giovedì 3 marzo 2016

Paolo De Caro, «Le formiche del Diario postumo. Noterella a margine di una polemica letteraria» («Il protagonista», agosto 1997)



Di tanto in tanto, sulla base di più o meno sottili, ingegnose o capziose argomentazioni, viene revocata in dubbio l'autenticità del Diario postumo, la raccolta, dedicata all'ultima Musa, la poetessa Annalisa Cima (poetessa, peraltro, di per sé valentissima, che ebbe gli elogi di Cesare Segre e di Maria Corti: voce incisa, travagliata dalla dialettica eppure protesa verso l'Armonia), che Montale depositò presso i notai con la volontà che fosse pubblicata, gradatamente, dopo la sua morte.
Ho ora l'onore di riproporre, per gentile concessione, uno scritto di Paolo De Caro, uno dei più acuti ed informati studiosi di Montale (basti qui citare il fondamentale Journey to Irma: una approssimazione all'ispiratrice americana di Eugenio Montale, indispensabile per comprendere a fondo i complessi rapporti che legarono il poeta ad un'altra sua ispiratrice, Irma Brandeis, studiosa di Dante d'ispirazione gnostica e a tratti finanche esoterica). 
Anche se è passato un ventennio, attualissima, anzi innovativa, e forse poco seguìta, è la lettura in chiave gnostica, esoterica, “gematrica” che viene suggerita da De Caro.
Libro ‒ il Diario postumo ‒ ultimo, estremo, “fascinoso”, cioè magico, beffardamente esorcistico, ludicamente misterioso, ambiguamente criptico ed iniziatico; incentrato, nel gioco sapiente delle uscite postume con le loro scansioni, sull'Uno (Aleph, il respiro primordiale, l'Uno-Tutto e Uno-Nulla della Mistica, l'Unomnia del naturalismo esoterico rinascimentale) e sul Sei (la lettera Vav, la mediazione dell'energia, il canale attraverso cui la luce primordiale «per l'universo penetra e risplende»); Sei che è anche simbolo del compimento, dell'opera finita, dell'opificium mundi condotto ad apparente perfezione, ma, nel contempo, anticamera dell'inquietante, sfingea quiete della Domenica, dell'immensa e silente stasi del riposo: compimento che è forse, dunque, possibilità di distruzione (si ricordi, alla fine delle Sette giornate del mondo creato, misconosciuto capolavoro tassiano, la preghiera che a Dio rivolge il mondo, l'universo compiuto, anelando alla propria
distruzione, al proprio annullamento nel fuoco dell'amore divino: «A te di nuovo / Sovra me stesso pur rifuggo, e prego / Teco sovra me stesso unirmi amando. / Già mi struggo d’amor, languisco amando. / E s’altro incendio mi consuma e strugge, / L’amor tuo più lucente, e ’n altra forma / Poi mi rifaccia» ‒ viene in mente Clizia, pronta ad uno stesso sacrificio, ad una stessa annientante, universale catarsi: «Guarda ancora / in alto, Clizia, è la tua sorte, tu / che il non mutato amor mutato serbi, / fino a che il cieco sole che in te porti / si abbacini nell’Altro e si distrugga / in Lui, per tutti» ‒ il Diario postumo, in cui risuona, argentina, una «voce di salvazione», è forse il compimento, postumo appunto, di quel mistico e cosmico anelito?).
