giovedì 30 aprile 2009

TEMPO E MEMORIA IN PROUST. SUGGERIMENTI PER UN PERCORSO INTERDISCIPLINARE, di Elisabetta Brizio

a Maria Maistrini
...quell’io che riconosco scorge talvolta
dei rapporti tra due idee, allo stesso modo
che, d’autunno, quando più non ci sono
né foglie né frutti, sentiamo nei paesaggi
gli accordi più profondi.
Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve
La vita, la vita finalmente scoperta e
tratta alla luce, la sola vita quindi
realmente vissuta, è la letteratura

Marcel Proust, Le temps retrouvé



A qualche anno di distanza dalla pubblicazione postuma degli ultimi libri della Recherche Walter Benjamin1 indicava la struttura anomala dell’opera proustiana - “risultato di una sintesi impossibile” - nella sovrapposizione, all’interno della scrittura, di “libera invenzione”, di componenti analogiche evocative e nella soppressione dei confini tra eterno e temporalità, con il conseguente approdo a una “sintassi di frasi senza sponde”, e indicava contemporaneamente come un’”opera letteraria superiore” potesse mostrarsi solo “nel cuore dell’impossibilità”2. Una scrittura rivelatoria, quella proustiana, che sorge su una infrazione sostanziale a qualsiasi norma sottesa alla narrazione (e al ruolo del narratore) e sulla svalutazione di ogni sforzo volontario - e in quanto tale fuorviante ed elusivo - del pensiero e di ogni inquadramento di carattere razionale dell’immaginazione creativa, che condurrebbero a un tipo di conoscenza logica ma non necessariamente vera, e, di conseguenza, a una forma di pseudoconsapevolezza del ricordo, come è possibile trarre da queste parole programmatiche:


Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza.
Ogni giorno mi rendo sempre meglio conto che solo
indipendentemente da essa lo scrittore può cogliere
nuovamente qualcosa delle sue impressioni, ossia
qualcosa di lui stesso e la sola materia dell’arte. Quel
che l’intelligenza ci restituisce sotto il nome di passato
non è tale. In realtà (…), ogni ora della nostra vita, appena morta,
s’incarna e si nasconde in qualche oggetto materiale;
e vi resta prigioniera, prigioniera per sempre, salvo che
noi non c’imbattiamo in quell’oggetto. Attraverso lui,
la riconosciamo, la chiamiamo, ed essa viene liberata.3


Roland Barhtes4 propone una lettura della Recherche rinunciando alla possibilità di un approdo a conclusioni definitorie, visto che il carattere inaudito dell’opera proustiana, introspettivo e metaforico, logico e analogico, “statutario e storico” fornisce un inventario infinito di ipotesi interpretative tutte legittimamente percorribili e insieme passibili di esiti parziali. In una simile prospettiva ogni progetto ermeneutico dovrà limitarsi alla “produzione di una scrittura supplementare”5, sulla base di un testo, la Recherche, definibile anche come livello precedente la scrittura, come letteratura e introduzione alla letteratura. Una anticipazione della coincidenza di avantesto e testo nella narrazione proustiana è reperibile in un saggio di Gérard Genette6 che intravede il carattere paradossale della Recherche in questo presentarsi a un tempo “come opera e come accesso all’opera, come termine e come genesi”7.

Una delle indagini possibili viene svolta da Barthes intorno al procedimento proustiano radicalmente orientato verso il rovesciamento delle apparenze incombenti sugli individui, sugli oggetti o sulle situazioni. Con la dissoluzione, nella Recherche, della classica figura del personaggio romanzesco e della sua funzionale caratterizzazione psicologica il soggetto proustiano risulta trascorrente, suscettibile di mutamento e di sconfinamento, perpetuamente in oscillazione e come tale finisce per difettare di organicità, diviene aperto a tutte le interpretazioni possibili e al tempo stesso è confinato in un ambito di scarsa attendibilità, quella che gli viene accordata dalle innumerevoli e incompatibili rappresentazioni extrasoggettive. Quello proustiano - scrive Giuseppe Raimondi – è “un popolo di figure” dai “tratti un poco fluidi, fluttuanti, incerti ma attiranti; come di un corpo intravisto in un acqua di fiume.”8

La scomparsa della identità individuale del soggetto potrebbe costituire una enfatizzazione del motivo della chiusura dell’uomo al mondo, senza altri orizzonti di senso che il proprio, tragicamente al di qua di una oggettività assoluta e mostrare contemporaneamente come la vita stessa si esaurisca - pirandellianamente - nel succedersi di una infinità di opinioni affatto individuali. Ma in Proust la sottolineatura della non assolutezza della verità - benché non del tutto marginale - pare legittimamente oltrepassabile.

Nella Recherche lo straniamento di un soggetto, rileva Barthes, può verificarsi anche all’interno di una singola opinione: è il caso di Verdurin, che parla in modo incoerente del professor Cottard, tenendo conto della stima che ne ha l’interlocutore del momento. Proust nondimeno tende ad attraversare simili casi di estrema scissione del soggetto, costringe e sintetizza l’ambito delle opinioni in uno schema di inversione attraverso cui “rovescia radicalmente un’apparenza nel suo contrario”9, non tanto allo scopo di ridescrivere il fin troppo praticato conflitto tra parvenze soverchiatrici e verità inattingibile, quanto di pervenire al riconoscimento di una “rotazione implacabile” che tutto rinvia a nuove identificazioni secondo un sistema globale di sintassi metaforica. Il moltiplicarsi dei casi di inversione, largamente documentabili lungo tutta la Recherche, ci spinge a controllare, scrive Barthes, “una forma di discorso la cui ossessione stessa è enigmatica”, malgrado a un livello più superficiale essa sembrerebbe delineare “un progetto di svelamento, un’energia di deciframento, una ricerca di essenza, il cui primo compito sarebbe quello di liberare la verità umana dalle apparenze contrarie che la vanità, la mondanità, lo snobismo le sovra-imprimono”10. Ma associare lo schema proustiano della inversione limitatamente a un discorso di smascheramento significherebbe tentare intorno alla irriduciblità del testo una soluzione comunque riduttiva, lontana anche da una più congrua valutazione di quelle che Barthes chiama “efflorescenze della forma”, esiti di una peculiarissima forma di percezione della temporalità, ovvero, meglio ancora, di “un effetto di tempo”11.

Un esatto scarto di tempo finirà per distinguere due momenti in un esemplare caso di rovesciamento. Nel treno di Balbec una signora dall’aspetto volgare assorta nelle pagine della “Revue des deux Mondes” viene scambiata dal Narratore per la tenutaria di un bordello. E una apparenza, separata da un tempo - quello impiegato dal treno per percorrere una distanza - dalla verità: nel viaggio successivo il Narratore, non più lo stesso del treno di Balbec (intanto era trascorso del tempo), viene informato sull’identità di quella signora, principessa Sherbatoff, frequentatrice assidua del salotto Verdurin. L’effetto controdeterminante del tempo, assunto non tanto allo scopo di risolvere una apparenza in verità, pare piuttosto indicativo di una situazione paradossale: quale potrebbe essere il colmo per una tenutaria di bordello? Essere la dama di compagnia della granduchessa Eudossia. O, scrive Barthes, viceversa. Di qui la sorpresa e lo stupore per qualcosa di inatteso che pervadono il Narratore in seguito a un così imprevisto rivolgimento delle apparenze: “essenza di sorpresa”, ci avverte Barthes, “e non essenza di verità”, come se un simile procedimento non possa “derivare altro che da un’erotica (del discorso)”12, da una esigenza e un invito a fruire della complicatio originaria del mondo attraverso la forma del racconto e delle sue soluzioni espressive.

Tuttavia non pare possibile limitare l’assunzione della forma dell’inversione isolatamente a circostanze particolari, dal momento che essa finisce per prevalere, nella Recherche, come essenziale scansione delle vicende mondane, come paradigma dominante indicativo di un diversamente inesprimibile scambio di identità e di ruoli, di uno sconvolgimento della caratterizzazione psicologica e della classificazione sociale, di una definizione mai individualizzante dei protagonisti, “soggetti a elevazioni e cadute ‘esatte’”13. Ha scritto in proposito Genette che “la società proustiana si conferma nella sua perpetua smentita”14. La mondanità, assoggettata a tale legge, appare incodificabile se non attraverso un incessante capovolgimento che, scrive Barthes, è insieme “di situazioni, di opinioni, di sentimenti, di linguaggi”15.

Una volta accettata la legalità del processo di inversione ogni tentativo di tradurre in termini razionali assoluti le vicende sociali o di costume o di pervenire a una impermutabile rappresentazione del soggetto è per definizione votato al fallimento. Scrive Proust, in Le temps retrouvé, che la realtà, la vita, non si possono osservare; le apparenze, “che osserviamo, debbono venir tradotte e spesso lette a rovescio, e decifrate con grande fatica.”16 La vicenda umana ha dunque un valore non intrinseco ma inferenziale, si può trarre dalla legge del rovesciamento, una legge a cui Proust finisce per ascrivere una valenza particolare: il rovesciamento vale come un sapere. Si tratta nondimeno di una forma negativa di conoscenza, che può accedere solo a una verità soggetta a continui spostamenti e derive; una forma di conoscenza volta verso uno straniamento dei significati abituali allo scopo di introdurli in un contesto sempre in corso di stabilizzazione. In tale prospettiva si verifica un superamento dei confini consueti accordati alla soggettività, in quanto, scrive Barthes, “uno dei termini permutati non è più ‘vero’ dell’altro: Cottard non è né ‘grande’ né ‘piccolo’, la sua verità, se ne ha una, è una verità di discorso”17. E contemporaneamente l’uso di una sintassi metaforica parallela si insinua nella sintassi tradizionale fino a sostituirla: la principessa Sherbatoff “è anche” la tenutaria di un bordello, perché il linguaggio metaforico, secondo Barthes mai interpretabile in un solo senso, non sancisce la soppressione di uno dei termini della traslazione. La metafora per Barthes non perviene a un significato traslato enunciabile in seguito alla eliminazione di un termine; essa attua un transfert di significato nel quale non avvengono decisive sostituzioni di significati. La metafora “si sposta sì da un termine all’altro, ma circolarmente e infinitamente.”18 Appare allora evidente come in questo caso di inversione il discorso metaforico stabilisca un istante di indifferenziazione tra apparenza e verità: nel senso che un elemento viene trasfigurato o sostituito senza per questo essere soppresso.

