mercoledì 30 dicembre 2009

Elisabetta Brizio, "Karl Michelstädter e l’utopia del 'libero mare'"

Il tema della fugacità, dell'inafferrabilità del tempo, e dell'inesorabilità del suo consumarsi e decadere verso l'orizzonte oscuro della fine e dell'enigma, è, paradossalmente, un tema che vince il tempo stesso, che lo trascende ripresentandosi nelle epoche e nelle culture più diverse ("Non c'è cosa bella e gloriosa che non abbia d'un tratto reciso il respiro, e non precipiti nella tomba. Orrida tomba è anche la culla del sole, e lumi d'astri le ombre funeree", scriveva Nezahualcoyotl senza nulla sapere della Bibbia, della sapienza egizia o della tragedia greca, e in modo cupamente profetico, solo pochi decenni prima che il suo grande regno fosse cancellato, divorato dalla bramosia dei conquistadores).
Poeta-filosofo, e filosofo-poeta, mitteleuropeo e italiano, lieve di reminiscenze di una cantabilità petrarchesca e leopardiana, moderno e nel contempo classico nei temi e nello spirito (basti qui ricordare i celebri versi in cui Orazio raccomanda, letteralmente, di "recidere dal breve tempo una lunga speranza", o prima ancora le meditazioni pre-shakespeariane e pre-heideggeriane di Pindaro e di Sofocle intorno all'uomo skias onar, "sogno di un'ombra"), Michelstaedter cercò, come Faust, di afferrare l'istante, di coglierlo e di assaporarlo rendendolo puro ed assoluto eppure lasciandogli, nondimeno, la sua natura di istante, la sua consustanziale transitorietà, la sua ossimorica essenza fatta di caducità, di impermanenza, di evanescenza. L'istante, la temporalità si depurano e assolutizzano proprio nel riconoscimento, lucido e femo più che rassegnato, della loro irredimibile transitorietà.
L'imagérie dei versi citati nel testo che segue (testo ragguardevole anche per la ricerca formale, densa di neologismi, e spasmodicamente tesa a rendere comunicabile una materia concettuale così sottile e sfuggente, come appunto il tempo medesimo a cui si riferisce) è comunque, nonostante queste risonanze universali ed archetipiche, schiettamente primonovecentesca. Penso al mare in Montale (il mare "vasto e diverso / e insieme fisso"), in Valéry ("la mer toujours recommencée"), e prima ancora, e soprattutto, in Corazzini, librato "verso un cielo più novo e più lontano / sovra il pianto degli uomini e del mare", o fisso nella contemplazione di "una vela / piccola che s'incela / a l'estremo del mare" (ma si può vedere lo studio di Virginia Di Martino).
Il tempo della vita si eterna, si sublima, diviene celeste, proprio nell'orizzonte, appena varcato, della sua finitudine. Il tempo infinito, l'infinità del tempo di cui parla Michelstaedter non sono nell'infinitamente grande, nell'indefinita e sterminata distesa dell'aion, ma piuttosto nel'infinitamente piccolo, nello sdipanarsi e sfilare degli istanti, minimi "atomi di tempo", inanellati nella collana bergsoniana e montaliana:
Ahimè, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani! E scampo
n'è, ché, se accada, insieme alla natura
la nostra fiaba brucerà in un lampo.
(M. V. )
Forse è questo il peccato originale, essere incapaci
di amare e di essere felici, di vivere a fondo il
il tempo, l’istante, senza smania di bruciarlo, di
farlo finire presto. Incapacità di persuasione, diceva
Michelstaedter. Il peccato originale introduce la
morte, che prende possesso della vita, la fa sentire
insopportabile in ogni ora che essa arreca nel suo
trascorrere, e costringe a distruggere il tempo
della vita, a farlo passare presto, come una
malattia: ammazzare il tempo, una forma educata
di suicidio.

Claudio Magris, Microcosmi

Nella poesia di Karl Michelstädter la metafora assoluta del mare esprime l’aspirazione a varcare il deserto della vita (“lasciami andare oltre il deserto, al mare”), e della dimensione della “rettorica”, della “inadeguata affermazione d’individualità”, come egli in La persuasione e la rettorica definisce l’inautentica forma di esistenza, poliforme incarnazione del vuoto.
La metafora del mare nondimeno si complica nella michelstädteriana distinzione tra un “libero mare senza sponde”, pelagus substantiae infinitum, lontano da coste e da scogliere, un “mare dove l’onda non arriva”, luogo infinibile e irraggiungibile, oggetto di una tensione mai appagata, sostanziale e autosufficiente (“da sé genera il vento, / manda la luce e in seno la riprende”), e quello di cui facciamo esperienza, colmo esso stesso di deserto e difettivo di vita, oppresso da un vento che lo accomuna alla terra, quel mare “che non è mare s’anche è mare”, le cui onde si accavallano alla stessa maniera dei nostri desideri.
Il “libero mare” si oppone sia al vivere obsolescendo del non persuaso che all’amour du mensonge della “rettorica”:

Onda per onda batte sullo scoglio
- passan le vele bianche all’orizzonte;
monta rimonta, or dolce or tempestosa
l’agitata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l’orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l’onda non arriva,
il mare che da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.