“Apocrifo”, forse, il Diario postumo: ma apocrifo nel senso di nascosto, nel senso in cui nascoste amano essere, insegnano i filosofi, la Verità e la Natura, che kryptesthai philei; nascondimento spiazzante e straniante, come notò benissimo Zanzotto quando parlò di una voce poetica che ‒ in ciò risiede appunto la geniale beffa in cui gli interpreti e i filologi sono puntualmente caduti, e continuano a cadere ‒ rende in fondo vano a priori ogni dibattito sull'autenticità, perché nei momenti più ostentatamente goffi e stentati della raccolta (che pure contiene testi altissimi quali Come madre e Nel giardino) è il poeta che, intenzionalmente o meno (ma forse al di là di ogni intenzione deliberata e consapevole, in una paradossale autenticità esistenziale che si traduce in autofalsificazione letteraria), falsifica se stesso, collocando la propria situazione e il proprio sguardo al di là della stessa contingente distinzione, tutta umana, di vero e falso, nella stessa misura in cui li colloca al di là della morte e al di là del tempo, in un'ultima coincidenta oppositorum in cui verità ed inganno non sono più scindibili, in quanto facce della stessa erma (non diversamente, Luzi, nei Colloqi con Mario Specchio, diceva vano lo stesso chiedersi se Dio esista o meno, tanto lontani sono, comunque, la sua natura, la sua essenza, il suo modus essendi, dal piano meramente umano e contingente della dicotomia fra ciò che esiste e ciò che non esiste, ciò che effettivamente fu e ciò che soltanto sarebbe potuto essere).  
Una voce, direi, intrinsecamente falsa, inevitabilmente falsata, poiché è quella del poeta che, al contatto della giovane Musa la quale è simile a uno «smarrito adolescente» (quello stesso che era stato il poeta medesimo prima della lucida e amara Fine dell'infanzia), ritorna al se stesso in un tempo, alle proprie schiette origini liriche ed esistenziali, ad una sua sapiente infanzia o aurora del dire, senza però, inevitabilmente, più avere, da un lato, il vigore creativo di quell'irripetibile stagione, e senza poter più, dall'altro, oramai, dopo avere attraversato il giornaliero deserto della poesia-prosa e della poesia-diario, dopo essersi immerso nel grigiore del contemporaneo, volgere lo sguardo, limpidamente, verso quegli «alti Eldoradi», quei «chiari reami»; onde, a tratti, gli stridori, le disomogeneità, le cadute, le zoppìe, i balbettii, inevitabili e sintomatici.  
Una ilarotragica beffa, un postumo ed irridente ludus, un amaro ed ilare paighnion ‒ di cui Annalisa Cima, Musa e Vestale, fu, in ogni caso, messaggera («agile Messaggera eccoti...») e complice. 

     (Matteo Veronesi)
  


Sostiene Hazlitt che fare testamento è «l'ultima possibilità che abbiamo di esercitare la naturale perversità del nostro carattere». E' una riflessione da tenere a mente a proposito del cosiddetto Diario postumo di Eugenio Montale.
Maria Corti, su «La Repubblica» del 4 settembre 1997 ha riequilibrato grazie alla sua testimonianza una distorsione di lettura che poteva derivare dall’intervento di Dante Isella («Corriere della sera», 20 luglio 1997), il quale, si badi, non è da ritenersi di fatto in errore.
Semplifico. Isella ha detto ad alta voce ciò che molti andavano sussurrando da tempo: Diario postumo è un falso, le sue poesie sono una serie di centones, per di più ingenuamente combinati. La Corti, confermando Zanzotto, ha risposto: no, è una beffa di Montale ai critici.
Bisogna riconoscere che l'elemento positivo di questa polemica va rintracciato proprio nell'attenzione suscitata dal critico intorno alla possibile presenza di apocrifi, da considerare senza scandalo, tuttavia, e senza farsi imprigionare da questo restrittivo paradigma di lettura. Infatti, se così si facesse, il testo non meriterebbe più dignità di interpretazione e andrebbe semplicemente rifiutato, con la conseguenza, grave, che l'indagine filologica collasserebbe in una inerte “lettura ingenua”, e il lettore, in tal maniera, cadrebbe nella trappola preparata da Montale (o, seguendo il ragionamento di Isella,
da altri).
Come avviene in questi casi, l'equivoco dell'opera (e Montale è autore volontariamente, programmaticamente equivoco) diventa un problema di ricezione e, di lì, un problema  eminentemente ermeneutico.
La domanda essenziale che dobbiamo rivolgerci riguarda allora la responsabilità autoriale dell'opera complessiva, la sua intenzionalità, il suo significato interno. Chi ha concepito, insomma, questa strana raccolta di poesie, Montale o, diciamo così, la Cima? Chi ha voluto che l'opera apparisse così come l'hanno letta Raboni o Orelli o Isella o Lalla Romano? Si può spostare la critica oltre l'esame
grafologico e il raffronto testuale? L'equivoco dell'opera - diciamo pure: l'apocrifo - può diventare il referente ideale dell'opera?