Dimostrata l’inconsistenza e pertanto l’improponibilità dell’ipotesi che sotto la forma del rovesciamento si potesse ancora dissimulare il progetto di una conciliazione dell’equilibrio turbato o di un attraversamento del negativismo ontologico Barthes indica come il ricorso a tale dispositivo riceva una giustificazione e una utilizzazione altrettanto profonde: l’inversione proustiana rende comunicabile una sorpresa, è una austera e tutt’altro che bizzarra ricerca dell’imprevedibile, una ricognizione della vita come inestinguibile e insopprimibile avvicendamento dei contrari. Il rovesciamento è chiamato pertanto a esemplificare - o a sollevare - “lo stupore di un ritorno, di un collegamento, di un ritrovamento (…): enunciare i contrari significa riunirli finalmente nell’unità stessa del testo, del viaggio di scrittura.”19 Particolarmente emblematico, a questo riguardo, è lo stupore del Narratore nelle pagine di apertura del Temps retrouvé, in seguito alla scoperta dell’esistenza di un sentiero trasversale che congiunge quelle due “parti” che finora gli erano parse due percorsi diversi e inconciliabili, a oggettivazione di una incolmabile distanza spirituale. Se per Barthes tale scoperta crea nel Narratore una sorpresa, per Benjamin essa finisce piuttosto per suscitare in lui “un doloroso choc di ringiovanimento”: e questo per “opera della memoria involontaria, della forza di ringiovanimento che non è inferiore all’inesorabile invecchiare.”20

La forma dell’inversione che ha dato appoggio alla complessa trama della Recherche comincia a diradarsi fino a scomparire, in uno sfondo di progressiva decadenza e dietro il riconoscimento delle cose che cominciano a finire, nel Temps retrouvé, dove avviene la fissazione dei protagonisti e sancita la loro definitività: “nella vita lasciata come una proroga” - scrive infine Barthes - essi non sono più soggetti a un differimento indeterminato, ma “prolungati, fissati (più ancora che invecchiati), preservati, e si vorrebbe poter dire: ‘perseverati’.”21

La necessità dell’impiego di un uso paradigmatico del linguaggio viene da Proust reiteratamente pronunciata nella zona centrale del Temps retrouvé come unica alternativa rimasta a ogni forma di realismo letterario, come eminente delazione - o quantomeno come pregiudiziale rifiuto - della falsità sottesa alle opere programmaticamente mimetiche e della loro arbitraria ridescrizione della realtà:

Così, ero ormai giunto a questa conclusione; che non siamo affatto
liberi di fronte all’opera d’arte, che non la componiamo a nostro
piacimento, ma che, preesistente a noi, dobbiamo, dacché è a un
tempo necessaria e nascosta, e come faremmo per una legge della
natura, scoprirla. Ma tale scoperta, che l’arte è in condizione di
farci fare, non è, in fondo, la scoperta di quanto dovrebbe esserci
più prezioso, e che di solito ci resta per sempre ignoto: la nostra vera
vita, la realtà quale l’abbiamo sentita, e che differisce talmente da quel che
crediamo da colmarci d’una così grande felicità allorché il caso
ce ne reca il ricordo vero? Me ne convincevo considerando la falsità
della cosiddetta arte realistica, la quale non sarebbe così menzognera se
nella vita non avessimo preso l’abitudine di dare alle nostre impressioni
un’espressione che ne differisce tanto e che scambiamo, dopo breve
tempo, per la realtà medesima.22

E, più avanti:

Quel che noi chiamiamo “realtà” è un certo rapporto
fra quelle sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente,
- un rapporto soppresso da una qualsiasi visione cinematografica,
la quale appunto per questo tanto più s’allontana dal vero quanto
più pretende di aderirvi, - rapporto unico che lo scrittore deve ritrovare,
se vuol concatenare per sempre nella sua frase i due termini differenti.
In una descrizione, possiamo elencare indefinitamente gli oggetti
presenti nel luogo descritto; ma la verità comincerà solo quando lo
scrittore avrà preso due oggetti differenti, ne avrà stabilito il rapporto,
analogo nel campo dell’arte a quello ch’è il rapporto unico della
legge causale nel campo scientifico, e li avrà saldati con gli anelli
necessari dello stile; o meglio, come la vita stessa, quando, raccostando
una qualità comune a due sensazioni, ne avrà liberato l’essenza comune
riunendole insieme, per sottrarle alle contingenze del tempo, in una
metafora.23

Assunto che l’esercizio letterario rappresenti la via privilegiata per distanziarsi ed emanciparsi dalla natura, il rapporto analogico, l’opportunità di leggere in una cosa le caratteristiche di un’altra, può essere, scrive Proust, “poco interessante, mediocri gli oggetti, cattivo lo stile; ma, finché non ci sarà tutto questo, non ci sarà nulla.”24

Uno dei primi a segnalare la funzione decisiva del rapporto analogico nella Recherche è stato - si diceva in apertura - Walter Benjamin, che nel ’29 indicava una eternità in Proust non come “tempo illimitato”, quanto come “tempo intrecciato”. Quello proustiano è l’”universo dell’intreccio” - scrive Benjamin - “è il mondo nello stato dell’analogia”25, irriconoscibile e indecifrabile, stravolto e implicato in quelle corrispondenze che sono di derivazione baudelairiana, ma che solo Proust ha saputo associare alla vita vissuta. In tal senso non è difficile isolare in Proust il tratto tipicamente baudelairiano della definizione dello scrittore come traduttore o decifratore delle essenze:

…mi accorgevo che quel libro essenziale, l’unico libro vero,
un grande scrittore non ha, nel senso comune della parola,
da inventarlo, in quanto esiste già in ognuno di noi, ma da tradurlo.
Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore.26

L’analogia è il luogo in cui la memoria involontaria attua uno strenuo tentativo di ringiovanimento, particolarmente nell’istante in cui, scrive Benjamin, “ciò che è stato si rispecchia nel nuovo”; e il tempo perduto non è altro che un irrimediabile rendersi conto di aver perso tempo, di un accorgersi tardivo della inconseguenza del nostro tempo passato, nonché della forza di dissoluzione del tempo:

Proust ha realizzato l’impresa inaudita di far invecchiare,
nell’istante, tutto il mondo di un’intera vita umana. Ma proprio
questa concentrazione in cui fulmineamente si consuma ciò
che altrimenti soltanto appassisce e si spegne lentamente si chiama
ringiovanimento. A la recherche du temps perdu è il continuo tentativo
di caricare un’intera vita della suprema presenza dello spirito.
Non è già la riflessione, ma la presentificazione che è il procedimento
di Proust. Egli è dominato dalla verità che noi tutti
non abbiamo tempo di vivere i veri drammi dell’esistenza che ci
è destinata. Per questo invecchiamo - non per altro. Le rughe
e le grinze sul nostro volto sono i biglietti da visita delle grandi
passioni, dei vizi, delle conoscenze che passarono da noi -,
ma noi, i padroni di casa, non c’eravamo.27

Il romanzo proustiano per Benjamin tende di continuo a restituire all’esistenza questa “suprema presenza dello spirito”, a redimere in un istante la nostra inevitabile assenza di fronte al trascorrere della vita: “lo spirito ha i suoi paesaggi, la cui contemplazione gli è concessa soltanto un attimo”28. Scrive ancora Proust:

Perché tale coincidenza tra due impressioni ci restituisce la
realtà? Forse perché allora essa risuscita per mezzo di quello
che omette, mentre, se ragioniamo, noi aggiungiamo o togliamo
qualcosa.29

Da una differente prospettiva, malgrado lo stesso presupposto dell’indagine basata sul convincimento di un impossibile accesso al risultato, Gérard Genette dimostra come nella Recherche “il passaggio dall’ontologico all’analogico, dallo stile sostanziale allo stile metaforico” costituisca “un progresso non tanto nella qualità della realizzazione estetica quanto nella coscienza delle difficoltà, o per lo meno delle condizioni di questa realizzazione.”30 Ha scritto Proust che solo attraverso la metafora lo stile diviene eterno. Ma la ricerca di uno stile - quale prefigurazione di una estetica - di cui diffusamente si parla nel Temps retrouvé, non va in alcun modo ricondotta a una esigenza di preziosità compositiva per il proprio materiale narrativo; al contrario lo stile, unica via rimasta per “riafferrare la nostra vita”, è per Proust, “un problema non di tecnica, bensì di visione”31. Solo un processo associativo o paradigmatico consente di indagare nell’essenza delle cose, di travalicarne la superficie scoprendone il significato profondo. In questo senso la metafora costituisce l’equivalente letterario della memoria involontaria, dal momento che questa, avvicinando - appunto, nella accidentalità del ricordo - due sensazioni avvertite in tempi distanziati, ne libera l’essenza comune, la corrispondenza interiore, con la differenza, scrive Genette, “che la reminiscenza è una contemplazione fuggevole dell’eternità, mentre la metafora gode della perpetuità dell’opera d’arte.”32 Successivamente Genette distinguerà nella Recherche tra metafora e metonimia (mostrando la loro reciproca integrazione), senza la quale il racconto non potrebbe aver luogo, in mancanza di quella indispensabile concatenazione di ricordi che, per quanto priva di un preciso orientamento, conserva comunque una relazione di contiguità logico-materiale e rende quindi possibile una storia33. Ha scritto Proust, sulla funzione evocativa che accomuna analogia e memoria involontaria:

…nella mia composizione, per passare da un piano
all’altro, ho semplicemente fatto uso non di un fatto,
ma di quanto ho trovato di più puro e prezioso come
collegamento; un fenomeno della memoria.34

Attraverso la scelta metaforica Proust disloca luoghi e oggetti secondo una immagine eideticamente diversa, laddove una forma di realismo letterario si arresterebbe a una definizione solo esteriore, e quindi a una ostentata falsificazione. L’ideale proustiano dello stile appare orientato verso due direzioni: a quello che Genette chiama “stile sostanziale”, che consiste nell’assimilazione in una unità profonda di tutto ciò che si presentava come diverso o accessorio, si affianca il miracolo analogico - il solo che permetta l’effabilità del ricordo -, descritto nel Temps retrouvé come il mezzo d’elezione per accedere a una realtà diminuita di tempo ma che aspira a impadronirsi del tempo in una configurazione spiritualmente intemporale.

Ammesso che in Le temps retrouvé il problema non si fondi più sulla conoscenza della realtà ma sull’arte stessa, si comprende come il passaggio dallo stile sostanziale a quello metaforico rappresenti un effettivo progresso nella percezione della sua stessa difficoltà. Come infatti conciliare il fatto che proprio la metafora, e cioè un intervento linguistico vòlto a decontestualizzare un oggetto per introdurlo in un ambito inconsueto, o, come scrive Angelo Marchese, “un caso di anomalia semantica” in cui lo straniamento condotto sulle parole “deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali”35, possa rivelarci l’essenza della realtà senza alienarla? Se infatti nella scelta metaforica è possibile riconoscere a un tempo, scrive Genette, “una rassomiglianza e una differenza, un tentativo d’’identificazione’ e una resistenza a questa identificazione, in mancanza di che non si avrebbe che una sterile tautologia, l’essenza non è forse maggiormente dalla parte che differisce e resiste, dalla parte irriducibile e refrattaria delle cose?”36 Ma per Genette è proprio l’intuizione di questa differenza che finirà per rivelarsi essenziale, come nell’accostamento Venezia-Combray.

Nella Recherche le trasposizioni metaforiche hanno luogo lungo due versanti distinti - e comunque intrecciati: quello temporale, che stabilisce nella sensazione un momento di equivalenza interiore, e quello spaziale, che non richiede necessariamente alcun istante affrancato dalla dimensione temporale. Sono le traslazioni di tipo spaziale a costituire, secondo Genette, le vere metafore proustiane. La metamorfosi - ad opera dal pittore Elstir, che fissa nella pittura il transitare degli aspetti ossimorici della realtà - del mare come luogo di indistinzione che contiene in sé anche il suo temine opposto, è il più vistoso di tutta una serie di stravolgimenti condotti sui consueti attributi del mondo oggettivo. Nelle tante marine presenti nello studio di Elstir il Narratore non poteva non riconoscere

…che il fascino di ciascuna consisteva in una
specie di metamorfosi delle cose rappresentate,
analoga a quella che in poesia si chiama metafora;
e che, se Dio Padre aveva creato le cose nominandole,
Elstir le ricreava togliendo loro il nome, o
dandogliene un altro. I nomi che designano le cose
rispondono sempre a una nozione dell’intelligenza,
estranea alle nostre vere impressioni, e che
ci costringe a eliminare da esse tutto quanto
non si riferisce a quella nozione.37

Le frequenti sovrimpressioni proustiane, realizzate, scrive Genette, attraverso una “sovrapposizione d’oggetti simultaneamente percepiti”38 ci introducono in un ambito estetizzante dove “la realtà si offre come la propria rappresentazione”39. Questa visione impone all’oggetto un esito incerto e transitorio, dal momento che se, ad esempio, il Narratore riconosce “l’ora del mezzodì a Combray nel suono delle sue campane”40, uno dei due termini dell’ identificazione analogica è destinato a disperdersi nell’altro fino a vanificarsi come fatto sensibile.

