Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana, a cura di Giancarlo Pontiggia, Interlinea, Novara 2009, pp. 198, euro 24.
Sapientemente
introdotto e curato da Giancarlo Pontiggia, Il
miele del silenzio.
Antologia
della giovane poesia italiana
(Interlinea, Novara 2009) è una preziosa antologia della giovane
poesia italiana contemporanea, sebbene non definitiva, senza pretesa
di assolutezza, di dittatura estetica, di valore canonico, esclusivo
o egemonico.
Per
quanto sia stato sottolineato, anche di recente, il carattere
estremamente arduo, quasi proibitivo di ogni antologia (sorta, di per
sé, di complexio
oppositorum,
di materiale prossimità e coesistenza, in uno stesso spazio, di voci
e tendenze in varia misura diverse e distinte, di un impossibile
amalgama di paradigmi), specie qualora cerchi di canonizzare, di
sistematizzare, in qualche modo di museificare una realtà multiforme
e proteiforme come quella del presente, le antologie restano
documenti e testimonianze rilevanti –
si pensi alla celebre Parola
innamorata,
curata dallo stesso Pontiggia, che segnò un ritorno al mito e al
lirismo dopo le devastazioni, i roghi forse per certi aspetti
purificatori, dell’avanguardia.
Tanto
negli introduttivi «Appunti
di lavoro»,
quanto nelle presentazioni dei singoli autori, Pontiggia è animato
da un intendimento preciso e pone risolutamente dei criteri per una
demarcazione, non certo sulla linea crociana, che identifichi la
poesia distinguendola da una pura emissione di parole graficamente
distinguentisi dalla prosa, postula indirettamente un
ridimensionamento dell’attuale e quanto mai proliferante e
affollato scenario poetico, talora, si aggiunga, dispersivo, o
rumoroso, tendenziale, ostinatamente fuori degli schemi,
ungarettistico (nel senso indicato da Umberto Eco parecchi anni or
sono). Poesia, dice Pontiggia, è riattualizzare i maestri del
passato e non vanificarne la memoria.
In
altri termini, Pontiggia valorizza quelle categorie estetiche –
tendenti di per sé a tradursi, in senso lato, in categorie etiche –
che ispirano la scelta di una veste formale come operazione in certo
modo inevitabilmente archeologica, eppure mutante e dialogante con il
presente: quali la prevalenza del senso e l’osservanza delle
strutture tradizionali, preservate e difese da quell’ormai obsoleto
spirito di distruzione e di rottura che passa sotto l’eufemistica
definizione di sperimentalismo; la riabilitazione del valore poesia
come attività non accessoria, ma sostanziale, che si commisuri con
lo spessore, le geometrie e le euritmie della tradizione mentre ne
opera la dinamizzazione nell’atto stesso del versificare,
contribuendo, a
posteriori,
a renderla – Remo Pagnanelli avrebbe detto – «memorabile»,
senza per questo configurarsi come remotissima eco del passato o
rendersi una inerte riproduzione delle forme. E insieme ponendo se
stessa, in quanto poesia nuova, poesia d’oggi, entro il solco di
archetipi riconoscibili, nei quali tanto il nuovo quanto l’antico,
e anzi l’antico attraverso il nuovo, e viceversa, si rispecchiano,
si riconoscono, si inverano, secondo quel moto uno e duplice,
progressivo-regressivo,
di avanzamento e ritorno (la métrique
absolue
di Mallarmé) che scandisce il singolo testo poetico, nella sua
tessitura versale, non meno che lo stesso divenire storico, e
metastorico, del fare poetico.
Sono
affermati, in questa antologia, la leggibilità sul sovvertimento dei
canoni, il rifiuto dell’essoterismo inteso come esibizione e
spettacolarizzazione, dell’accostamento gratuito e forzatamente
trasgressivo, dell’infrazione come regola, spessissimo adottata
quasi di necessità (troppo spesso si ha infatti l’impressione che
si ignori il fondamento delle regole prosodiche, che non si abbia
nelle orecchie quello che il secondo Ungaretti, quello composto e
classico di Sentimento
del tempo,
chiamava «il canto italiano»), una classicità non classicistica –
per nominare ancora uno dei motivi basilari che hanno ispirato la
riflessione di Pagnanelli, nonché la sua verseggiatura –
e il suo valore di influenza che paiono ancora essere il solo luogo
di consistenza possibile, di comune appartenenza poetica, di incontro
tra un passato sempre vivo e un presente che assiduamente, diceva
Dante, s’infutura.
Coerentemente
con queste istanze, sfilano in Il
miele del
silenzio i
diciotto valenti autori antologizzati (classe 1970 in avanti), dagli
stili e dagli etimi diseguali, dalle diversissime attitudini a
soggettivarsi, il cui lavoro, per così dire, di ortodossia in
progress,
benché non sia certo l’unico possibile e legittimo, è senza
dubbio degno di estrema attenzione. E soprattutto pienamente appaga
le nostre aspettative di novità, novità che, dice Pontiggia, è
tale solo nella misura in cui è in relazione all’esistenza e
all’affioramento, metatestualmente assimilato, di una grandezza
passata.