A me sembra (e non da ora) che Diario Postumo (che è titolo redazionale, non essendo l'opera un “diario” e solo per certi versi “postumo”) sia necessariamente l'estremo libro di Montale; un libro fascinoso (nel significato etimologico), “velato”, che significa altro da quel che dice; un «libricino»
autoparodico, di inappartenenza, di invisibilità, dove l'essere è il non essere; un «libricino» sine titulo dalle inquiete iridescenze neognostiche; un libellus distruttivo e ricostruttivo, di vendetta e di rivelazione, di fine del mondo e della poesia: “apocalittico”, come il libellus per antonomasia, l'Apocalypsis di Giovanni. Il suo contenuto profondo è il disincanto del moderno e il dileggio della
sua letteratura (critici e poetae novi), l'esaltazione “tradizionale” (in senso guénoniano) di una perduta saggezza e unità del mondo, e l'attesa di una rinascita grazie all'Amor e alla poesia vera (in fin dei conti quella del suo autore: cfr. Come madre), e questo contenuto profondo viene nascosto in un marchingegno metaletterario, “abbandonato” e leggero nella forma, iperarchitettato nella struttura, ma talmente esibito che ogni lettore dovrebbe prenderlo in seria considerazione.
Il paradigma che dovrebbe prevalere, dunque, non è quello di un semplice “falso d'autore” ma quello di un exemplum, di una metafora del moderno dove tutto è falso, falsi i valori, l'arte e gli autori, ma tutto viene presentato come vero.
A riprova - non ce lo avesse ricordato Zanzotto, che Montale, negli ultimi suoi anni, fu attratto da ciò che viene scritto per conto, per vece e per nome di un autore da un astuto contraffattore - potremmo dire che, questo dell'apocrifo (con predizione grafologica), fu un persistente arzigogolo dell'imprevedibile mente del poeta, almeno dal 1947 (cfr. Grafologia futura, «Corriere della Sera», 26 aprile, ora in Prose e racconti, pp. 719-722).
L'opera si presenta con un'armatura numerologica di cornice, una gematria fondata sull'1 e sul 6: 11 buste, 66 poesie, ogni busta 6 poesie, ogni anno per 11 anni 6 poesie, l'undicesima busta inserita in un bustone che contiene in superfetazione 18 poesie, la gran parte encomiastiche della Musa (cioè 6 x 3, cioè, numerologicamente, 6/6/6, cioè 666); 24 sono i testamentini, le lettere-legato (cioè 6x4 ecc.).
Montale, sin dagli anni '40, nelle lettere a Contini (come Isella sa bene) parlava di Finisterre come di un «libretto», di un «libruccio di argomento apocalittico», dichiarando altresì di «dare importanza al numero». Perché non chiederci, allora, che cosa significhi codesta cabala privata? Il 66 si trova già
in Visitatori (1970-1972); l'11 nel racconto Quando s'incontrano personaggi immaginari (1946) e nei due Madrigali fiorentini (1944).
L'opera è un «gioco» («ma non è solo un gioco»), un ghiribizzo senile sulla «burla del mondo» (cfr. il Falstaff di Verdi), anzi sulla sua «illusione»; ed è insieme una beffa testamentaria, dantesco-pucciniana (cfr. il Gianni Schicchi).
Questo ectoplasma poetico promana dal Montale più caustico e meno ufficiale, fumiste e pirandelleggiante, dal sodale di Bazlen e di Solmi, cultori inesausti di orfismi e teosofismi. Non a caso Solmi è IL SOMMO (ne L'esegeta), cioè un «imperatore» rosacrociano nascostamente associato all'«imperatrice» Annalisa.
Insomma, questo Montale è, se si vuole, il Montale “cattivo” ricordato dalla Bettarini, il Montale che irride agli eredi e ai letterati che gli sopravviveranno (cfr. Secondo Testamento e E' solo un vizio che riprendono Villon, il poeta entrato a far parte della letteratura esoterista e autore dell'equivoco Testament).