Così Proust:

La materia dei nostri libri, la sostanza delle nostre
frasi dev’essere immateriale, non presa qual essa è
nella realtà; ma le nostre stesse frasi, e anche gli episodi,
debbono esser fatti della sostanza trasparente dei
nostri momenti migliori, quelli in cui ci troviamo
fuori della realtà e del presente.41

La sovrimpressione sconfina anche nella sfera mondana, tanto che il personaggio proustiano, soggetto agli effetti del tempo, dà di sé un’immagine in cui tutti gli aspetti contrari sono simultaneamente evidenti. Non siamo più in un ordine di revocabilità o di ambivalenza; il soggetto proustiano, scrive Genette, è “una figura a più piani la cui incoerenza finale non è che la somma di troppe coerenze parziali”42, segno di una disposizione non schematica, volta alla ricerca di qualcosa di quintessenziale che sfugge a ogni sforzo razionale di individualizzazione. Ma quello che determina il verificarsi della sovrimpressione è l’opera trasformatrice del tempo, di cui la metafora costituisce il riflesso letterario. Lo stile metaforico esclude l’idea di evoluzione, è insieme forma e antiforma, forma che si edifica e che si distrugge, perché diversamente dal bergsoniano flusso di coscienza il tempo della ricerca proustiana è un avvicendarsi di momenti isolati che fa astrazione da ogni ordine logico e cronologico. Come gli effetti del tempo - scrive Genette - “si sedimentano nello spazio (…) per formarvi un’immagine confusa le cui linee si accavallano in un palinsesto a volte illeggibile”43, così, nell’ambito della narrazione, il principio compositivo della metafora dà luogo a una scrittura a più livelli, nella quale, se si distingue quello che sotto il testo risulta ancora incancellabile, sembrerebbe impossibile pervenire a una sintesi. Ma figure e significati si sovrappongono e si confondono in una complicata stratificazione per essere alla fine letti e decodificati solo in una complessissima prospettiva unitaria che impone uno statuto di univocità a tutte le presunte incoerenze: a condizione di saper leggere nelle alterazioni che accadono nel corso del tempo. Perché rileggere Proust - scrive Giacomo Debenedetti – “significa anche mettere a confronto noi con noi stessi; i noi di allora con ciò che il logorio e l’edificazione, i disastri e i risultati di molti mutamenti hanno fatto oggi di noi.”44
Un itinerario arduo è anche quello verso la salvezza alla quale, secondo Mariolina Bertini45, Proust tenderebbe attraverso lo svolgersi distinto e parallelo della metafora e della decifrazione indiziaria. La poetica sottesa al Temps retrouvé, dove compaiono quelle scelte di carattere pre-testuale che costituiscono la premessa estetica e ideologica a una ipotizzata opera a venire, è orientata verso “una rifondazione metaforica del mondo”46, nella quale la ricostruzione beatificante e crudele del deciframento e l’illuminazione analogica convergono in eguale misura. In una disposizione, scrive Giovanni Macchia “a guardare filosoficamente quella realtà come tentativo di un progressivo avvicinamento alla verità, continuamente compromessa dall’errore e che pur conserva la sua importanza strutturale e dinamica”.47

Attraverso la decifrazione indiziaria il Narratore-scrittore tenterà una rivisitazione del passato che ricomprenda anche quei segni inaccessibili a ogni comprensione razionale, rivelatori nondimeno di una realtà ancora implicata nell’intrasparenza e nell’indeterminazione. Nella vicenda esistenziale e poetica di Proust è possibile percepire, secondo la Bertini, un significativo passaggio “dalla contemplazione dell’apparenza al disvelamento dei complessi intrecci segreti che la determinano.”48 Proust attribuisce al progetto del deciframento un insostituibile valore conoscitivo; esso figura in Le temps retrouvé come lo strumento imprescindibile per la ricerca della verità e finirà con il figurare in rapporto complementare al paradigmatico percorso delle corrispondenze. Se infatti restano separati gli ambiti in cui tali procedimenti svolgono la propria indagine, comune è lo scopo a cui essi tendono: riconquistare l’essenza del passato attraverso indizi apparentemente insignificanti, difendendo quello che altrimenti finirebbe travolto dal tempo, e indicare infine la via della salvazione nell’istituzione di un’opera a venire. Scrive Gilles Deleuze, sull’attitudine eideticamente rivelatoria dell’arte in Proust:

Il tempo ritrovato, allo stato puro, è compreso nei segni
dell’arte. Non va confuso con un altro tempo ritrovato, quello
dei segni sensibili. Quest’ultimo è soltanto un tempo che
ritroviamo in seno allo stesso tempo perduto; esso mobilita
ogni risorsa della memoria involontaria e ci offre una
semplice immagine dell’eternità. Ma, come il sonno, l’arte è
al di là della memoria: fa appello al pensiero puro come facoltà
delle essenze. Quello che, grazie all’arte, ritroviamo, è il tempo
quale è implicato nell’essenza, identico all’eternità. L’extratemporale
di Proust è questo tempo allo stato nascente, e il soggetto artista
che lo ritrova. Possiamo quindi affermare, a stretto vigore, che
solo l’opera d’arte ci fa ritrovare il tempo: l’opera d’arte, “le seul
moyen de retrouver le temps perdu”, portatrice dei segni più alti,
il cui senso è situato in una complicazione primordiale, eternità
vera, tempo originario assoluto.49

La metafora proustiana - eminente espressione di una volontà a sottrarsi agli schemi irrigiditi dell’abitudine e insieme esigenza di far sopravvivere istanti del passato defunto o di isolare momenti di autenticità nel progressivo deterioramento dei rapporti umani - interviene a scoprire il senso di una esperienza individuale e insieme collettiva. Ma se prima del Temps retrouvé l’uso di un vocabolario allusivo si imponeva in vista del dissolvimento delle certezze che la ragione e l’abitudine formano incessantemente intorno alla nostra esistenza (esigenza, questa, reificata nel sintomatico discorso figurativo di Elstir che oppone a un mondo dominato da convenzionali certezze l’insospettabile “ambiguità di un paesaggio sovvertito”50) nell’ultimo libro della Recherche la metafora tende piuttosto alla invenzione - e al delinearsi - di uno stile che attraverso l’intuizione analogica scopra rispondenze, imponga connessioni e parallelismi tra le cose e trasferisca infine nell’ambito salvifico della scrittura le resurrezioni del passato suscitate dalla memoria involontaria:

Ma, perché mai le immagini di Combray e di Venezia
m’avevano dato, nell’un momento e nell’altro, una gioia
simile a una certezza e sufficiente, senza altre prove, a
rendermi indifferente la morte?51

Eventuale lettore - sembrerebbe, baudelairianamente, dirci Proust -, forse sai già di cosa si sta parlando.
Il lunghissimo apprendistato di Proust altro non è - scrive Giovanni Macchia - che un inesausto “tentativo, una lotta instancabile (…) per ‘isolare’ il proprio io, l’io profondo, l’io di chi scrive. L’opera non poteva rimaner prigioniera della persona empirica che la produce. Bisognava cercare di separare la propria anima, ‘l’âme originale’ (…) dall’’homme périssable’ cui era incatenata”52. La decifrazione dei segni sorge dunque sullo sgretolarsi della persona del narratore che - scrive la Bertini - volgerà “contro se stesso, affondando nelle zone più oscure della propria vita e della propria coscienza, lo strumento del sapere indiziario”53, per accedere, attraverso una opzione quasi disumana, vale a dire con una cancellazione di sé come soggetto empirico, a “una sua nuova esistenza, schiusa alle voci delle cose, del passato, delle creature amate e perdute minacciate dall’oblio.”54 Il soggetto disperso in una disorganica somma di indizi tornerà alla vita, dietro le rivelazioni dell’ispirazione analogica, non più vincolato ai momenti della volontà e del pensiero, ma riemergerà unicamente come memoria destituita di individualità, che nella percezione di quello che Proust definisce “tempo incorporato”, cioè il tempo trascorso non dissociato da quello attuale, troverà la condizione affinché sia finalmente esaudibile la propria vocazione a conservare la vita, indicando ai frammenti sparsi del passato “la raffigurazione, prossima e irraggiungibile, della salvezza”55. E’ il supremo riscatto dalla nullificazione, dalla prospettiva negativista, dall’imprigionamento nell’abitudine, dalla pseudoconsapevolezza della propria vita. Si potrebbe estendere a Proust quello che Matteo Veronesi scrive sulla solitudine della scrittura, sua intrinseca predestinazone - nonché la sua destinazione estrema:

Viaggiare e “scrivere il viaggio” sono la stessa cosa,
e tanto il viaggio quanto la sua trasposizione letteraria
sono come esili fili sull’abisso e sul mistero della morte.
E lo spettro dell’inutilità, dell’anonimato, dell’annullamento
si proietta su tutta l’avventura esistenziale e creativa
dell’autore, anzi su di una esperienza vitale che si risolve
totalmente, con una sorta di rivisitazione, in chiave tragica,
del mito decadente della vita come opera d’arte, in
esperienza letteraria.56

E se la decifrazione di segni si pone come obiettivo una interpretazione del tempo perduto, l’obliquo percorso della metafora si preoccupa di redimerlo attraverso l’arte, di trarlo dall’abbandono e dalla inautenticità, in una parola: di mantenerlo. Di sottrarlo a quell’abitudine - o Abitudine - la cui funzione, come indicava Samuel Beckett nel 1931, “è appunto quella di nascondere l’essenza - l’Idea - dell’oggetto nelle nebbie della concezione, anzi della preconcezione.”57

Come scrive Proust, esemplarmente:

Il mio compito era, dunque, quello di restituire
ai menomi segni che mi circondavano (I Guermantes,
Albertine, Gilberte, Saint-Loup, Balbec, ecc.), il loro
significato, che l’abitudine aveva fatto loro perdere
per me. E, quando avremo attinto la realtà, per esprimerla,
per conservarla, 58 noi dovremo ripudiare ciò che
differisce da essa e che ci vien portato di continuo dalla
acquisita velocità dell’abitudine.59

Quanto, di queste parole, potrebbe distanziarsi o identificarsi con lo spirito del famoso ritratto di Proust60 che eseguì Jacques-Emile Blanche?

Elisabetta Brizio

Macerata, dicembre 2008


Note

1). W. Benjamin, “Per un ritratto di Proust” (1929), in Avanguardia e rivoluzione, tr. it. Einaudi, Torino 1973.
2) Ibid., p. 27.
3) M. Proust, Contre Sainte-Beuve (1971), tr. it. Einaudi, Torino 1991, p. 3.
4) R. Barthes, “Un’idea di Ricerca” (1971), "aut aut", 193-194, gennaio-aprile 1983.
5) Ibid., p. 138.
6) G. Genette, “Proust palinsesto” (1966), in Figure I. Retorica e strutturalismo, tr. it. Einaudi, Torino 1969.
7) Ibid., p. 57.
8) G. Raimondi, Qualche suggestione su Proust, “Letteratura”, n. 36, novembre-dicembre 1947, p.22.
9) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 137.
10) Ibid., p. 138.
11) Ibid.
12) Ibid., p. 139.
13) Ibid.
14) “Proust palinsesto”, cit., p. 53.
15) “Un’idea di Ricerca”, cit. p. 139.
16) M. Proust, Il tempo ritrovato, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 228 (da ora in poi Tempo).
17) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 140.
18) Ibid.
19) Ibid.
20) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
21) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 141.
22) Tempo, p. 212.
23) Ibid., pp. 220-221.
24) Ibid.
25) “Per un ritratto di Proust”, cit. p. 37.
26) Tempo, p. 222.
27) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
28) Tempo, p. 377.
29) Contre Sainte-Beuve, cit. pp. 105-106.
30) “Proust palinsesto”, cit. p. 41.
31) Tempo, p. 227.
32) “Proust palinsesto”, cit., p. 37.
33) Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), tr. it. Einaudi, Torino 1976.
34) “À propos du style de Flaubert”, in La Nouvelle Revue Française, I gennaio 1920. Cito
da “A proposito dello stile di Flaubert”, introduzione a G. Flaubert, L’educazione
sentimentale
, Newton, Roma 1972, p. 22.
35) A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Mondadori, Milano 1978, p. 189.
36) “Proust palinsesto”, cit. p. 42.
37) M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 438.
38) “Proust palinsesto”, cit., p. 45.
39) Ibid., p. 46.
40) Tempo, p. 221.
41) Contre Sainte-Beuve, pp. 110-111.
42) “Proust palinsesto”, cit. p. 50.
43) Ibid., p. 47.
44) G. Debenedetti, Rileggere Proust e altri saggi proustiani, Mondadori, Milano 1982, p.
11.
45) M. B. Bertini, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust, Feltrineli, Milano 1981.
46) Ibid., p. 48.
47) G. Macchia, L’angelo della notte. Saggio su Proust, Rizzoli, Milano 1998, p. 145.
48) Redenzione e metafora, cit. pp. 30-31.
49) G. Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1967, pp. 46-47.
50) Redenzione e metafora, cit. p. 9.
51) Tempo, pp. 197-198.
52) L’angelo della notte, cit., p. 141.
53) Redenzione e metafora, cit., p.13.
54) Ibid., p. 64.
55) Ibid., p. 65.
56) M. Veronesi, Oriani e la solitudine della scrittura, “Studi Romagnoli”, LIV, 2003.
57) S. Beckett, Proust, tr. it. Sugar, Milano, 1978, p.35.
58) Corsivi miei.
59) Tempo, p. 229.
60) Cfr. in proposito G. Macchia, “Il ritratto di J.- E. Blanche” in Proust e dintorni,
Mondadori, Milano 1989.


