Iniziamo, con questo pregevole e partecipe profilo di Remo Pagnanelli, poeta e critico marchigiano prematuramente e tragicamente scomparso (profilo redatto da Guido Garufi, che con lui condivise anni di appassionata militanza culturale), quello che vorrebbe essere un discorso circa l'identità culturale marchigiano-romagnola, le cui radici affondano nell'humus della cosiddetta "scuola classica" sette-ottocentesca, e che ebbe in certo Leopardi la sua eredità e il suo esito più alti e duraturi. Un classicismo, o meglio una classicità, che pure, al pari della pur modernissima coscienza poetico-critica di Pagnanelli, esploravano le cave e risonanti profondità della terra, dell'origine, del primordio, dell'Heimat, del Grund fondato sull'Ab-Grund, dell'epifenomeno che lascia intuire, se non vedere facie ad faciem, l'oscurità del gorgo e dell'intreccio di vita e morte, genesi ed annientamento, che vi sono sottesi, ed inesplicabilmente, enigmaticamente lo sorreggono.
Negli Idilli di Mosco prima Virgilio, poi Leopardi trovavano il suono, la voce stessi della natura, la sua vitalità assidua, sorda, fonte e ragione ed esito di se medesima, perennemente fasciata dal silenzio, o da una cortina di soffi aliti e sussurrii levati poco al di sopra della quiete assoluta, imperturbata, ultima e prima: "Allor sicura, e salda / Parmi la terra, allora in selva oscura / Seder m’è grato, mentre canta un pino / Al soffiar di gran vento", come pure l'onnipresenza arcana, cupamente risonante, della morte che pervade il grembo stesso della natura, la fibra sostanziale dell'esistere, dell'essere nel mondo, il severo monito fatale dell'et in Arcadia ego: «in tuon lugùbre / Or vi dolete, o piante; or vi sciogliete, / Oscure selve, in teneri lamenti». La voce della natura può cullare il sonno («saepe levi somnum suadebit inire susurro»), allontanare con un velo di suoni lievi e di ineffabili mormorii il fragore doloroso del tempo e della vita - ma può anche preannunciare, ed accompagnare, l'ombra della morte. E la parola del traduttore-esegeta-ricreatore, del poeta-critico, la tensione espressiva del discorso critico-creativo, discendono fino al cuore di questo luminoso mistero naturale, di questo innato "mistero in piena luce", assecondando le vie tortuose ed opache del linguaggio.
In questa meditazione della morte, in questa ininterrotta variazione su un quasi-silenzio, su una sorta di latente ed ascoso "rumore bianco", risiede forse l'essenza stessa di ogni moderno classicismo, la matrice di quel "desiderio vano de la bellezza antica" che ne sta alla base e lo motiva. Non a caso, su «Hortus», nel dicembre dell''87, Pagnanelli accennava, a proposito della matrice profonda dei poeti marchigiani, eredi (lo volessero o meno) di Leopardi, per ragioni storiche non meno che paesaggistiche, a un "classicismo non classicista", aperto all'ascolto della parola poetica come Voce dell'Origine, alla possibilità di un ritorno della, e alla, antiqua Mater, di una «risurrezione tragica della Madre Morta», di «una riemersione del sacro, pur nell'alveo dela materia», senza uscire dunque dalla matrice del linguaggio, e perciò da una sorta di storicità trascendentale, definita per via di continuità e di eredità diacroniche e nondimeno tesa ed ancorata a valori superiori, ad invarianti adamantine (si pensi allo Scataglini di Rimario agontano e di El Sol, che nel suo eruditissimo, e insieme popolare, comune ed universale, vernacolo, nella sua lingua vergine, e insieme satura di tempo e di memorie, ascolta il «sussurro del niente», «el senso inaudibile», il «recesso mentale / d'una domanda elusa»).
Pagnanelli stesso - pur "assolutamente moderno", vicino alle correnti più vive del dibattito ideologico e metodologico contemporaneo, e anzi sostenitore fino alla morte, fino al sacrificio, fino ad una disperazione tesa, fiera ed eroica, di un ideale di rigore metodologico e di coerenza etica e culturale inj un'era dominata dall'effimero, dal vano, o da un tecnicismo e da una professionalità gelidi, disanimati, inumani - non fu lontano da questo spirito: lui che, nei postumi Preparativi per la villeggiatura (quasi un lucidissimo e raggelato testamento spirituale), cantava la «mitezza limbale / di un eterno e immoto volto», il «sonno senile d'un soffio d'acqua / la cui voce tace»; lui che, in veste di critico (ad esempio in Sereni: il silenzio creativo, «Punto d'incontro», VIII, 1986, n. 10), sapeva captare e fissare sulla pagina tutte le risonanze e i perturbanti chiaroscuri della lacaniana beanza, della defaglianza, del Vide mallarmeano, della sereniana "vacanza", insomma della ferita e dello iato ceh dividono, in modo lacerante, la parola dall'essere, e il soggetto da mondo - e «fissare costantemente», sulle orme del suo Sereni, «il colore del vuoto», «toccare e alitare il silenzio» con l'ala della poesia (come con le oraziane e foscoliane «fredde ali» della morte) - infine opporre, almeno fino a quando gli fu possibile, o ebbe ai suoi occhi ancora un senso, un'amara e distante ironia, scevra di false certezze o consolanti illusioni, alla fissità gelida e tentante della disperazione e del nulla.
