazione del resto comporta l’immersione nel magma del contraddittorio, pre-logico o post-logico, non tuttavia per uscirne con una versione coerente, e semplicemente perché questa versione non c’è, la natura non rispetta-rispecchia una gerarchia di rapporti stabilmente configurati, in particolare eccede ciò che sembrerebbe dogmaticamente fissato dalla logica della ragione assoluta. Di qui la «necessità del paradosso» che scalza le categorie. La molteplicità, la varietas, la contraddittorietà della realtà, l’enigma che vi si avverte, vacuum presupposto di plenum, calco premessa della forma, morte presupposto di un’altra nascita, la vita che prosegue solo in virtú di un’estinzione: tutti questi motivi non possono essere giustificati logicamente con una parametrazione categoriale, o inquadrati concettualmente. Solo un «paradosso ambivalente», un processo di antonimia, un doppio sguardo, oppure un ossimoro esteso o una contraddittoria simultaneità possono rendere ragione del carattere discordante del mondo, esprimere la tensione polare, la coincidenza degli opposti, l’«immaginosa verità».
Il genere pittorico della natura morta nasce come forma di libertà rispetto ad altri soggetti figurativi, e la libertà riconduce alla vita e alla scelta. La libertà è una delle istanze primarie di Ruffilli: se l’uomo è condizionato dall’ordine necessario che vige in natura, non gli è con questo preclusa la possibilità di decidere. Ancora dal Pentacordo: «Lo stato delle cose è uno stato oscuro e fluttuante, dove l’individuo ha una parte attiva inevitabile. Non si spiegherebbe altrimenti, fin dalla sua comparsa sulla terra, l’istinto dell’uomo all’artificio, cioè l’istinto a impadronirsi della realtà, in tutti i modi e con tutte le conseguenze anche negative. L’individuo ha piú scelta di quanto non appaia a prima vista… Vuole sapere se credo nel libero arbitrio? Sí, nonostante tutti i condizionamenti e tutte le costrizioni. Ed è da sempre che l’uomo, forzando la situazione, esercita la facoltà di decidere, magari sbagliando e perfino a suo danno. Da un certo momento in poi, l’uomo ha cominciato a interrogarsi sul suo rapporto con lo stato delle cose e a darsi delle possibili risposte. Ai due estremi, troviamo da una parte la convinzione che la realtà sia pura apparenza rispetto alla quale si sia chiamati ad esercitarsi come in una dolorosa palestra, dall’altra la convinzione che la realtà sia il prodotto del puro caso. Sia gli uni che gli altri, comunque, non sembrano affatto rinunciare al margine di scelta…».
«Di quanta morte / necessita la vita / per fiorire»? Prendiamo una natura morta, di per sé contestualmente sede di laude dell’esistente (e talora, in assetti trionfali o sfarzosi, manifestazione della vanitas, o al contrario della vanità dei sensi allusa da alcuni oggetti-emblema) e rappresentazione della labilità: la luce – o un bagliore, oppure una spartizione di luce e ombre crepuscolari – invade oggetti preventivamente svincolati dal loro contesto di origine, enfatizza il loro lato di mistero e, con Mallarmé, i loro reflets réciproques. Restituisce loro tutte le parvenze e le qualità non accidentali che avevano prima di entrare in posa insieme ad oggetti estranei, prima di avere, con il loro cambiamento di stato, in qualche modo alterato la struttura del mondo. Il convegno degli oggetti (oggetti incorruttibili, o manufatti, prodotti della natura o animali: il tratto che li accomuna, oltre che una sinestesia diffusa, è una sorta di solidarietà) è con il silenzio, con il congelamento nell’ombra, con la fissità, con altre forme inanimate, testimoni silenti della metamorfosi. Ma non è un convegno con la morte e il compianto. Quale criterio avrà seguito l’artista nel prelievo degli oggetti? Perché anche quando gli oggetti paiono negligentemente distribuiti, nella natura morta – come soprattutto in natura – nulla è casuale, esiste una necessità interna, una naturalità, e il caso è solo «un nome / della necessità».             
La natura morta è un appuntamento con la discordanza, condizione dello svelamento dei contrari, come «gioia» e «lutto» – apparente contraddizione nei termini – nel libro omonimo, fino al punto che Mengaldo suggerí in prefazione di leggere il primo degli elementi della diade «non solo secondo, ma terminale». Ciò per via del rinnovarsi della vita, ed è quindi su life, piuttosto che su still, sull’inanimato o sulla immobilità o sullo stato agonico, che Ruffilli ha sempre posto l’accento: «Vita vivente / distesa nel mistero…». Che poi è anche la sorte dell’uomo, uguale e diverso rispetto alle altre forme viventi. Come scriveva Michel Butor a proposito del Canestro di frutta di Caravaggio nell’Ambrosiana, «dal contatto della luce e dei vegetali si sprigiona un dramma ‘dello stesso ordine’ di quello delle grandi composizioni sacre» (tr. it. di M. Porfido).
Non sul senza-tempo, né sulla propaggine estrema della vita, né tanto meno su esiti di corruzione, ma sulla vita che risorge dall’apparente dissolvimento. «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma / senza cessare di essere». Qualcosa può al tempo stesso essere e non essere. Il principio della contraddizione ratifica l’essere intrinsecamente coerente del radicalmente eterogeneo: e ciò costituisce – Ruffilli ha asserito – «il vero mistero della vita e della morte, il mistero dei misteri; la vita che germoglia dal niente e dal vuoto», la vita che perpetuamente modula e si modula. Rimane il mistero, la permanenza nell’incoerenza, resta il diaframma anche quotidiano nel quale il nostro sguardo si infrange: «Sicuri dell’effetto / che non cadrà il muro / tra il cercatore  / e il suo desiderato / né tra l’amante e / l’oggetto del suo amore».


Elisabetta Brizio (maggio 2017)

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