Libri di e su Proust:


http://www.webster.it/c_power_search.php?shelf=BIT&q=proust&submit=Invia?a=328366

domenica 26 aprile 2009

FRAMMENTO SULLA TRADUZIONE

"Più sedative le ore che dedico al mio annoso tentativo di tradurre il Cimitero marino, tela di Penelope che faccio e disfaccio con una delizia mai stanca, accanito per ore sulle varianti d’un solo verso, senza decidermi di escluderne una sola:

Mare che ogn’ora sei uno e diverso…
Mare che non ti sazi di rinascere…
O tu che sempre rinnovelli, mare…
Mare, che ad ora ad ora ricominci…
Tu che rinasci ad ogni istante, mare…
O mare, infaticabilmente nuovo…
Mare che in ogni flutto ti rinvergini…
Mare, perpetuo moto, eterno inizio…
Mare, principio eterno, eterna fine…
Mare, incessante, pullulante palpito…
La mer, la mer, toujours recommencée…

che è l’ironico uovo di Colombo con cui concludo di solito, lasciando il verso perfetto com’è…".

(Gesualdo Bufalino, da Tommaso e il fotografo cieco)


Già, il "sole ogni giorno nuovo" di Eraclito (e proprio il Valéry del Cimitero marino inveiva contro il "crudele Zenone", eleatico uccisore del moto), il sole
"alius et idem" di Orazio, la "pulchritudo tam antiqua et tam nova" di Agostino, la primavera pascoliana che lascia nell'aria, anzi nel sole, "qualcosa di nuovo, anzi d'antico", il mare "vasto e diverso e insieme fisso" di Montale, infine la dialettica di ipse e idem in Ricoeur...

Tutte mobili, vivide e cangianti icone di una fissità che sempre diviene e si
trasforma, di un tempo che torna su se stesso nel suo apparente mutare, nel suo "delirio d'immobilità".

Così è anche delle nostre vite.

L'eternità è un istante, è stato detto. Figuriamoci poi la nostra vita, che è un lampo in quell'eternità, il volo repentino di un rapace in una stanza illuminata, una goccia nel mare o un'ala nello stormo... Un istante in un istante, una goccia infinitamente specchiata e scomposta in una goccia.

E la traduzione, che è di per sé una "gaia scienza", un'ars ermetica ed
alchemica, una disciplina malleabile e rigorosa della variabilità, dell'incertezza, della sfaccettatura, della polisemia, dell'ambiguità, della varietà, del mutamento, si muove e vive proprio in questo spazio intellettuale ed ontologico dell'impermanenza e dell'indeterminazione.

Nessuna traduzione è esatta e definitiva; tutte le traduzioni di uno stesso testo prima o poi diventano esse stesse leteratura e storia, paiono obsolete e superate, divengono lontane da noi come noi dal noi stessi di un tempo. Anche il testo, come il mare, il sole e noi stessi, è "toujours recommencé".

Proprio in questa misura, un po' angosciosa, di mutevolezza, di precarietà, in questo perenne mutare pur conservando intatti ed intangibili una sostanza, un noumeno comunque in se stessi indefinibili - più che nel loro presunto valore eterno ed immutabile - i classici sono davvero specchio di noi stessi, del nostro esistere, del nostro sentire, del nostro patire.


M. V.

lunedì 20 aprile 2009

GIAMPAOLO SQUARCINA, Poesie

La poesia di Giampaolo Squarcina (rivelatasi oltre un decennio fa con due plaquettes in cui un ritmo e una sonorità montaliani veicolavano una percezione temporale ed esistenziale cangiante, sofferta, eppure sorretta da un fondo di costanza, da una sotterranea ricerca di perennità e assolutezza) è nel frattempo rimasta lungamente avvolta nel silenzio e nell'ombra.

Eppure non ha taciuto, ha continuato a germinare e a ramificarsi nelle tenebre feconde di un'officina appartata e segreta - e proprio per questo, forse, più autentica.

Una ricerca espressiva, quella dell'autore, che dopo il romanzo Diazepam (stilisticamente vivido, tumultuoso, sismico, ribollente, e ideologicamente teso nella critica delle perversioni e delle storture della società postmoderna e tardocapitalistica) sembra aver ripiegato verso una ricerca di purezza, di limpidezza, di autenticità, da ricercare attraverso l'apparente, astuta neutralità e naturalezza, lo studiato ed artificioso “puro vedere”, dell'immagine fotografica da un lato, la scrittura in esperanto (lingua naturale, razionale, letterariamente vergine - eppure cólta, riflessa, studiata, meditatamente architettata) dall'altro.

Ma nel contempo, come si diceva, neppure la poesia in versi, la poesia propriamente detta ha del tutto cessato, nel suo laboratorio, di prendere forma ed articolarsi. Anzi, come documentano i preziosi inediti che qui riproduciamo, essa si è sviluppata (anche grazie alla raffinata cultura e alla sottile perizia fabrile che all'autore derivano dalla sua formazione di filologo romanzo) in ricercate, profonde e ramificate strutture combinatorie e neometriche.

“A chi 'l morire è grave / ogni momento è morte”, dicono due versi di Battista Guarini, riportati come explicit della raccolta Gli elementi (versi, per inciso, quelli del Pastor fido, modernissimi, che instillano nella musicalità lieve e trasognata di un'Arcadia di puri suoni il senso dolcemente lancinante, il soave veleno, di un quasi esistenzialistico “Essere per la morte” a cui, con tragico paradosso, solo la morte, non più illusoriamente procrastinata e stornata, potrà porre fine: “Altro mal non ha morte / Che 'l pensar a morire. / E chi morir pur deve, / Quanto più tosto more, / Tanto più tosto al suo morir s'invola”).

Una raccolta, quella di Squarcina, che in effetti, nella sua sapiente e rigorosa struttura combinatoria (che richiama in modo evidente il Levi sottile ed estroso del Sistema periodico), sembra voler esorcizzare, nel momento stesso in cui li raffigura, e anzi li ricalca e li riecheggia nel ricorsivo, quasi ipnotico inanellarsi dei componimenti, il ciclo fatale di vita e morte, origine e disfacimento, la vicissitudine perpetua della materia che (da Lucrezio a Foscolo al Valéry del Cimitero marino) “torna alla materia”, ultimata la sua breve vita, il suo effimero e transeunte progetto di forma organica e vivente.

Gli elementi – i primordia, i semina rerum – che diedero, con le loro musive connessure, origine alla vita, sono gli stessi in cui i corpi viventi dovranno presto o tardi disgregarsi e disperdersi. E il linguaggio poetico, con le sue “alchimie”, le sue combinazioni, le sue aggregazioni, le sue callidae iuncturae (le sue, direbbe la linguistica di Tesnière, “valenze” e “saturazioni”, non dissimili da quelle che regolano le congiunzioni degli atomi a formare le molecole e le reazioni - le simpatie e le antipatie avrebbero detto gli alchimisti - delle molecole e degli elementi fra di loro) riporta la vita dei fenomeni e dell'espressione alla sua tenebrosa origine - alla sua oscura, e insieme luminosissima, matrice.

Ma natura e matrix è anche, per antonomasia, la Donna, la Femmina, tiepida ed accogliente, avvolgente ma anche minacciosa (l'”orrido borro”, la cavità oscura in cui smarrirsi, del Dante petroso, la rosa tentatrice, ammaliante e narcotica delle allegorie medievali). Colei che dà la vita dà anche, indirettamente, la morte. Ogni creatura uscita alla tremula luce dell'esistere trova nella sua mortalità, nella sua caducità e finitezza, la propria condizione essenziale e insieme esistenziale, la propria sostanziale possibilità, sempre imminente – e, insieme, la propria più ineluttabile certezza.

“Cavat lapidem gutta”: “le temps coule”, dice Verlaine, fissando il picchiettare, il percolare, uno dopo l'altro, degli istanti la cui fuga inarrestabile logora ed erode l'esistenza come la goccia la pietra.

Nello stesso modo, con la stessa voce amaramente roca o disperatamente gioiosa, nello stesso assolato, sfuggente deserto, gridano, come gli antichi profeti, vita e morte: “pariter vita morsque clamantes”. La morte è, come in Montale, "morte che vive" - se non, come in una fosca figurazione secentesca, "obitus ridens", "morte che ride". E "l'impresa del mondo è un'esuvia": una exuvia, cioè traccia, testimonianza, ricordo - e insieme "spoglia", resto, abbandonato detrito che tutto il teatro del mondo è destinato a divenire, in cui ogni vita e ogni vicenda sono infine votate a mutarsi.



M. V.






Da Gli elementi


IDROGENO

Qui la materia vibra lentamente
in semplice addizione d’elettrone.
Da vasta immane d’alcol profusione
di nuovo ad elemento, per calore;
ed un momento dopo padre, complice
l’accoppiamento a due diverse madri,
di nevi e mari, d’alma immensa pioggia.


PLUTONIO

Dal ventre incandescente del tumore
calore baleno fragore
-poi niente;
la Russia Bianca un veleno-pulviscolo
(più dolce sparso fiele che ad Hiroshima);
ed il nero ha qui forma di luce,
come di notte vista in negativa.
I tornati incuranti lo respirano:
non c’è viaggio che compensi la morte.


Cernobyl 26-IV-1986/26-IV-1996


Da La soddisfazione


nel carcinoso bosco
come ad orto conchiuso
l'accesso negato a più remote zone;
a goccia a goccia (cavat)
l'erosione verso scavi dismessi
a infruttifere vene
di riarsi giacimenti. (lapidem)
L'inedibile stillato dei sensi
l'orlo che non si sfalda
la chiara vista di radure mediane
sovrabitate dalla Carne. (gutta)
L'impresa del mondo è un'esuvia
oscillante nel vento che trasporta.


(intermezzo)

Lasciata la speranza resta il sogno
più comoda dimora del peccato
che potremmo non avere pensato.
Vieni conformami Madre del Nero
oscena sconcia quanto ti desidero:
è breccia d'argilla il corso del piede
su dirupi entro cui mi precipiti.
-dell'attimo di scivolo nel vuoto
-dell'attesa di un altrove di carne

-di questo si vive. Del poco altro
pure si scorda il nome.


