Riproduco, con il gentile consenso dell’autore, uno scritto già apparso su un settimanale bolognese, in cui veniva rievocata la figura di Riccardo Bonavita, giovane intellettuale, studioso di Leopardi e della Shoah, morto ancor giovane, di propria volontà.
“Provincia dell’essere” è, certo, anche il confine – forse più esile, precario e tremulo di quanto a prima vista non paia – fra vita e morte, luce ed ombra, razionalità e accecamento: quel confine che (con un gesto quasi sovrumano, apparentemente folle e in realtà, spesso, sovranamente e spaventosamente lucido) il suicida viola e valica. E provincia («torrido regno da cui nessuno è mai tornato», per citare il Sinisgalli dei Nuovi Campi Elisi) è la dimora stessa, esangue e diafana, dei trapassati, di chi non è più – Ade, non-visione e non-conoscenza, luogo remoto e nascosto, dominio di chi è stato orbato della luce, di chi non può più vedere, né essere visto.
Non è certo un caso che l’essenza della personalità e dell’opera di Bonavita venga còlta (con quella fedeltà che nasce proprio dall’appassionata immedesimazione, dalla soggettività creativa ed esistenziale, ben più che dall’aberrante e fuorviante miraggio di un’impossibile asettica impersonalità) proprio da Neil Novello, che tanto come poeta (in Rosa meridiana) quanto come cineasta (in Mutterland) ha fatto del ritorno all’origine, della discesa nel buio grembo delle madri, della rituale ciclica circolarità di vita e morte, di essere ed annullamento, di pienezza e privazione, uno dei cardini del suo discorso.
Né casuale è che venga avanzato, in questa pagina lucida ed emozionante, il nome di Celan, la cui celebre, ipnotica e atroce, Fuga sul tema morte fu certo uno dei testi su cui più profondamente e dolorosamente Riccardo dovette meditare. «La fine fa fede / al nostro inizio, // dinanzi ai maestri / che ci avvolgono nel loro silenzio, / nell’indifferenziato, si afferma / lo stento / lucore», si legge in alcuni di versi di Dimora del tempo, la raccolta celaniana dell’ultimo anno, edita postuma. Fine ed inizio, apocalitticamente, si ricongiungono; la voce prende forma dal vuoto, la luce esile ed affaticata trapela e si staglia dallo spettro opaco del nulla. «Scenderemo nel gorgo muti», dice Pavese, altro luminoso fantasma che Novello rievoca.
La condizione di anomia, di contrasto – di inespresso, forse represso, conflitto con la realtà e la società – che starebbe, per alcuni, alla base del suicidio finiva per avere, nel caso di Riccardo (come in quello di Michelstaedter), il valore di un profondo messaggio umano ed intellettuale: il rifiuto dell’inautentico, la reazione – nel campo degli studi – ad uno specialismo e ad un tecnicismo che rischiano di scindere del tutto la ricerca dall’impegno etico, e ideologico nel senso più alto e più nobile, trasformandola – per effetto di quella che Ortega Y Gasset chiamava la “barbarie dello specialismo” – nella mera, inerte e disanimata, applicazione di protocolli metodologici, di gerghi specialistici, di ottuse ed anestetiche categorizzazioni.
Non è causale che proprio Leopardi e gli scrittori della Shoah – capaci, l’uno e gli altri, di affondare uno sguardo lucidissimo e tagliente nell’abisso del Male, nell’«arcano mirabile e spaventoso» dell’esistenza insensata ed assurda e del dolore sacrificale proprio perché senza colpa e senza spiegazione, fino a disvelare, a presentificare e a notomizzare, in tutta la sua devastante pienezza (penso al Cantico del gallo silvestre), la condizione apocalittica e talmudica di un possibile disfacimento universale, di una possibile catartica ed onniavvolgente deflagrazione del tutto – rappresentassero, per lo studioso, un assiduo termine di confronto e di meditazione.
Riccardo pagò forse con la disarmonia, con la sofferenza, spinta fino all’estremo sacrificio, proprio il suo anelito generoso e raro alla totalità e alla complessità dell’umano, alla sintesi e alla pienezza di pensiero ed esistenza, di esperienza intellettuale e coerenza etica – in un mondo che sembra fare di tutto, in nome di una scientificità malintesa e reificata, per recidere questo vitale legame. (M. V.)
È morto Riccardo Bonavita. Con lui ho progettato, dialogato, scritto, con lui ho amato la letteratura. L’ho amata poiché con Riccardo ho litigato per la letteratura, segno che tenevamo a noi e alla letteratura. È difficile ammetterlo, ma noi e la letteratura contavamo ben poco per Riccardo, evidentemente. Per noi Riccardo doveva contare di più. Tutti noi dobbiamo contare di più. Perché noi e Riccardo siamo di più. Il suicidio di un uomo è un atto così profondamente inculturale da riflettersi culturalmente come un gesto profondamente umano. Questo dell’intellettuale fanciullo, anche. Ma Riccardo è un uomo di cultura, lo erano Michelstaedter e Pavese, lo era Celan. Il gesto di Riccardo mi ha raggiunto in Calabria, da lontano ho smesso di essere lontano ed ho iniziato a scrivere per essergli vicino. Ecco rivelata la mia e la nostra colpa: il ritardo dell’affetto. Ero in una pausa delle riprese del mio film. Appena dopo la notizia, il pensiero, evidentemente ozioso e disperato, è corso alla povera vita di un uomo che pure era passato dalle parti del filosofo di Gorizia, aveva impiegato tempo leggendo l’autore di Verrà la morte, conosciuto il poeta di Cernowitz. Riccardo era un uomo che certamente aveva riflettuto a fondo sulla pagina amara e aurorale dedicata a Porfirio e Plotino dal suo amato Leopardi. «Eppure…» dirà la gente di Riccardo.
È chiaro che l’inculturalità del suicidio impone di leggere l’atto sul piano della natura e dell’umanità, di leggere la vita di Riccardo all’insegna dell’umanità, se poi la cultura e la ragione non hanno piegato dalla loro parte la follia e l’irrazionalità del «levar la mano su di sé» – secondo quanto avrebbe scritto Améry, un altro suicida –. In chi tra noi che l’ha conosciuto s’è prodotto il sospetto che l’umanità stesse poco alla volta prendendo il sopravvento sulla cultura? In chi tra noi Riccardo ha iniziato ad andarsene e non ha veduto e non ha agito? Chi ha veduto deragliare l’umanità in catastrofe? Aveva Riccardo vergogna della vita degli altri, vergogna, forse, della propria vita? Non il perché, bensì il per chi è morto Riccardo occorrerebbe comprendere. Come è potuto accadere che il più apollineo degli uomini in un attimo si sia fatto Dioniso di se stesso? Perché Riccardo è apollineo, è accanito, è viscerale, è umano, perché Riccardo è un uomo vivo. Ora il groviglio esistenziale di Riccardo s’è sciolto nell’amara delibera di essere un uomo che nel ricordo se n’è andato così duramente, di rimanere un uomo che rifiutandosi ha scritto con la propria storia, con la propria carne, d’aver rifiutato il resto del mondo. Riccardo merita il perdono perché Riccardo ha chiesto sempre perdono, perché il suicidio implora il perdono, l’assoluzione integrale di un uomo che, al contrario, non si è perdonato e proprio per questo merita che il mondo che ha conosciuto non perpetri contro di lui un ultimo tradimento, un fallo che apparirebbe inammissibile.
lunedì 16 marzo 2009
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