(Onda per onda)


Il mare è simbolo di una persuasione umanamente inaccessibile, è filosofia della libertà, sottrazione di sé alla condizione “rettorica” dell’esperienza, al destino di parole che mimano una comunicazione assente e che sostanziano la noia, parole assunte come necessari narcotici e “ornamenti dell’oscurità”. Con l’elemento di mistificazione introdotto dalla “rettorica” l’uomo attinge al sapere, all’essere per qualcosa, non già all’essere. “Libero mare” è emblema di annullamento di passioni e di desideri che inducono alla omissione di un presente vòlto in continua progressione verso il futuro e che precludono la possessione della vita. Esso è sovrana indifferenza, è tempo a cui l’evento contingente non attiene, pur contenendolo.
Scrive esemplarmente Claudio Magris (profondo conoscitore del poeta e filosofo goriziano, sul quale diffusamente si sofferma) nel bellissimo romanzo Un altro mare, in cui la figura di Carlo ispirerà le vicende del protagonista, designato a un’esistenza persuasa, ideale vanamente perseguito da Enrico:

In quelle pagine c’è la parola definitiva, la diagnosi della malattia
che rode la civiltà. La persuasione, dice Carlo, è il possesso presente
della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere
pienamente l’istante, senza sacrificarlo a qualcosa che ha da venire
o che si spera arrivi quanto prima, distruggendo così la vita nell’attesa
che passi più presto possibile. Ma la civiltà è la storia degli uomini
incapaci di vivere persuasi, che costruiscono l’enorme muraglia della
rettorica, l’organizzazione sociale del sapere e dell’agire, per nascondere
a sé stessi la vista e la coscienza del loro vuoto.

Per esemplificare l’automatismo della impersuasione Michelstädter introduce la metafora del peso e della sua insoddisfazione che lo induce a scendere sempre più in basso: esso è spinto costantemente dalla volontà di scendere. È la mancanza di possesso a conferirgli il suo statuto di peso. La destinazione del peso, alla maniera di quella umana, è l’esito della vacanza del e dal presente. La volontà di possesso soppianta il possedere, la possibilità di consistere, la persuasione. Dice Michelstädter: “Per possedere sé stessa - per giungere all’essere attuale essa corre nel tempo: e il tempo è infinito poiché nel momento ch’essa riuscisse a possedersi, a consistere, cesserebbe d’essere volontà di vita (…). La vita sarebbe se il tempo non le allontanasse l’essere costantemente nel prossimo istante”. È ciò che Michelstädter definisce “l’illusione della persuasione”. L’inappagamento della volontà vanifica ogni cosa che intanto è già passata, consacrando il tempo alla morte. In questa prospettiva dell’essere come voler essere o aver da essere il tempo sottrae alla vita l’autentica dimensione del presente. L’esistenza è un incessante spostamento in avanti che esclude l’idea della possessione, e della vita non resta che la sensazione di averla già vissuta.
Il “lontano mare” si configura come tensione a impossessarsi del puro presente delle cose avvertite nell’appagamento della loro astanza, un anelito alla persuasione, è rifiuto della maschera della retorica, è autosufficienza estranea al volere e al desiderare. Vivere inseguendo la vita equivale a morire, a sancisce la dicotomia tra l’essere e il divenire e a patire un’esistenza agonica e immemoriale:

e con l’occhio all’orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: “Vorrei morire”.
Ma più forte sullo scoglio
l’onda lontana s’infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
“No, la morte non è abbandono”
disse Itti con voce più forte
“ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care”.


In questi versi del poemetto I figli del mare i protagonisti rifiutano la propria adiacenza alla terra, la propria mancanza, e subiscono una sorta di trasfigurazione in entità marine. In Michelstädter la terra è sempre negativamente connotata come regno della “rettorica” e dell’impersuasione.
Il mare, ma “un altro mare”, delinea la teleologia michelstädteriana dell’essere. Che è essere-per-la-morte, della zarathustriana “libera morte”: “Io vi insegno la morte che compie l’incompiuto, e diviene per i vivi stimolo e promessa”, si legge nello Zarathustra. Esiste forse un nesso tra la metafora del mare e il nietzschiano amor fati, l’amare la necessità anche a rischio di naufragare, e l’itinerarium verso la riconquista della persuasione, la risoluzione a dare patria a sé stessi.
I figli del mare sembrano anelare ad infinitarsi, e ciò è reso anche attraverso l’impiego frequente del verbo all’infinito che rima con “mare” (una profonda e circostanziata esegesi di questi versi è stata condotta da Sergio Campailla nella sua interessantissima introduzione all’edizione 1987 dell’Adelphi delle Poesie di Michelstädter), un “mare aperto senza rive e senza navi” (Magris) quale prefigurazione di consistenza ma insieme di annullamento: nel mare dell’essere, dell’essere-per-la-morte che assiste alla ricomposizione della totalità diveniente, una morte da saper affrontare, “che congiunge e non divide”, avvolta in un’aura escatologica, più che una forma di nullificazione .

“Libero mare” è vaticinio di quiete, di arghia, sulla scorta delle michelstädteriane meditazioni filosofiche dell’esistenza, secondo cui filosofia, quale “amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Magris).

Consistere è uscire dalla desertificazione, attraversare la “retorica” decodificandone ogni ingannevole dialettica, “farsi fiamma” affrancandosi dalla mutevolezza, condizione che nondimeno è consustanziale e coessenziale all’uomo e all’esistenza.

Al mio sole, al mio mar per queste strade
dalla terra o dal mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

(Onda per onda)

E al mar l’annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l’annuncio porta del tumulto
che in cor m’infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l’abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l’ardir combatte e sogna il mare libero.

(All’Isonzo)

Elisabetta Brizio, dicembre 2009

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