(esperimento del vero)

in antichi poemi di rose la cifra del male
che non trasporti a notazione nota;
-le varianti atterriscono se n'eleva
il novero le costanti
-semplicemente non sono-
né posseggo sedimento di scavo di senso dove
attingere quale
vena forare
ricomposto
adesso?
né ho convivi da allestire
solo zolle da occupare
sum obitus ridens -pariter vita morsque clamantes.

martedì 31 marzo 2009

LA VOCE IMPOSSIBILE. MINIMO OMAGGIO A REMO PAGNANELLI

Iniziamo, con questo pregevole e partecipe profilo di Remo Pagnanelli, poeta e critico marchigiano prematuramente e tragicamente scomparso (profilo redatto da Guido Garufi, che con lui condivise anni di appassionata militanza culturale), quello che vorrebbe essere un discorso circa l'identità culturale marchigiano-romagnola, le cui radici affondano nell'humus della cosiddetta "scuola classica" sette-ottocentesca, e che ebbe in certo Leopardi la sua eredità e il suo esito più alti e duraturi. Un classicismo, o meglio una classicità, che pure, al pari della pur modernissima coscienza poetico-critica di Pagnanelli, esploravano le cave e risonanti profondità della terra, dell'origine, del primordio, dell'Heimat, del Grund fondato sull'Ab-Grund, dell'epifenomeno che lascia intuire, se non vedere facie ad faciem, l'oscurità del gorgo e dell'intreccio di vita e morte, genesi ed annientamento, che vi sono sottesi, ed inesplicabilmente, enigmaticamente lo sorreggono.

Negli Idilli di Mosco prima Virgilio, poi Leopardi trovavano il suono, la voce stessi della natura, la sua vitalità assidua, sorda, fonte e ragione ed esito di se medesima, perennemente fasciata dal silenzio, o da una cortina di soffi aliti e sussurrii levati poco al di sopra della quiete assoluta, imperturbata, ultima e prima: "Allor sicura, e salda / Parmi la terra, allora in selva oscura / Seder m’è grato, mentre canta un pino / Al soffiar di gran vento", come pure l'onnipresenza arcana, cupamente risonante, della morte che pervade il grembo stesso della natura, la fibra sostanziale dell'esistere, dell'essere nel mondo, il severo monito fatale dell'et in Arcadia ego: «in tuon lugùbre / Or vi dolete, o piante; or vi sciogliete, / Oscure selve, in teneri lamenti». La voce della natura può cullare il sonno («saepe levi somnum suadebit inire susurro»), allontanare con un velo di suoni lievi e di ineffabili mormorii il fragore doloroso del tempo e della vita - ma può anche preannunciare, ed accompagnare, l'ombra della morte. E la parola del traduttore-esegeta-ricreatore, del poeta-critico, la tensione espressiva del discorso critico-creativo, discendono fino al cuore di questo luminoso mistero naturale, di questo innato "mistero in piena luce", assecondando le vie tortuose ed opache del linguaggio.

In questa meditazione della morte, in questa ininterrotta variazione su un quasi-silenzio, su una sorta di latente ed ascoso "rumore bianco", risiede forse l'essenza stessa di ogni moderno classicismo, la matrice di quel "desiderio vano de la bellezza antica" che ne sta alla base e lo motiva. Non a caso, su «Hortus», nel dicembre dell''87, Pagnanelli accennava, a proposito della matrice profonda dei poeti marchigiani, eredi (lo volessero o meno) di Leopardi, per ragioni storiche non meno che paesaggistiche, a un "classicismo non classicista", aperto all'ascolto della parola poetica come Voce dell'Origine, alla possibilità di un ritorno della, e alla, antiqua Mater, di una «risurrezione tragica della Madre Morta», di «una riemersione del sacro, pur nell'alveo dela materia», senza uscire dunque dalla matrice del linguaggio, e perciò da una sorta di storicità trascendentale, definita per via di continuità e di eredità diacroniche e nondimeno tesa ed ancorata a valori superiori, ad invarianti adamantine (si pensi allo Scataglini di Rimario agontano e di El Sol, che nel suo eruditissimo, e insieme popolare, comune ed universale, vernacolo, nella sua lingua vergine, e insieme satura di tempo e di memorie, ascolta il «sussurro del niente», «el senso inaudibile», il «recesso mentale / d'una domanda elusa»).

Pagnanelli stesso - pur "assolutamente moderno", vicino alle correnti più vive del dibattito ideologico e metodologico contemporaneo, e anzi sostenitore fino alla morte, fino al sacrificio, fino ad una disperazione tesa, fiera ed eroica, di un ideale di rigore metodologico e di coerenza etica e culturale inj un'era dominata dall'effimero, dal vano, o da un tecnicismo e da una professionalità gelidi, disanimati, inumani - non fu lontano da questo spirito: lui che, nei postumi Preparativi per la villeggiatura (quasi un lucidissimo e raggelato testamento spirituale), cantava la «mitezza limbale / di un eterno e immoto volto», il «sonno senile d'un soffio d'acqua / la cui voce tace»; lui che, in veste di critico (ad esempio in Sereni: il silenzio creativo, «Punto d'incontro», VIII, 1986, n. 10), sapeva captare e fissare sulla pagina tutte le risonanze e i perturbanti chiaroscuri della lacaniana beanza, della defaglianza, del Vide mallarmeano, della sereniana "vacanza", insomma della ferita e dello iato ceh dividono, in modo lacerante, la parola dall'essere, e il soggetto da mondo - e «fissare costantemente», sulle orme del suo Sereni, «il colore del vuoto», «toccare e alitare il silenzio» con l'ala della poesia (come con le oraziane e foscoliane «fredde ali» della morte) - infine opporre, almeno fino a quando gli fu possibile, o ebbe ai suoi occhi ancora un senso, un'amara e distante ironia, scevra di false certezze o consolanti illusioni, alla fissità gelida e tentante della disperazione e del nulla.

Non è casuale che Paganelli abbia trovato prima un amico, poi un interprete fedele e simpatetico, in Guido Garufi, che nel suo luziano Canzoniere minore scriveva, cogliendo l'essenza del messaggio, della testimonianza, del testamento che la parola poetica si ostina a gettare verso la posterità: «Con timidezza e con pietà / la lettera brilla dalla pagina / con l'augurio di una voce impossibile / lascia il segno lo scriba». Proprio questa "voce impossibile", che continua a risonare, e per così dire a risplendere, dall'opacità e dalla bruma di un'era disattenta ed immemore, ancora ci parla e ci parlerà, attraverso il prisma e lo schermo, multiformi ed amplificanti, della sintonia intellettuale ed umana e dell'impegno ermeneutico. Nemmeno la morte può spegnere questo mentale, tormentoso scintillio. Anche i frantumi di uno specchio continuano a papitare di luce, come suggeriscono i versi di Un posto di vacanza, il poemetto di Sereni tanto caro a Pagnanelli. «Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli».

Con lucidità e chiarezza, senza orfismi specialistici, Garufi coglie il duplice nesso (a sua volta, per così dire, ravvolto e ripiegato su se stesso), di vita e letteratura da un lato, poesia e critica dall'altro, e in parallelo. Poesia e critica legate l'una all'altra perché entrambe specchi dell'esperienza esistenziale; vita che si specchia nella letteratura, e viceversa - e l'una e l'altra, insieme, nel prisma della riflessione metaletteraria.

Nell'era della superficialità, dell'effimero, dell'insensatezza (nel tempo della povertà, diceva il filosofo), e, anche nel campo degli studi umanistici, del tecnicismo vuoto, dell'erudizione insensata, del conformismo metodologico, dello spesso pretestuoso apriorismo ideologico, Remo pagò questo suo impegno raro e vitale con l'estremo sacrificio. Sotto certi aspetti, si può dire senza eccesso e senza retorica che fu un martire (proprio nel senso di "testimone", di portavoce e di incarnazione di valori perenni in un'era bestialmente avvinghiata, direbbe Nietzsche, al "piuolo dell'istante").

Come Michelstaedter, come Pavese, come Bianciardi, come Giorgio Cesarano. Martire dell'autocoscienza, dell'impegno, della sollecitudine pensosa, della devozione alla Parola che salva e redime (anche a prescindere da qualsiasi prospettiva religiosa nel senso tradizionale e confessionale). Continuare a rievocare e a far risuonare le sue parole è un modo per prolungare ostinatamente questa sua testimonianza, questo suo martirio - a protrarre e perpetuare indefinitamente la sua vita nel momento stesso in cui si prolunga, in qualche modo, la sua morte, così satura di significati e di enigmi.

M. V.





Remo Pagnanelli. Il ruolo della poesia



Nel panorama del secondo Novecento Remo Pagnanelli rappresenta indubbiamente un punto di riferimento significativo sia nell'ambito della poesia che in quello più generale della critica letteraria.

Un grande lettore di testi, un lettore trasversale si potrebbe dire, proprio nel senso che i suoi interessi abbracciano territori eterogenei, da quelli più strettamente critici e storiografici, al campo della filosofia e dell'ermeneutica. Ed è proprio in tale direzione che si può leggere l'unicità della figura di questo autore.

L'accanimento frenetico, la curiosità, l'empatia nei confronti della scrittura, costituiscono per Remo Pagnanelli un'asse e un orizzonte fondamentale, fin dai primi studi, a partire da una importantissima monografia su Vittorio Sereni del quale fu amico.

Vita e letteratura, diario giornaliero e pagina, si intersecano in modo vitale e indissolubile, il pensiero dominante della funzione del ruolo della poesia e del poeta, la riflessione "politica" sulla stessa genesi e funzione del testo (in questo senso, appare eccezionale il contributo critico della monografia pubblicata per Franco Fortini).

Insomma, chi ha conosciuto Remo da vicino, conosceva questa doppia valenza, questa doppia forza che agiva costantemente in lui, incessantemente. E proprio dentro questa dinamica di incessante movimento e metamorfosi si deve leggere Pagnanelli.
Non a caso, insieme ad alcuni amici marchigiani, è uno dei promotori, verso la fine degli anni ‘70 e metà degli anni ‘80, di convegni e di meeting. Fonda, insieme a Guido Garufi, la rivista di critica letteraria " Verso”, all'interno della quale giungono contributi importanti. Se si scorrono i titoli dei numeri, ci si accorge immediatamente da quale "scuola " provenisse il suo modo di operare, un modo che vorrei chiamare "umanistico": la rivista non era una semplice collazione di recensioni ma, al contrario, in ogni numero, dibatteva un tema monografico, come ad esempio il tempo, la storiografia, la traduzione, il grande stile.

Il che la dice lunga sul suo modo di intendere la poesia e, più in generale, quella che per comodità viene chiamata attività letteraria : una sorta di "problema", vale a dire un "oggetto" intorno al quale parlare e dibattere, un oggetto importante, non un insignificante dopolavoro o una semplice ricreazione. Una serietà, allora, nell'affrontare i testi, nell' approcciare i problemi. Le griglie critiche che Remo Pagnanelli usa nei suoi studi sono, come le sue letture, griglie polivalenti, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, dall’ estetica alla critica stilistica e simbolica.

Manca, nell'attuale panorama italiano, un critico di questa caratura. La poesia procede dalla prima piccola plaquette Dopo fino a Preparativi per la villeggiatura, pubblicato postumo e dedicato al suo secondo grande amico, Giampiero Neri.
Elemento strutturante di tutte le raccolte è una sorta di domanda, che sta tra invocazione e dialogo con una mancanza, non con una assenza. In una parte delle raccolte il "tu" dei poeti è una donna alla quale non viene destinata la funzione liberatoria o cristòfora, come accade di leggere per esempio in Montale, quanto una sorta di dissolvenza e nebbiosità e struggente elegia presente invece nel "suo" Sereni.

Da questa partenza che produce una inversione apparente dello Stilnovismo, Pagnanelli procede nelle altre raccolte concentrandosi sul tema del tempo e dell'oltranza, di un altro mondo che tuttavia lascia, o meglio imprime, forti "rispecchiamenti" nella geografia naturale, con grande preminenza, anzi con imperativo primato della simbolica dell'acqua (si può notare la foltezza della citazione acquatica, dal fiume alla lacrima, fino al "fondamentale" mare).
C'è in Pagnanelli questa sorta di mitologia della "vacanza", o euforia della vacanza, di labile derivazione adorniana, ma, in verità, lascito centrale, ancora, del "suo" Sereni, ad esempio quello che scrive quel famoso verso-emblema:“ solo vera è l'estate".

