Le parole si ridefiniscono nell’immagine e la copertina introduce alla silloge di Gianni Sassaroli (L'ombra delle cinque dita, edizione privata) nella solitudine poetica e realistica di uno dei più significativi quadri di Hopper. Un realismo abile a cogliere nell’immagine femminile, inondata dal sole, una finestra da cui niente si scorge, nulla si spera .
Il “ciò che non siamo e che non vogliamo” continua nel poeta come ramo nodoso all’attraversamento sofferto del vivere. Esule volontario da un mondo straniero, barbaro e tracotante, Gianni Sassaroli con la sua silloge ci annoda al dolore e scientemente buca il foglio con l’ombra delle cinque dita. Come la luce di Hopper sottolinea l’isolamento, così l’ombra del poeta non ristora i versi ma li incide e, con lo stesso gioco di contrasti, non suona il pianoforte la mano che scrive, ma arriva graffiante la voce a dirci che in un mondo di giganti si muore.
Lo scrivere assume così la necessità di una messa a fuoco diretta ma anche compromissoria con la realtà. E’ il venire a patti con l’immaginazione che potente spesso rivendica in Sassaroli il dovere di vivere.
«La stanza ancora opaca dell’ultima luce torna pipistrello un / frusciare di rami che sono tende alzate e lasciate nel ritmo / grotte scure gli angoli dei muri / stasera ha anche piovuto e l’erba lascia nelle radici del naso odore / dolce sembra ubriacatura / di stanchezza di battito rapido più lento / vorrei trattenere i respiri prima che il sole violento schiacci tutto e / tutto diventi evidente».
Colgo come sia complessa la lettura di questo testo il cui andare a capo non segue un concetto di logica strutturazione del pensiero ma un agito immaginario in lotta con l’evidenza dalla quale il poeta si distacca proprio nell’infrangere regole di base, di spazi e sguardi. I versi rotolano come sassi da un ghiaione verso valle, senza che nessuno riesca a dirigerli ma, visto che l’ombra delle cinque dita così fortemente scrive, l’intensità del dolore appare ricerca e restituisce alla poesia il valore alto del sacrale cercato. La stanza, opacamente riflessa nella cecità del pipistrello, respira con il modulato ritmo nelle tende alzate e l’aggiunta dell’ “anche ha piovuto” sembra aprire un varco oltre le mura, benevola la pioggia nel sinestetico “odore dolce” che restituisce alla terra e che rientra nell’immagine dell’acqua come emblema di purificazione, nelle nostre radici profumo di buono, di dolcezza, allenta il ritmo del respiro in una configurazione ampia e dispiegata che profuma di amabile ubriacatura, di vendemmie e campagna, di aperto e di aria.
Serve a vivere il prefigurare una tarda nascita del sole, esso non illumina ma sottolinea l’evidenza. Il sole che abbaglia e i pipistrelli che battono nei lampioni di montaliana memoria in questi versi assumono tonalità e spazialità ascendenti pur in una lirica decisamente circolare.
La stanza si ridefinisce infatti in luogo dell’evidenza, ma all’interno si amplia di rumori, colori, ritmi, pianure, pioggia, respiri, immaginazione. E mi sembra di aver trovato il bandolo per leggere queste liriche così complesse ed alte. Esse vivono e pulsano di una musica interna al campo semantico che mettono in scena e in esso dipingono e suonano. Il passaggio è coraggioso, sfrontato quasi. È così che il simbolismo realista della pittura di Hopper è tradotto dal poeta e si disegna in parole a lui consoni, che esplodono e trovano la forza nell’urlo e la quiete nella natura che lo accoglie. «Sono arrivato solo e svogliato il corpo maturo ed invecchiato / a guardare di costa il prossimo giorno che avanza / voglio dimenticare l’origine strana del viaggio / senza impronte recenti».
Il primo lungo verso connota nella rima martellante interna (arrivato-svogliato-invecchiato) un senso di sfinitezza del viaggio umano e «il giorno che avanza» (che, gozzanianamente, possiamo leggere come «il giorno che rimane») è un’aggiunta di inutilità strappata al calendario del tempo, la dimenticanza sembra sussistere come accompagnamento all’anestesia del dolore.
In una struttura aritmica come spesso è il cuore leggiamo anche abbandoni e tregue: «La città è vicina e distante un fiato non porta rabbia/ diffuso quel riflesso diamante/ di luna forse».
Dalla prigionia esistenziale arriva una meravigliosa e ampia figurazione del bacio «sotto il cerchio la ciglia nella guancia sulla bocca salata”; “ quel vento alzerà negli incroci le gonne/ alla più bella che asseconda il movimento dell’alito fresco e ride/ d’essere vista»; «dolcissimo e bello rimane solo sulla fronte il capello riccio»; «il rivolo sul collo della ragazza penetra pensiero pizzicore percettibile/ la lana dei seni».
La fisicità, percettibile nella silloge, sfuma in un orizzonte più lontano spesso ricucito sul dolore, ma che di esso fa poesia e parola accecata dal brivido delle assenze, di volanti attese, di fianco alla vita e nella vita, tangente al male di vivere ma dissetato da «respiri regolari come i fianchi di una gondola/ si muove lentamente».
Dal momento che ho avvertito il suo legame con la pittura di Hopper, altrettanto mi sento di collegare all’arte di Chagall le parole di pausa al dolore.
Forse il mondo è anche sogno dove appendere se stessi qualche volta, e dove l’ombra delle cinque dita può sembrare una carezza.
Patrizia Garofalo
sabato 1 agosto 2009
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