«Un
giorno ho cambiato tutti i segni del mio codice, perché era vano»,
Massimo Sannelli a un certo punto dice in Digesto.
L’anno della svolta, dell’uscita dalla scena poetica, è
all’incirca il 2010, quando Sannelli rompe con il suo stile di
poeta ateo. Autore tutt’altro che disadorno, non ateo, non
fingitore, prende atto della distanza dei suoi versi dalla sua
autentica predisposizione: l’apparire in scena. «E il corpo è
l’uomo», come dice il Tristano
di Leopardi. Adesso un «corpo» appare pubblicamente – e apparire
è agire, per Sannelli –, e questo significa essere anche «uomo»,
un uomo dello stile, con stile. Però, quando l’apparire sembrerà
più liturgico (alla stregua di un sacerdote all’altare, di mago
operante, di performer grotowskiano), Sannelli trasformerà
l’esposizione sempre in una parodia, anche clownesca (qui a tratti
il linguaggio è duro e materiale, in qualche caso francamente
volgare); e quando la deriva comico-realistica sarà esagerata,
Sannelli la riporterà nell’alveo liturgico – e lingua e sintassi
cambieranno ritmo e suono. Di qui la difficoltà di inserire Digesto,
e lo stesso Massimo autore, in qualsiasi ruolo. Ecco perché Sannelli
insiste sul fatto che la scrittura è per lui, ora, solo un’«arte
applicata»: il momento – ritmicamente ben forgiato,
biograficamente accettato e non rifiutato – vale più della
struttura, l’operatore vale più dell’opera. La struttura,
ovviamente, vale solo per quanto possa essere agitata, resa inquieta
attorialmente, narcisisticamente e «musicalmente». Sembrerebbe
nulla di particolarmente nuovo, ma oggi è una inusualità furiosa,
aggressiva.
Digesto,
uscito lo scorso settembre da Tormena è – come scritto nella
scheda editoriale, le «Note sul Digesto»
– un «diario orale», un «monologo da palco». Un diario
aperiodico, un registro non giornaliero di annotazioni talora
inserite con spostamento inverso ma non falsato, retrodatando,
secondo il procedere rapsodico tipico di certa forma diaristica che
spesso scompagina o annulla la cronologia. Se «tutto è in tutto» è
forse il Leitmotiv
profondo di quest’opera, anche il tempo dovrà assumere un profilo
non lineare. A tradurre in atto l’idea della totalità coopera una
vocazione al sinestetico, che realizza quella contaminazione degli
ambiti sensoriali da cui si origina l’amalgama degli elementi che
affluiscono nella «espressione incoerente» e totalizzante. Il
diario di Sannelli copre quattordici anni, ed è un diario sincero e
letterario, amodale, scomposto in prosa tuttavia compostissima e che
tende a risolversi in nessi musicali, dove dietro l’apparente
spontaneità si avverte la ricerca di suoni che assumono l’esperienza
come oggetto dell’espressione. È un libro barocco («il libro
oscilla tra prose semisurreali e semibarocche», si legge nelle
«Note»), barocco – ma non concettista – anzitutto per la
perizia retorica, e inoltre per le rielaborazioni continue dei temi
del piacere, della meraviglia, della caducità, della morte. Per la
sinuosità del percorso, quasi ad ostacoli, che arriva a un punto per
vie inconsuete, in qualche caso parodiche, antisimmetriche. Per la
struttura contrappuntistica, o per la funzione di gioco, di enigma,
di catalogo delle possibilità cui talora vengono adibite le
parole-suoni. Sullo sfondo, oltre Genova, «la città barbara in cui
avvengono i fatti decisivi», sono evocati alcuni luoghi che in
qualche modo hanno segnato l’autore, e una Italia retorica – o
michelstädterianamente «rettorica» –, ridanciana pur nel degrado
nel quale bisogna «resistere», «ma resistere non è amare. Per
questo gli amori finiscono: perché
resistere non è amare
e resistere è un esercizio». Reggere dunque alle contingenze
extranaturali, sottotracce, nel libro, di figure o attributi meschini
e fallaci. Altrimenti, scarsi sono gli elementi esterni, per lo più
echi di paesaggio e di passaggi nella notte, e spazi vuoti o
minimali.