Pagnanelli è come se volesse trovare nella natura una ragione, una “ numinosità”, per usare un suo termine, e in qualche modo tenta questa strada, tenta cioè di scovare il linguaggio della natura. Si deve leggere, a tal proposito, un importante contributo critico sul tema poesia-natura in Leopardi, un piccolo e concentrato saggio di altissima penetrazione che certamente chiarisce o comunque fornisce una lente adeguata per la ulteriore lettura delle sue raccolte.

Non a caso questo paesaggio e questa natura si animano di segnali e forze misteriose, di voci, di "entità", tutti elementi attraverso i quali si tenta il recupero di una qualche metafisica che Pagnanelli distende o meglio articola sul paesaggio. Ad una lettura più attenta si può scorgere come questa attenzione derivi, per chi lo ha conosciuto e per chi ha letto i saggi critici, da una pluralità di testi teorici anche di area teologica, che in qualche modo costituiscono una "energia" riflessiva che poi si traduce nei versi. In numerose interviste ha dichiarato che il "poetare" è molto vicino al martirio, proprio nel senso radicale ed etimologico. La poesia è testimonianza, è agonistica e antagonistica, è, come andava ripetendo ancora da Sereni, un "organismo vivente". Non si creda tuttavia che l'antagonismo di cui si parla sia semplicemente da includere nello stretto perimetro di una dialettica tutta interna al fatto letterario, quanto invece, anche, dentro il ruolo che la poesia giocherebbe nel campo più generale della vita, una poesia capace di essere anche " passione e ideologia", poesia che tenga conto delle ragioni espressive e del grande e inevitabile asse semantico. Una poesia capace di "argomentare".

La rarità di questa posizione che Pagnanelli incarnò nella doppia funzione di poeta e di critico, è davvero esemplare, ancora di più oggi, dove si segnala un eccesso di "scrittura" che sembra provenire più o da un abile (ma senza echi letterari) laboratorio o, nel peggiore dei casi, da "ganci" o "pretesti" meramente tematici, una scrittura, insomma, certamente lontana da quella idea di poesia e di letteratura nella quale Pagnanelli credeva e per la quale è indubbiamente vissuto. Non tuttavia una posizione decadente, più precisamente vita che si identifica nella letteratura, ma più semplicemente, la vita e la letteratura in un unico cammino: “ nel mare allora andando in un'oscurità maggiore\ sogna l'alito di Dio e vedine la chiarità che salva".



Guido Garufi


Nota biografica

Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato nel 1955 a Macerata, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Milano, Scheiwiller, 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Latina, Di Mambro, 1985), Fortini (Ancona, Transeuropa, 1988), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (come «Alfabeta», «Otto/Novecento», «Letteratura Italiana Contemporanea»), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Milano, Mursia, 1991). Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forlì, Forum, 1981 e Musica da Viaggio, Macerata, Olmi, 1984), due raccolte (Atelier d'inverno, Treviso, Accademia Montelliana, 1985, Preparativi per la villeggiatura, Montebelluna, Amadeus, 1988), e postumo Epigrammi dell'inconsistenza (Grottammare, Stamperia dell'Arancio, 1992). II tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (Ancona, il lavoro editoriale, 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale «Poesia Aperta» Milano (1990).
II suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi, sono confluiti presso I'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze.
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della "frontiera" (come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni) che lo separava dall'utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci, con la loro immagine, di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non abbia la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio "; e proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.

mercoledì 25 marzo 2009

La città della poesia, fra terra e cielo

Riprendo qui un mio intervento apparso su "Universo Poesia" (www.universopoesia.splinder.com), il ricchissimo sito, prezioso punto di riferimento, di Matteo Fantuzzi, nell'àmbito di un'inchiesta sulla funzione e il ruolo della città della poesia d'oggi.


Non credo si possa dire che, in genere (salvo qualche eccezione: l’Atene di Pericle, la Firenze medicea, la Ferrara dei poeti estensi, che nella sua struttura, classica e insieme medievale, configuratasi dopo l’”addizione erculea”, pareva quasi riflettere il microcosmo freneticamente premeditato, e insieme manieristicamente illusivo, della Gerusalemme liberata), i poeti abbiano trovato facile accoglienza in qualsiasi struttura sociale e civile organizzata in modo sistematico e gerarchico: quasi che, emblematicamente, la peculiare “razionalità” della poesia, di cui parlava Adorno (una razionalità dinamica, fluida, proteiforme, e dunque non normativa e prescrittiva, non strumentale), potesse difficilmente adattarsi a quella, invece, ideologicamente e politicamente connotata, ed eterodiretta da finalità di controllo sociale o di esibizione del potere e dell’ordine, che presiede, in genere, ai piani urbanistici, e configura la forma urbis – il “viso di pietra scolpita”, direbbe Pavese, della città.

I poeti, dice il Corano, vagano per i deserti, e dicono cose che poi non fanno. Il pragmatismo operativo, coercitivo, a volte autoritario e violento, della “città degli uomini” mal si accorda con la “finalità senza scopo”, con l’operare incondizionato, del poeta; egli stesso, certo, a suo modo homo faber, fabbro e architetto delle parole, disegnatore della mappa inafferrabile del testo, eppure avulso da qualsiasi applicazione pratica, da qualsiasi uso strumentale o immediata applicazione: il che lo rende sospetto, se non risibile, agli occhi del senso comune, dell’opinione corrente, del sentire condiviso ed unanime, che trovano nella città, nell’agorà, la propria voce collettiva, la propria corale risonanza.

Platone ed Agostino (pur se per ragioni ideali, più che pratiche, e nondimeno legate ad un, per quanto utopistico, progetto politico, peraltro non privo di pericolose ambiguità, e non del tutto immune da possibili strumentalizzazioni autoritarie) concordano nel guardare con sospetto ai poeti: il primo considerandone l’opera copia della copia, di tre gradi lontana dalla verità, e potenziale, insidioso alimento e fomite di passioni incontrollate; il secondo scrutando con preoccupazione i velamina, i veli allegorici, in cui i poetae theologi avvolgevano i misteri del sacro, lasciandone scorgere forme fuggevoli, parziali, insidiosamente ambivalenti.

Forse la città dei poeti è ancor più astratta ed inafferrabile di qualsiasi utopia, di qualsiasi non-luogo. Una città mentale talmente immateriale, avulsa e remota da non potersi assolutamente tradurre, neppure nei sogni più veementi e più pericolosi (forse con l’eccezione del Savonarola cantore, in una lauda, di “Cristo re”, o con quella, diametralmente opposta, del D’Annunzio fiumano, e poche altre), in alcun terrestre inveramento, in alcuna realizzazione sociale e politica.

Eppure, proprio perché del tutto inutile, e anzi di fatto inesistente, o esistente – al di là del tempo, oltre, o viceversa al di qua, della storia – solo nella mente, nel’anima, nell’incorporeità intellettuale e segnica del testo, la città dei poeti è del tutto innocua, assolutamente innocente. Non la si può nemmeno incolpare di non avere agito efficacemente sul corso, così spesso iniquo e sanguinoso, della storia, per il semplice fatto che – città quant’altre mai indifesa e disarmata, seppure dal territorio sconfinato – non ne aveva i mezzi, non aveva le armi e le mura.

La poesia, diceva Montale al momento di ricevere il Nobel, è assolutamente inutile. Ma, almeno, non è nociva. Il che non si può sempre dire della – pur per molti versi utilissima, e oramai innegabilmente trionfante – civiltà della scienza e della tecnica, dalla quale la città postmoderna - ormai cablata, smaterializzata, avvolta e travolta da un pulviscolare ed insonne vortice di quanti d’informazione – è inesorabilmente e dispoticamernte dominata, risultando dunque – ma non è una novità – affatto inospite per i poeti.

Per la poesia, le città di questo mondo possono fare ben poco – ancor meno, forse, di quel quasi nulla che il poeta può fare per esse. Tutt’al più, per quel che può valere, dedicare un giorno una piazza o una via a quanti di noi verranno giudicati (a torto o a ragione: si sa “il giudicio uman come spesso erra”) più “storicamente significativi”.

Il nostro regno non è di questa terra. La nostra città è ovunque e in nessun luogo, come il Dio medievale e rinascimentale del Liber de causis, di Cusano, di Bruno. O forse, ammesso che sia da qualche parte, è qui, nello spazio sconfinato ed onniavvolgente, proteifome ed invisibile, incorporeo eppure onnipresente, della rete.

Quanto a me, le mie città sono Bologna, in cui sono nato, non ho mai abitato ma ho ricevuto una parte della mia “formazione culturale”, e Imola, in cui sono quasi sempre vissuto.

Da un lato la pianta longobarda dell’antica Felsina, con quel centro da cui si dipartono a raggiera, come gli arti difformi e contorti di un immenso, orrendo insetto, le vie principali, che potrebbero indefinitamente prolungarsi – e poi, negli irregolari ed obliqui interstizi, nelle scalene “zone”, di questa anomala ed asimmetrica centuriazione, dedali di vie e viuzze in cui, diceva l’oggi tanto bistrattato Carducci, è effettivamente meraviglioso “sperdersi pensando”.
Non proprio “città brulicante, città piena di sogni”, come la Parigi di Baudelaire – eppure essa stessa non avara, nel suo piccolo, di epifanie subitanee, folgoranti, che coinvolgono e travolgono per un attimo gli sguardi, i sensi (gli “spirti”, avrebbe detto Guinicelli): due frecce conficcate da secoli nella trabeazione lignea di un porticato; uno sportello che si apre d’improvviso, e mostra lo scorrere lutulento e derelitto dell’Aposa, lasciando brevemente trapelare all’aria e alla luce un intrico insondabile di canali sotterranei che avrebbe affascinato e frastornato anche Eugène Sue; il mercato di piazza Aldrovandi, che ammaliò, con la sua selva pastosa, quasi palpabile, fragrante e nauseabonda, di voci, odori, corpi, colori, Umberto Saba, avvezzo alla “scontrosa grazia” della sua Trieste, e desideroso di confondersi con la “calda vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”; il ghetto ebraico, in cui nacque mio padre – il ghetto, tenebrosa ed ignominiosa metastasi, angolo della città che Piero Camporesi immaginava brulicante, come la Parigi di Suskind, di odori, voci, parole, di volti lingue memorie, di storie esuli, erranti, disperse, e che ancora reca, nella sua cabalistica e criptica toponomastica, i segni discontinui e vagolanti di un sapere arcano e remoto – le schegge e i frantumi, diremmo con Kafka e con Derrida, delle Tavole della Legge.

Dall’altro lato, Imola provinciale ed opaca, sbeffeggiata da Tassoni e da Leopardi, nominata di sfuggita da Hemingway come un verde, remoto paradiso dei socialisti, gremito di alberi, di giardini e di fontane, la “zité di zent urt” stilizzata, un po’ oleograficamente, da Luigi Orsini, la “zité di mett” in cui trovò asilo Dino Campana, e di cui si incontra una menzione addirittura in Pirandello, afflitto dalla “moglie pazzerella”.

