domenica 10 gennaio 2010

UNA CROCIFISSIONE DI RINASCITA. RICORDO DI MARIBRUNA TONI PITTRICE E POETESSA










Nel caso della compianta Maribuna Toni, l'oraziano ut pictura poesis non è una frase fatta o una citazione scontata, ma trova verificato il proprio significato segnico, il proprio valore semantico - parole deposte, stese sulla pagina come tratti di pennello, campiture cromatiche, pennellate incisive, contorni, espressioni.

Quadri, quelli dell'autrice, singolarmente divisi tra il figurativo e l'informale, con qualche forma, qualche tratto o memoria di realtà che affiorano ed emergono a fatica, con sofferenza - e il colore, la materia pittorica trasudano quella sofferenza, e nel contempo disperatamente la redimono - il volto della donna è sfigurato, ma nello stesso tempo inverato, celebrato quasi, dal suo risolversi in pura forma, puro segno, pura sostanza grafico-pittorica.

Lo stesso spasimo del pensiero che esce, che si sprigiona e rampolla dalla materia delle parole, dalla creta e dai pigmenti del linguaggio, come la forma dal blocco e la visione dal bianco della tela, credo di poter scorgere anche nei brani di poesie citati da Patrizia Garofalo nella sua affettuosa rievocazione.

La pittrice poetessa (per la quale certo la poesia era un'appendice, un corollario, della pittura, senza per questo essere marginale, ma acquisendo, piuttosto, il valore di un completamento e di un commentario) depositava, per parafrasare Ardengo Soffici, le parole sulla pagina come il pittore i colori sulla tela.

Viene in mente (non tanto come pittore, quanto come poeta) De Pisis. "ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale / che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, cuore". "Dal muro alto sporgono / alberi spogli / forche, braccia, grucce". Parole-segni, tracce-emblemi deposti ed accostati, appunto, sulla pagina-tela, così come si assommano e si affollano sulla scena ilare e tragica del mondo e nello spazio, ammaliato o contorto, dello sguardo.

Come in Maribruna, con un'intensità esistenziale e simbolica se possibile addirittura maggiore:

I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna.


(M. V.)


“Ho innalzato / su piedistalli di cartapesta / idoli di creta / poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia / e gli idoli / soltanto una fanghiglia /
Resta intatta solo la memoria / incisa a fuoco dentro la mia carne / così il passato diverrà presente”.

La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili. Nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice,
se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre: “suicidi disperati per paura / che li uccidessi con l’indifferenza”. Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto di affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un‘onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.

Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica , sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.

Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere “il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate / i giochi, le canzoni, le risate / i flauti, gli organi i violini", la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella “veglia della morte mia” dove "non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi", e attraverserà la vita consapevole che l’uomo ha già, da sempre, sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore, quale invece la suggerì Montale.

Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura, con la quale gioca a vivere creando mosaici puzzle di cui lei stessa è tessera integrante: ”ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare: / cercavo la luna / se ne stava nascosta / pudibonda/ tra le rughe della notte".

Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e negli echi delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che lasciano tralucere ombre, mistero, ignoto, nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna si specchia sul mare, popolato di “meduse / flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante / di una morte recente".

Consapevole che basterebbe “la svirgolata d’ala/ d’un sorriso” a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà “ vestale d’amore” per sempre.

Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: “se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa”. La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive.

Di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.

Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.

Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso: ”il grido muore / e mi gorgoglia in gola", e la mano che non si distende sulla tela “ha solo dita adunche / chiuse a pugno / rattrappite / in un’imprecazione”, e solennemente addita da lontano la morte come unica nostra proprietà ineludibile.

Ma la vestale non spegne il fuoco , non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate “tra tenaglie d’onde / ripiegate/ in lamine di fogli / di latta / in una lotta / liquida spirale / di cavalli / e creste”, e dona ceneri di vita. “E mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo / prendi il mio cuore / e inchiodalo ad un palo / per una crocifissione di rinascita".
Patrizia Garofalo

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