Soprattutto,
Digesto
è un «monologo da palco»: ogni modalità diegetica prevede una sua
trasferibilità e disponibilità per un utilizzo successivo,
coerentemente con l’assunto di Sannelli per cui il libro ha valore
di embrione, è l’esito di una paternità, è, allora,
l’antecedenza di un trasferimento in atti, nell’azione scenica.
Il dettato tramato di ritmo è costruito in vista degli esiti che
avrà nella sua esecuzione orale, teatrale, in altra applicazione.
Banalizzando forse, la destinazione del segno scritto è soltanto il
punto di partenza di uno stadio ulteriore, quello più conforme
dell’agire – esordio ed epilogo qui non si identificano, rendendo
così l’impressione di un consuntivo di acquisizioni anziché
quella di una sostanziale fissità che riguarderebbe anche il testo
scritto. Diversamente, per assurdo, la parola «diario» potrebbe
prendere l’accezione arcaica che designa qualcosa che non duri più
di un giorno. L’opera scritta, «il parto della fantasia» è
comunque qualcosa di «creato», che come l’essere vivente muterà
di forma e si inoltrerà verso il suo futuro, verso la propria
autonomia. La creazione – «il parto» – implica «un taglio»,
nella dialettica interezza-secessione presente nel libro, anche nella
prospettiva di una identità individuale conseguita in seguito a
spaccature e addii, al farsi oltre il proprio dark
side.
Un taglio obliquo (allusivo inoltre dell’abbandono di una certa
versificazione) marca tanto la copertina che – come una cicatrice
nera – il frontespizio, a separare il titolo del libro dal nome del
suo autore-attore, che nel tempo di questo «bestiario» si è
procurato il suo posto nel mondo: raggiunta la propria
autodeterminazione, il vero problema, ora, è «sopravvivere». «Io
dovrò sopravvivere, e questa è la ferita nuova», cioè il dover
conservare lo stato acquisito.
A
caratterizzare Digesto
interviene
uno dei sensi di questa parola, che Sannelli adotta insieme
all’accezione più usuale, cioè quella di una raccolta completa –
con esplicita allusione al Digesto
giustinianeo – dei suoi testi, dove la giustizia è qui solo
privata e si limita a sistemare quattordici anni di scritture,
omettendo il superfluo e rivalutando ciò che ha significativamente
influito sulla sua esperienza. Con riferimento alla definizione
romana di iustitia
– unicuique
suum
–, la giustizia dà a ciascuno il suo, e quindi anche Sannelli si
dà il suo, togliendosi il non suo. Tuttavia, maggiore pertinenza
sembra avere la seconda definizione di «digesto», che trattiene
alcunché di redentorio: l’autore-attore ha digerito – in termini
di assimilazione e smaltimento –, ha ponderato, e nella camera
obscura
del testo ha distrutto le sue scorie adulteranti e inarmoniche, i
titoli intermedi, i passaggi. La sua storia personale è una storia
lustrale.
Per
Sannelli l’assunto di Kerouac – «le cose veramente sentite hanno
sempre una forma» – non sempre vale. La forma è musica, «un
problema di ritmo», di «respiro», risolto in Digesto
in diversi sensi. Intanto i cinque capitoli di cui l’opera si
compone portano un titolo che rimanda alla terminologia musicale. Con
ciò, non è detto che le parole, pur essendo disposte ritmicamente,
si adeguino al determinato canone impresso nel titolo in cui sono
incluse. La ripartizione in cinque sembra contare di per sé, come
una epidermide senza la quale il soggetto – i suoi amori, i suoi
ricordi, le sue esperienze, fino alle humanae
litterae
– sarebbero ingoiati o intossicati da milioni di batteri. A questo
punto non conta il ricevuto ma il recipiente, cioè il fatto che le
parti siano cinque, e siano musicali. In fondo, cinque sono le età
della vita, si dice. L’obliqua individuazione di una identità
personale viene registrata «musicalmente» (non musica del ricordo,
allora, bensì l’armonia di una identificazione). Sannelli investe
la sua propensione musicale in ogni sillaba, «la mente corre a un
sistema di suoni, in cui si sogna tutto», l’idea deve essere
«messa in suoni», prima va soddisfatta l’esigenza prosodica, poi
vengono le idee: «la parola non è nemmeno pensiero, né
descrizione, è un rito e suona bene».