Voglio ricordare ancora che la beffa testamentaria è tema già presente in Montale nei raccontini della Storia vera, quelli firmati Alastor, il “vendicatore” Spirit of Solitude di Shelley (cfr. La beffa e Tutti gabbati, «Corriere d'Informazione, 25-26 aprile e 23-24 Luglio 1952); tema ripreso nel 1963 ne La
gloria postuma
(«Corriere della sera», 29 settembre 1963, poi in Sulla poesia, p. 514), quando Montale immagina che «qualche poeta misconosciuto e ben fornito di denaro, potrebbe lasciare ai suoi eredi e alle loro discendenze l'incarico di fornire di secolo in secolo qualche bancarella italiana e straniera della più smilza ed equivoca opera sua [corsivo nostro]».

Autore recidivo di furti letterari (a cui non sfuggono neppure le sue ispiratrici maggiori, con le quali intrattiene per abitudine privatissime interlocuzioni metaintertestuali), da sempre indocile a farsi classificare nella categoria dei letterati, Montale si produce nell'elargizione di un dono talmente acido che può perfino coonestare una specie di furto legalizzato di se stesso, l'apocrifo, dico, che nulla toglie, anzi aggiunge, al senso dell'opera.
Quest'opera è costruita su una serie di nascondimenti. Tutti i nomi sono nascosti.
Dalla Cima alla Bulgheroni, a Faggi, a Zanzotto, a Rebay, a Segre, a Forti, a Sereni, a Marchese ecc., i nomi sono evocati soltanto in allusione parodica.
Ma l'opera è anche costruita su fenotesti, enigmi e logogrifi, e questo gioco verbale è spesso montato col classico meccanismo enigmistico del falso “esposto” e dalla nascosta “soluzione”. Per fare qualche esempio: all'intertesto creativo // «bugle» / «corno inglese» → Dickinson / Montale →
Bulgheroni / danzatrice //, segue l'indovinello de L'inafferrabile tua amica… // Stendhal → [Vita di] Rossini → Aria dei risi //; poi c'è l'indovinello del «ma» (Incontro), poi quello del «ma», del «se» e del «sì» (Incertezze); poi le cellule allitterative nascoste che formano il cognome BROVEDANI (Al Forte). Eppoi ci sono le citazioni e i rinvii esoterici, rosacrociani, reincarnazionisti e precognizionisti dell'«imperatrice» (Quando sarai imperatrice…), dell'«anacoreta» (Oggi è di moda), di Fourier (L'esegeta), di Leibniz (dai Principes de la nature et de la grâce e dalla Monadologia, ne Il clou), di Leone Vivante (dagli Studi sulle precognizioni, in Mortali), e le allusioni tanatologiche di Potius mori quam foedari… e di Die Fledermaus (la cui citazione musicale – che non risulta sia tratta dal Pipistrello – è di difficilissima agnizione).
Oppure ci sono i rifacimenti dell'angelologia iniziatica, con l'«angelo dei libri» apocalittico (Ap., 10, 1) che bordeggia fra mare e terra, di Nel giardino (un angelo già apparso in Lettera levantina e ne L'orto, ma così fuggevolmente che nessuno se n'è mai accorto) e con l'angelo evangelico-manzoniano (Matth., 28, 1-6), in interferenza con l'angelo della Risurrezione e con lo «smarrito adolescente» di
Riviere, nonché con il “guardiano della soglia” di Mattinata e di Die Fledermaus, già richiamato da Montale in prosa (Auto da fé, p. 136) e mai colto sul fatto prima d'ora in poesia. E potrei continuare.