Ecco,
allora, l’oro, le terse e scintillanti contemplazioni, tese
all’eterno, di Maurizio Marota, l’onnipresente miracolo della
vita in ogni luogo e in ogni tempo; lo stile più teso, frammentato,
plurilinguistico, di Roberta Bertozzi, che si misura con gli orrori
della storia, con il peso del passato; il lirismo prezioso,
essenziale e profondo, di ascendenza luziana, eppure prossimo alla
naturalità e alla maternità, semplici e miracolose, del creato, di
Daniele Piccini; l’acceso e palpitante canzoniere amoroso, fresco e
spontaneo senza leziosità, forte di una naturalezza raggiunta con
lungo travaglio meditativo e creativo, di Isabella Leardini; l’epos,
lieve e potente come una bracciata, delle nuotatrici olimpioniche
della Germania Est, anelanti a una «purezza» esistenziale anteriore
a ogni istituzione e a ogni divisione, cantato da Vincenzo Frungillo;
l’assidua riflessione metapoetica, quasi magrelliana, tesa fino al
bianco, al silenzio, al non-detto,
alla stasi dell’aurora creaturale, di Francesco Filia; il lirismo
naturalistico ed elegiaco, tutto pervaso dal costante e ciclico
ritorno al bosco dell’infanzia, alla Hyle,
alla materia-selva
feconda e originaria, di Adriano Napoli; la scrittura composta,
fluente, riflessiva e insieme esperienziale, memore della grande
tradizione novecentesca, da Montale a Sereni a Luzi, di Andrea
Temporelli, alias
Marco Merlin; il «senso per sottrazione», fino a una essenzialità
assoluta, quasi geometrica (che fa pensare allo chosisme
di un Ponge o alla scrittura spigolosa e scarnificata del primo
Magrelli), di Mariarita Stefanini; l’estrosa, immaginifica e
surreale narratività di Federico Italiano; il lirismo dolente e
sofferto, all’interno delle lesioni che segnano la storia, di
Alessandro Rivali, ideale homo
viator
nell’«Europa delle cattedrali e della luce»; la «doglia del
creato» glorificata, in versi dalla musicalità assoluta, senza
tempo, incantata, quasi discesa da un altro mondo e da un’altra
lingua, originaria e metatemporale, di Matteo Munaretto; le città
fantasma, preziose, parnassiane e quasi surreali eppure limpidissime,
di Guglielmo Aprile; il dettato espressionistico, sismico, tuttavia
ontologicamente, quasi misticamente, fondato, di Davide Brullo; la
cristallina e nivea autoriflessione di Pietro Montorfani, studioso
cosmopolita, tra Svizzera e Stati Uniti; il lirismo sacrale e
biblico, la dialettica di materia e purezza, di greve fango da un
lato, e dall’altro di altezza, vuoto, rarefazione, silenzio, di
Giuliano Rinaldini; il «ritmo della specie», il tempo mobile, vivo,
dolente, eppure fermo, eterno, come ancorato agli archetipi di un
destino più alto, che si declina e distilla per simboli oscuri, di
Franca Mancinelli.
L’aver
assunto, come titolo del volume, un verso tratto da Il
cordone d’argento
di Matteo Veronesi (poeta del resto qui antologizzato) è
significativo del senso generale che orienta le scelte di Pontiggia.
Il silenzio non può più essere oggetto di poesia se inteso quale
sintomo, ma in pari tempo come tentativo di superamento, del silenzio
che pare avvolgere e soffocare la voce dell’io lirico, o come
bianco della pagina che rappresenti, quasi simbolicamente o
emblematicamente, l’omissione, l’aposiopesi, la reticenza, a loro
modo altamente significative come segnali tangibili del rifiuto di
ogni retorica sentimentale, di ogni troppo effusa emotività, o come
specchi ossidati di una protonovecentesca “vergogna d’esser
poeti”. Il silenzio, piuttosto, nomina l’abisso di una modernità
ormai postuma e non più penetrabile al suono, cittadina ormai del
regno delle ombre, laddove la pretesa di legittimità del paradigma
razionale nel frattempo si è gradualmente consumata. Il silenzio,
allora, è chiamato a misurare la regalità sfumata del tempo,
istante-goccia-infinito, ineffabilità e origine del suono,
dolceamara, dunque, palingenesi della parola poetica che si staglia
come estrema e paradossale speranza sulla prospettiva ultima
dell’annientamento. Come in Mallarmé (in Crise
de vers),
un «monumento in questo deserto, con il silenzio lontano; in una
cripta, la divinità così di una maestosa idea inconsapevole».
Anche se
ormai il monumentum
non è più tanto ricordo o testimonianza, quanto sepolcro vuoto,
insanabile traccia di una lesione e di una assenza.
Elisabetta Brizio
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