Eppure, la città dei matti sembra avere a priori esorcizzato, quasi giocando d’anticipo, ogni sussulto e ogni ombra del’irrazionale, serbando con assoluta limpidezza la centuriazione romana, fregiandosi della geometrica, idealizzante, e insieme minuziosa, mobile e viva (“i fiumi scherzano nella pianura”, dice una postilla) mappa di Leonardo (forse la prima “mappa zenitale”, noi imolesi possiamo dirlo con orgoglio, nella storia della cartografia), infine rivestendosi, con il Neoclassicismo, di una sorta di lapideo manto, di una veste e un apparato di marmi arcate scalee (certo meno sgargianti di quelli, solenni e garbati, fini e preziosi, della vicina Faenza, città molto più bella della nostra, e che non possiamo non invidiare); senza che ciò impedisca l’affiorare, di tanto in tanto, della città cristiana e medievale, nella forma ora di un capitello paleocristiano che fa lampeggiare la simbologia fitomorfa e sacrificale di un dionisismo riplasmato, ora di un portale gotico come quello, splendido e malnoto, della Chiesa di San Domenico, ora di affreschi mariani che risorgono da un polveroso intonaco, tenui, virginei e insieme scintillanti e preziosi, ora (come è accaduto, recentemente e sorprendentemente, nel tanto controverso, ma in fondo necessario, sventramento della piazza centrale) di un’antichissima sepoltura affrescata.

Le città italiane, con la loro anima una e molteplice, antica, medievale, rinascimentale, sono selve di analogie, compressioni e fusioni spaziali e geografiche di piani temporali diversi e lontani, di suggestioni disparate, multiformi, variamente codificate dal tessuto urbano e altrettanto variamente decodificabili dallo sguardo itinerante che su di loro si posa, che amorosamente le percorre e le penetra.

In questo senso (che è anche, in partenza, storico, geografico, sociale, ma che poi sorpassa e trascende tutti questi àmbiti e piani per ergersi immateriale ed intemporale), la città può essere ancora sede, dimora, e in qualche modo teatro, della poesia. Il cui tessuto, fitto di echi, tracce, memorie, tessere, simboli, consapevolmente o meno riemersi da un passato storico e insieme individuale ed esistenziale, culturale e insieme psicologico nella misura in cui la formazione e l’identità culturali, e l’eredità che le plasma, sono parte integrante e fondante dell’individualità creatrice, del complesso della persona, è, idealmente (ma in un senso evidentemente diverso da quello in cui Bukowski diceva, in versi troppo noti, che “una poesia è una città piena di strade e tombini / piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi”), una forma urbis, un volto urbano dalle mille ombre, e dalle pieghe antiche, dai sorrisi segreti e lontani, dagli indecifrabili sguardi sempre rivolti e alludenti ad un altrove.

“La creta, la selenite e l'arenaria / Di qui nasce il colore di Bologna / Nei tramonti brucia torri e aria […] A che punto è la città? / La città è lì in piedi che ascolta. […] A che punto è la città? / La città si nasconde le mani”. Così scriveva, nel veleno e nel sangue degli anni Settanta, un poeta pur ideologicamente impegnato come Roberto Roversi. La luce pura, il fuoco fervido eppure innocente della poesia scorporano la città, la elevano al cielo, la confondono con le nubi, i lampi, le parvenze cangianti e senza peso – anche nella militanza e nell’impegno. Scrive oggi Roversi, in pagine apparse su “Bibliomanie”: “Gli anni di Goethe o di Carducci sono tutti alle spalle, e non tornano più; / disperse le orme fra le onde del mare e del tempo. / Si può allora dire, come in una favola della memoria e dell’affetto, c’era una volta Felsina, Boiona, Bononia, Bologna”. “Madre che non dorme. Madre città. Antica tellus. (…) Madre città, dunque, da cui mai e poi mai dovremmo sentirci abbandonati” (http://www.bibliomanie.it/bolognabologna_roversi.htm).

E’ nell’antico e nell’eterno, sul terreno fecondo della loro intersezione e della loro fusione (nel ciclo perenne di morte e rinascita, nel “desiderio vano della bellezza antica”), che la città-poesia, il luogo-parola (forse non ancora del tutto dissolto in non-luogo indifferente e mercificabile) possono sperare di risorgere e di protendersi verso un futuro che ha ancora i confini e le forme malcerti della bruma – ma, forse, anche la luce madreperlacea e tremula di una nuova alba. “Non tanto il vincolo con il presente”, dice ancora Roversi, “un presente cupo e avido. Non con il carro del presente, ma il brivido, un brivido freddo, col nuovo mondo che, sia pure a fatica, sta cercando di comporsi”.

E – mi si perdoni l’accostamento così ardito – ogni città, nel momento in cui diviene poesia, è in fondo, con D’Annunzio, “città del silenzio”, chiusa nell’eterno sepolcro, nella quiete perenne, della parola e della pagina, che chiamano ed attendono lo sguardo sollecito, la voce interiore e spirituale, il soffio pneumatico, la caritatevole e vigile attenzione, dell’anima e della mente di un lettore. Fino ad allora, la bellezza di una città, una volta trasposta, e deposta, nel verso e sulla pagina, è e resterà una bellezza “deserta”.


Matteo Veronesi

lunedì 16 marzo 2009

Neil Novello, "Morte di un intellettuale fanciullo"

Riproduco, con il gentile consenso dell’autore, uno scritto già apparso su un settimanale bolognese, in cui veniva rievocata la figura di Riccardo Bonavita, giovane intellettuale, studioso di Leopardi e della Shoah, morto ancor giovane, di propria volontà.
“Provincia dell’essere” è, certo, anche il confine – forse più esile, precario e tremulo di quanto a prima vista non paia – fra vita e morte, luce ed ombra, razionalità e accecamento: quel confine che (con un gesto quasi sovrumano, apparentemente folle e in realtà, spesso, sovranamente e spaventosamente lucido) il suicida viola e valica. E provincia («torrido regno da cui nessuno è mai tornato», per citare il Sinisgalli dei Nuovi Campi Elisi) è la dimora stessa, esangue e diafana, dei trapassati, di chi non è più – Ade, non-visione e non-conoscenza, luogo remoto e nascosto, dominio di chi è stato orbato della luce, di chi non può più vedere, né essere visto.
Non è certo un caso che l’essenza della personalità e dell’opera di Bonavita venga còlta (con quella fedeltà che nasce proprio dall’appassionata immedesimazione, dalla soggettività creativa ed esistenziale, ben più che dall’aberrante e fuorviante miraggio di un’impossibile asettica impersonalità) proprio da Neil Novello, che tanto come poeta (in Rosa meridiana) quanto come cineasta (in Mutterland) ha fatto del ritorno all’origine, della discesa nel buio grembo delle madri, della rituale ciclica circolarità di vita e morte, di essere ed annullamento, di pienezza e privazione, uno dei cardini del suo discorso.
Né casuale è che venga avanzato, in questa pagina lucida ed emozionante, il nome di Celan, la cui celebre, ipnotica e atroce, Fuga sul tema morte fu certo uno dei testi su cui più profondamente e dolorosamente Riccardo dovette meditare. «La fine fa fede / al nostro inizio, // dinanzi ai maestri / che ci avvolgono nel loro silenzio, / nell’indifferenziato, si afferma / lo stento / lucore», si legge in alcuni di versi di Dimora del tempo, la raccolta celaniana dell’ultimo anno, edita postuma. Fine ed inizio, apocalitticamente, si ricongiungono; la voce prende forma dal vuoto, la luce esile ed affaticata trapela e si staglia dallo spettro opaco del nulla. «Scenderemo nel gorgo muti», dice Pavese, altro luminoso fantasma che Novello rievoca.
La condizione di anomia, di contrasto – di inespresso, forse represso, conflitto con la realtà e la società – che starebbe, per alcuni, alla base del suicidio finiva per avere, nel caso di Riccardo (come in quello di Michelstaedter), il valore di un profondo messaggio umano ed intellettuale: il rifiuto dell’inautentico, la reazione – nel campo degli studi – ad uno specialismo e ad un tecnicismo che rischiano di scindere del tutto la ricerca dall’impegno etico, e ideologico nel senso più alto e più nobile, trasformandola – per effetto di quella che Ortega Y Gasset chiamava la “barbarie dello specialismo” – nella mera, inerte e disanimata, applicazione di protocolli metodologici, di gerghi specialistici, di ottuse ed anestetiche categorizzazioni.
Non è causale che proprio Leopardi e gli scrittori della Shoah – capaci, l’uno e gli altri, di affondare uno sguardo lucidissimo e tagliente nell’abisso del Male, nell’«arcano mirabile e spaventoso» dell’esistenza insensata ed assurda e del dolore sacrificale proprio perché senza colpa e senza spiegazione, fino a disvelare, a presentificare e a notomizzare, in tutta la sua devastante pienezza (penso al Cantico del gallo silvestre), la condizione apocalittica e talmudica di un possibile disfacimento universale, di una possibile catartica ed onniavvolgente deflagrazione del tutto – rappresentassero, per lo studioso, un assiduo termine di confronto e di meditazione.
Riccardo pagò forse con la disarmonia, con la sofferenza, spinta fino all’estremo sacrificio, proprio il suo anelito generoso e raro alla totalità e alla complessità dell’umano, alla sintesi e alla pienezza di pensiero ed esistenza, di esperienza intellettuale e coerenza etica – in un mondo che sembra fare di tutto, in nome di una scientificità malintesa e reificata, per recidere questo vitale legame. (M. V.)




È morto Riccardo Bonavita. Con lui ho progettato, dialogato, scritto, con lui ho amato la letteratura. L’ho amata poiché con Riccardo ho litigato per la letteratura, segno che tenevamo a noi e alla letteratura. È difficile ammetterlo, ma noi e la letteratura contavamo ben poco per Riccardo, evidentemente. Per noi Riccardo doveva contare di più. Tutti noi dobbiamo contare di più. Perché noi e Riccardo siamo di più. Il suicidio di un uomo è un atto così profondamente inculturale da riflettersi culturalmente come un gesto profondamente umano. Questo dell’intellettuale fanciullo, anche. Ma Riccardo è un uomo di cultura, lo erano Michelstaedter e Pavese, lo era Celan. Il gesto di Riccardo mi ha raggiunto in Calabria, da lontano ho smesso di essere lontano ed ho iniziato a scrivere per essergli vicino. Ecco rivelata la mia e la nostra colpa: il ritardo dell’affetto. Ero in una pausa delle riprese del mio film. Appena dopo la notizia, il pensiero, evidentemente ozioso e disperato, è corso alla povera vita di un uomo che pure era passato dalle parti del filosofo di Gorizia, aveva impiegato tempo leggendo l’autore di Verrà la morte, conosciuto il poeta di Cernowitz. Riccardo era un uomo che certamente aveva riflettuto a fondo sulla pagina amara e aurorale dedicata a Porfirio e Plotino dal suo amato Leopardi. «Eppure…» dirà la gente di Riccardo.
È chiaro che l’inculturalità del suicidio impone di leggere l’atto sul piano della natura e dell’umanità, di leggere la vita di Riccardo all’insegna dell’umanità, se poi la cultura e la ragione non hanno piegato dalla loro parte la follia e l’irrazionalità del «levar la mano su di sé» – secondo quanto avrebbe scritto Améry, un altro suicida –. In chi tra noi che l’ha conosciuto s’è prodotto il sospetto che l’umanità stesse poco alla volta prendendo il sopravvento sulla cultura? In chi tra noi Riccardo ha iniziato ad andarsene e non ha veduto e non ha agito? Chi ha veduto deragliare l’umanità in catastrofe? Aveva Riccardo vergogna della vita degli altri, vergogna, forse, della propria vita? Non il perché, bensì il per chi è morto Riccardo occorrerebbe comprendere. Come è potuto accadere che il più apollineo degli uomini in un attimo si sia fatto Dioniso di se stesso? Perché Riccardo è apollineo, è accanito, è viscerale, è umano, perché Riccardo è un uomo vivo. Ora il groviglio esistenziale di Riccardo s’è sciolto nell’amara delibera di essere un uomo che nel ricordo se n’è andato così duramente, di rimanere un uomo che rifiutandosi ha scritto con la propria storia, con la propria carne, d’aver rifiutato il resto del mondo. Riccardo merita il perdono perché Riccardo ha chiesto sempre perdono, perché il suicidio implora il perdono, l’assoluzione integrale di un uomo che, al contrario, non si è perdonato e proprio per questo merita che il mondo che ha conosciuto non perpetri contro di lui un ultimo tradimento, un fallo che apparirebbe inammissibile.