Ora, tutto questo gioco feno-inter-intratestuale non può certo essere riconducibile alla Cima, o ad altri per lei, se non nelle riprese più evidenti e marcate (del tipo: «cuore d'altri non c'è / simile al tuo» di Un alone che non vedi …). Si può supporre invece che il poeta abbia operato prima in proprio e poi insieme con la Cima (cfr. il «maestro e ispiratore» di Ex abrupto), attirando lei inconsapevole (come fece con le altre ispiratrici) in una rete di cui lui solo conosceva lo sbroglio dei fili e facendola diventare vittima e beneficiaria, poeta novus amato-odiato, amato in privato, odiato in pubblico (non è la prima volta per Montale), e lasciandole infine libero campo per suggerire, variare, riprendere,
aggiungere e ricostruire («… io sono la musa e tu il cantore … Il vate è morto, evviva l'estintore») e per simulare un restauro meramente formale: quella specie di adattamento - spesso, è vero, infelice - che Isella (ma anche altri prima di lui) ha intravisto. Così concordo con Isella sull'insistita presenza
dell'infinito sostantivato tardosimbolista (una presenza che mi ha sempre inquietato), eccezionale in Montale e frequentissimo nei lavori poetici della Cima.
Dico di più. La stessa datazione delle poesie si presta a qualche dubbio (ma neanche questo è una novità, per Montale). Solo Angelo (angelo: visiting angel e visitor) Marchese può spiegare la discrepanza fra la data di composizione della poesia che lo riguarda (Al giovane critico genovese, 1976) e la data di uscita del suo libro montaliano (Visiting angel, 1977). Ma, d'altro canto, a vantaggio della Cima, il biglietto inedito di Montale a Contini su Incontro Montale della Cima
(1974), pubblicato nell'intervento di Isella sul «Corriere», contiene uno stilema ripetutamente montaliano («lieta sorpresa») che ritroviamo nel Diario postumo (la «sorpresa lieta» de La felicità). E tuttavia, ripeto, siamo ai “vivagni”, non al centro dell'interpretazione.
Intorno a tutte queste cose e ad altre, dal 1992 al 1994, a Diario postumo ancora parzialmente pubblicato, scrissi due saggi (il secondo, Ludere pro eludere, una vera e propria monografia), nei quali, pur con alcune indubbie eccedenze ermeneutiche, cercai di sciogliere alcuni nodi interpretativi ed esegetici (in questo articolo accennati) del «libricino». La monografia fu pubblicata nell'Annuario della Fondazione Schlesinger 1994 (pp. 91-221) curato da Annalisa Cima.
Anche la poesia è polvere. Per cui a questo punto, preso atto che la polemica infuria, si proceda pure a esercitare le tecniche filologiche, ma non si dimentichi il loro esito precipuo, il commento e l'interpretazione dell'opera. Insomma: l'intenzione e il senso di tutta l'operazione letteraria che vede il congegno poetico al centro, in sovradeterminazione, a scapito (in genere, ma con notevolissime eccezioni) delle singole composizioni, che sono deliberatamente degerarchizzate di valore, devono ritenersi indubitabilmente a carico di Montale, come a ragione si evince da una lunga serie di riferimenti esterni e interni all'opera.
Il poeta volle alla fine della sua vita chiudere in un beffardo e iniziatico ludibrium l'avversione che nutriva contro quel futuro che lo avrebbe veduto affatto assente (lui, abituato alla presenza-assenza), e contro il moderno e i nuovi letterati, più o meno integrati, che lo trattavano ormai da radoteur (lui, un
apocalittico), lasciando che l'ultimo spartito – a una, a due voci, e perfino per voce non sua, ma con suo beneplacito – fosse comunque cantato, con sconforto o sarcasmo, con amore o amicizia, ma sempre in falsetto.
Apocrifi, allora, o apografi? Falsi (più o meno di autore) o copie? Tutti gabbati.
Il "cattivissimo" Montale ci ha preso così in giro tutti, lettori, filologi, critici, editori, eredi primi e perfino erede ultima e dedicataria, musa illusoria e delusoria del moderno. E i tarocchi che sembravano nelle sue mani, invero le sono già stati sottratti in origine.
Ora, dei vari eredi e degli editori, io posso capire l'irritazione, ma in sede critica, converrà accettare la cosa così come Lui la volle; se non vogliamo che il poeta, di questo «parapiglia», che egli stesso  aveva previsto, nell'aldilà si diverta oltre il dovuto.
(«[…] Ma il sonno non durò anni sessantasei / e il record dell'Oasiano della leggenda / non fu certo battuto. Nel cestino / più nulla di appetibile, formiche.»)

luglio-agosto 1997


        Paolo De Caro 



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