L’opera
è costellata di parole chiave. È già sufficiente riportarne
alcune. «Tutto», «tutto è in tutto», sentenza stringente,
inerente sia all’arte, nell’idea di un incorporamento
dell’eterogeneo, sia alle facoltà memoriali che consentono la
nostra identità. In particolare, nella pratica dell’arte, si
afferma l’indiscriminazione di canoni e generi, di sottogeneri e
supergeneri – nel caso di Sannelli, lo stile è un congiungimento
degli stili, cioè delle voci. Poi, l’intercalare assiduo di
«chiara-chiaro», parole dalla qualità sonora che, come altre, a
loro volta, sono come dei microelementi paragonabili al sib-la-do-si,
che è il nome di Bach e punteggia parecchie opere. «Chiara» sarà
poi il nome di donna svelato all’ultima pagina, come dire che la
musica è sogno, la musica è corpo, anche corpo sognato. Ma c’è
qualcosa oltre l’armonia che caratterizza il movimento delle frasi
che comunque si incrementano di un lessico corrente, qualcosa che
forse unisce mistica (nel senso di alchìmia) e dimensione musicale.
Difficile
allora non pensare ad Allen Ginsberg, per lo meno sotto il profilo
della ricorsività delle figure aggettivali «sacro», e soprattutto
«santo» («santo» e «benedetto» è il linguaggio, il «santo
linguaggio», «sacri» sono «i tubi dell’acqua», «è sacro il
caldo del sottotetto», «la santità riconosce i segni», ecc.), che
senza la progressione anaforica ginsberghiana sono riferite a cose
anche minime della vita; del valore biologico e non sacrale della
poesia, anzi, forse sacrale proprio perché biologico; della
successione paratattica delle subordinate. «Santo» si collega
idealmente a «beatitudine», e a «solitudine» (defilandosi, con
l’esperienza della solitudine che interdice rapporti che non più
lo attengono o trattengono, Sannelli riacquisisce la regalità su di
sé), non un solipsismo sterile, bensì valore e condizione per un
accesso sostanziale alla «vita dedicata», vale a dire il lavoro
«senza pace, senza pause», Sannelli scrive nelle «Note sul
Digesto».
Uscire dalla solitudine è anzitutto lavorare per un pubblico di
lettori o ascoltatori. E poi, tra le parole chiave, «luce», lumen,
che comprende il significato medievale di «gloria», affine alla
luce divina, in senso adorante, quasi prostrato. Ma «luce» implica
anche un essere evidente, ancora, l’apparire, il rivelare, e
inoltre essere raggio, lama di luce che trafigge: dunque, spada.
Tuttavia, forse la chiave di lettura resta il sesso, il filo che
unisce le compilazioni del diario è l’amore disperato o
irrealizzato, tanto che verso la fine non sfuggono vaghi accenti
corazziniani di Elegia
attraverso cui l’autore-attore si esprime, si espone, come a dire
l’elegia dell’impossibile possesso (più indietro: «senza amore
non sei un corpo e hai paura»), quasi gli amanti cerchino di
allontanare lo spettro – come nell’età infantile si credeva e ci si
consolava con una favola – del loro futuro incertissimo ed
evanescente.
Non
ho mai usato la parola «poeta» perché nel libro di Sannelli è per
due volte ostentatamente biffata. Del resto Sannelli anni fa aveva
avanzato una definizione alternativa alla «cosiddetta poesia»:
sarebbe cioè più pertinente parlare di «opera musicale e
biologica», oltre ogni sorveglianza razionale.
Digesto,
scheda editoriale:
http://www.massimosannelli.com/2011/07/digesto.html
BELLO.
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