domenica 8 febbraio 2009

Adriano Padua, Poesie sparse

Di Adriano Padua, giovane poeta e massmediologo (già autore di raccolte come Frazioni, del 2007, e Le parole cadute, dell'anno successivo, e incluso da Erminia Passannanti nell'essenziale ed emblematica antologia Poesia del dissenso), ho il piacere di proporre qui alcuni testi in massima parte inediti (alcune extravaganti, si sarebbe detto un tempo, sebbene legate da una continuità e una coesione profonde), che mi sembra rappresentino un punto d'arrivo, il raggiungimento di un compiuto equilibrio espressivo e concettuale, pur senza nulla togliere alla magmatica fluidità, alla tumultuosa mutevolezza dell'esperienza esistenziale e della ricerca stilistica.
Come ha osservato, da lettore complice e compartecipe, Francesco Marotta (anch'egli, non a caso, al pari di Padua, “poeta del silenzio”, cantore effuso, fluente, paradossalmente eloquente, di un'afasia sospesa fra il vertice e l'abisso, fra il sublime e l'insensato, fra l'assoluto precluso alla “coscienza infelice” del pensiero e del linguaggio e il sospetto ossessivo e insistito che solo il bianco, il vuoto, il kafkiano “silenzio delle sirene” possano rispecchiare la verità inafferrabile, o forse rivelare l'inesistenza stessa di una verità, la latitanza o l'evanescenza ultime di ogni fondamento o di ogni significato), questa poesia “fa della necessità – che si esprime in una urgenza quasi fisica, archetipica della parola, nonostante le tematiche la precipitino in una contemporaneità dolente e notturna – e della consapevolezza critica” la sua “cifra più riconoscibile” (http://rebstein.wordpress.com/2007/09/27/risonanze-iv-adriano-padua/).
“Nei luoghi marginali all'universo”, si leggeva in uno dei testi raccolti in Poesia del dissenso, “teatri del silenzio della luce / che s'infinisce cieca ed imminente”: questo lo spazio in cui si muove e respira, tormentata, la parola dell'autore. Proprio nel theatron, nella spazialità e nella visibilità del testo e della pagina, ha luogo e si effonde una ossimorica “cieca luce”, che (un po' come l'oracolo in un frammento di Eraclito) allude e insieme nasconde, accenna e preclude, addita e sottrae.
Il margine estremo dell'universo, l'”orizzonte di eventi”, ricorsivo e ripiegato su se stesso, che cinge ed avvolge un cosmo contraddittoriamente finito eppure illimitato, è una “provincia dell'essere” (per usare un'espressione di Elio Franzini), un lembo defilato, distante, avulso e remoto dal centro, ma proprio per questo aperto ad ulteriori, virtualmente illimitate, risonanze ed espressioni. Proprio, direbbe Heidegger, la deiezione, la gettatezza, la differenza ontologica, la lontananza dall'origine, l'oblio e l'inautentico possono divenire ricettacolo e dimora di una preziosa semenza, giardino di nuove inattese fioriture – come la luce affiora dall'ombra, la forma dall'informe, e il canto emerge e lievita dalla bruma oscura e indistinta del silenzio, per poi in essa ancora ricadere.
La pagina del poeta viene allora a coincidere, precisamente (per citare la fenomenologia), con lo spesso conflittuale e contrastato “testo del nostro essere-al-mondo”. Pur nella sua chiusura, nella sua autoreferenzialità apparenti, tramate di clausole, giochi d'eco, corrispondenze, ricorsi fonici, ritmici, metrici, o forse proprio attraverso di esse, il dire poetico marca i confini, tortuosi, ricorrenti, ripiegati su se stessi, autocoscienti ed autorispecchiantisi, e per ciò stesso oppressivi e angoscianti, dell'esistenza e dell'esperienza.
“La rima”, si leggeva in Frazioni, “è donna a smascherare la tradizione”; “spesso non convivono / frammenti di isotopie semantiche / sulla soglia di liberarsi dal / preesistente linguaggio”. La lingua, la tradizione sono madre e nutrimento (in Lucrezio, “daedala tellus” e insieme “daedala lingua”), fondo originario che rende possibile ogni essere e ogni dire (che esso, ed esso soltanto, presuppongono), e, insieme, gorgo o abisso che tendono a risucchiare ogni esistenza e ogni espressione nelle proprie spire, a richiamare ogni forma e ogni ente all'informe e all'indistinto.
Padua recupera, nei testi qui presentati, l'endecasillabo e il settenario, cioè le unità essenziali, le ossature portanti di quello che Ungaretti chiamava il “canto italiano”. Ma, com'è evidente, non c'è in Padua nessun classicismo, nessun “ritorno all'ordine”. Semmai, egli si avvicina alla corrente neometrica degli ultimi anni, e nello stesso tempo si riallaccia a certe esperienze della poesia neo-sperimentale, “atonale” ed “informale”, degli anni Sessanta e Settanta, fra il Sanguineti di Alfabeto apocalittico e lo Zanzotto di Ipersonetto – come pure al vertiginoso citazionismo e al virtuosismo combinatorio di Lello Voce e della cerchia di “Baldus”.
Eppure, non c'è in Padua ombra alcuna di sterile, ostentatamente demistificante, sforzatamente parodico, funambolismo verbale. In lui, le unità metriche della tradizione sono una sorta di forma a priori, di platonico archetipo, di modello originario e naturale, eppure già di per sé storicamente definito, già consapevolmente e criticamente filtrato, del poetare.
E, pur nell'assidua e vitale fluidità del discorso, il tessuto metrico sembra evocare, quasi per una sorta di indiretta, implicita metafora strutturale e testuale, la condizione e l'idea del rigor mortis, l'immobilità estrema e irrevocabile del silenzio e della quiete ultimi, e inesorabili (allo stesso modo che il Sanguineti di Novissimum Testamentum, pur nella parodia, nella provocazione, nel palazzeschiano sberleffo, approda infine alla coscienza tragica del silenzio che attende ogni voce, come il nulla ogni essere, e il vuoto ogni sguardo: “in quel fiato che ancora può soffiare, / se un soffio soffia, è soffio di parole”, dunque insidiato dallo spettro della deformazione e della disgregazione, dalle grandi ombre dell'oblio e dell'evanescenza – e a maggior ragione oggi, in questa labile era virtuale). (M. V.)



il ritorno seguire del colpo
l’andamento deciso del taglio
l’incisione recente
la radice recisa del segno
oramai referente di x
consistente di una soltanto
superficie che cede
nel frangente preciso del dire
a prescindere da

tutto sta nel comprendere cosa
non coincide con cosa
né si deve risolvere in
ma lasciare così
di per sé discordante
quale parte del vuoto presente

nuovamente formata nel moto
che in sequenza rimuove a sua volta
quando sole si dicono
le parole che calcola il tempo
variazioni nel corpo rumore
proiettate nell’ aria

regolari compiute entro i limiti
prefissati di spazio
come se lo spezzarsi dei versi
non ci fosse non generi
del respiro l’agire e la pausa
la cesura lo scindersi
all’interno di sfere
che le mani disegnano
e la notte ripete reìtera

nelle onde sonore incrociate
a frequenze ossessive
invariate dei passi e nei fossi
dove l’acqua piovana ristagna
e la nostra città che non è
perde sonno per sempre

dentro sé si ritrae
riempie il buio di niente
lo frammenta interrompe
penetrando la strada e le stanze
nel silenzio captato dai radar
che si mescola alle interferenze


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unire lineari senza dirle
parole ad una sola dimensione
costrette nel dominio nominabile
da dove non provengono

nel buio come è fatto
passare la misura
d’un ordine precario

il peso del silenzio sistematico
si sente negli stenti della voce
nel tono non armonico all’ambiente

il sole è trattenuto nei metalli
placato questa notte
da un’altra gravità

con gli occhi contro i corpi
tu osserva il movimento che preannuncia
le collisioni interne del circuito
approssimarsi al termine

lo scarto che si situa nel momento
appena successivo


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A K.

(rovesci d’amore ai tempi della 4 G.M)

Il nostro più che amore è un suo rovescio
da trascinarsi insieme ai tempi della
quarta guerra mondiale per la quale
si legge l’escalation nucleare
nei volti dei potenti che contenti
frequentano gli altari e se ne vantano
bisbigliano sgranandoli i rosari
e intanto localizzano scenari
possibili di strage ed io vorrei
parlarti d’altro mentre tremi e pare
denaturalizzato e surreale
durare e non tradursi il tuo silenzio
che termina il suo senso e lo travalica
contratto ed insolubile nel proprio
esporsi a noi formandosi in perfetto
estetico rigore e l’esistenza
qui intorno delle cose e delle storie
rimane una questione di parole


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Amen

risulta constatabile che il corso
procede della storia non arreso

disposti i meccanismi negli appositi
vuoti che in negativo si denotano
i segni confluiscono nel tempo
cumulo di frangenti conseguenze
ogni respiro breve consumando
nell’aria che circonda e ci resiste
di questa quiete a sangue conquistata
luogo nostro comune e consapevole
motore di strutture distruttive

sistemi ne quantificano i morti
come la necessaria e marginale
perdita per il bene dei mercati


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Canto (febbrile)

la luna chiama e i fuochi si protendono
il vento li distrae in un moto obliquo
l’ossigeno s’intossica s’inquina
dei torbidi residui della notte
che storce nei suoi vicoli la terra
distesa a protezione dei potenti
violenti e come sempre intenti a fottersi
l’intero mondo con abnegazione

e viaggia l’eroina in processione
fa il giro del pianeta lo percorre
si penetra nei corpi assuefacendoli
in opera di evangelizzazione
spillando le pupille nella faccia
legata ai lacci stretti nelle braccia

le voci degli ubriachi che si spaccano
le ossa a calci e il fegato a bicchieri
risuonano nei cumuli di polvere
che navigano il sangue come sonde

da questo buio mosso che dirompe
si disfano le ombre e si dilaniano
nei giorni miei stroncati nelle mozze
parole che i poeti si dimenticano


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Roma- 15/08/2005

ci sono solo spot alla tv
un po’ di sport e tanta fantascienza
le strade sono in crisi d’astinenza
di polverine fine e di monossidi
un traffico qualunque che le stressi
di droga o d’automobili esso sia
che pure il papa se ne è andato via
a fare festa altrove e simonia

tra scuole chiuse e chiese aperte e vuote
i cellulari squillano e si scuotono
e i topi stando zitti negli squat
ascoltano piuttosto che squittire

scrostati i muri sembrano morire
sotto il cemento è armato e sopravvive
settembre come sempre incombe e scrive
verserà versi in piogge radioattive


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dispongo del mio tempo in modo effimero
lo perdo nelle azioni senza senso
di quelle che non hanno conseguenza
e escludono il concetto di realtà
svolgendosi nella maggiore parte
dei casi tra le mura della stanza

la stanza ha una finestra che fa si
che il mondo sia presente come idea
di ente che contiene

si sentono i motori e le sirene
le urla e la violenza
le lingue sconosciute e i colpi secchi
di tosse che dissestano il silenzio

qualcuno nella notte ride forte
per altri è già mattina
i baci sanno d'alcol e di morte
l'aria di cocaina

oggi mi è capitato di ascoltare
persone che parlavano frenetiche
soltanto di se stesse come fosse
possibile discuterne in eterno

ma anche che saverio si è impiccato
e io non lo vedevo da due anni


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nel paese dei troppi poeti
mi hanno detto di leggere e studiare
e di considerare
che mi hanno generato madre e padre
e io li devo uccidere e onorare
di non usare troppo l'infinito
di essere me stesso
ma un po' meno complesso

invece io mi punto nella testa
una pistola metrica
e penso al suicidio
a dare un contributo
anche non decisivo all'estinzione
totale della razza