Non è casuale che Paganelli abbia trovato prima un amico, poi un interprete fedele e simpatetico, in Guido Garufi, che nel suo luziano Canzoniere minore scriveva, cogliendo l'essenza del messaggio, della testimonianza, del testamento che la parola poetica si ostina a gettare verso la posterità: «Con timidezza e con pietà / la lettera brilla dalla pagina / con l'augurio di una voce impossibile / lascia il segno lo scriba». Proprio questa "voce impossibile", che continua a risonare, e per così dire a risplendere, dall'opacità e dalla bruma di un'era disattenta ed immemore, ancora ci parla e ci parlerà, attraverso il prisma e lo schermo, multiformi ed amplificanti, della sintonia intellettuale ed umana e dell'impegno ermeneutico. Nemmeno la morte può spegnere questo mentale, tormentoso scintillio. Anche i frantumi di uno specchio continuano a papitare di luce, come suggeriscono i versi di Un posto di vacanza, il poemetto di Sereni tanto caro a Pagnanelli. «Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli».
Con lucidità e chiarezza, senza orfismi specialistici, Garufi coglie il duplice nesso (a sua volta, per così dire, ravvolto e ripiegato su se stesso), di vita e letteratura da un lato, poesia e critica dall'altro, e in parallelo. Poesia e critica legate l'una all'altra perché entrambe specchi dell'esperienza esistenziale; vita che si specchia nella letteratura, e viceversa - e l'una e l'altra, insieme, nel prisma della riflessione metaletteraria.
Nell'era della superficialità, dell'effimero, dell'insensatezza (nel tempo della povertà, diceva il filosofo), e, anche nel campo degli studi umanistici, del tecnicismo vuoto, dell'erudizione insensata, del conformismo metodologico, dello spesso pretestuoso apriorismo ideologico, Remo pagò questo suo impegno raro e vitale con l'estremo sacrificio. Sotto certi aspetti, si può dire senza eccesso e senza retorica che fu un martire (proprio nel senso di "testimone", di portavoce e di incarnazione di valori perenni in un'era bestialmente avvinghiata, direbbe Nietzsche, al "piuolo dell'istante").
Come Michelstaedter, come Pavese, come Bianciardi, come Giorgio Cesarano. Martire dell'autocoscienza, dell'impegno, della sollecitudine pensosa, della devozione alla Parola che salva e redime (anche a prescindere da qualsiasi prospettiva religiosa nel senso tradizionale e confessionale). Continuare a rievocare e a far risuonare le sue parole è un modo per prolungare ostinatamente questa sua testimonianza, questo suo martirio - a protrarre e perpetuare indefinitamente la sua vita nel momento stesso in cui si prolunga, in qualche modo, la sua morte, così satura di significati e di enigmi.
M. V.
Remo Pagnanelli. Il ruolo della poesia
Nel panorama del secondo Novecento Remo Pagnanelli rappresenta indubbiamente un punto di riferimento significativo sia nell'ambito della poesia che in quello più generale della critica letteraria.
Un grande lettore di testi, un lettore trasversale si potrebbe dire, proprio nel senso che i suoi interessi abbracciano territori eterogenei, da quelli più strettamente critici e storiografici, al campo della filosofia e dell'ermeneutica. Ed è proprio in tale direzione che si può leggere l'unicità della figura di questo autore.
L'accanimento frenetico, la curiosità, l'empatia nei confronti della scrittura, costituiscono per Remo Pagnanelli un'asse e un orizzonte fondamentale, fin dai primi studi, a partire da una importantissima monografia su Vittorio Sereni del quale fu amico.
Vita e letteratura, diario giornaliero e pagina, si intersecano in modo vitale e indissolubile, il pensiero dominante della funzione del ruolo della poesia e del poeta, la riflessione "politica" sulla stessa genesi e funzione del testo (in questo senso, appare eccezionale il contributo critico della monografia pubblicata per Franco Fortini).
Insomma, chi ha conosciuto Remo da vicino, conosceva questa doppia valenza, questa doppia forza che agiva costantemente in lui, incessantemente. E proprio dentro questa dinamica di incessante movimento e metamorfosi si deve leggere Pagnanelli.
Non a caso, insieme ad alcuni amici marchigiani, è uno dei promotori, verso la fine degli anni ‘70 e metà degli anni ‘80, di convegni e di meeting. Fonda, insieme a Guido Garufi, la rivista di critica letteraria " Verso”, all'interno della quale giungono contributi importanti. Se si scorrono i titoli dei numeri, ci si accorge immediatamente da quale "scuola " provenisse il suo modo di operare, un modo che vorrei chiamare "umanistico": la rivista non era una semplice collazione di recensioni ma, al contrario, in ogni numero, dibatteva un tema monografico, come ad esempio il tempo, la storiografia, la traduzione, il grande stile.
Il che la dice lunga sul suo modo di intendere la poesia e, più in generale, quella che per comodità viene chiamata attività letteraria : una sorta di "problema", vale a dire un "oggetto" intorno al quale parlare e dibattere, un oggetto importante, non un insignificante dopolavoro o una semplice ricreazione. Una serietà, allora, nell'affrontare i testi, nell' approcciare i problemi. Le griglie critiche che Remo Pagnanelli usa nei suoi studi sono, come le sue letture, griglie polivalenti, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, dall’ estetica alla critica stilistica e simbolica.
Manca, nell'attuale panorama italiano, un critico di questa caratura. La poesia procede dalla prima piccola plaquette Dopo fino a Preparativi per la villeggiatura, pubblicato postumo e dedicato al suo secondo grande amico, Giampiero Neri.
Elemento strutturante di tutte le raccolte è una sorta di domanda, che sta tra invocazione e dialogo con una mancanza, non con una assenza. In una parte delle raccolte il "tu" dei poeti è una donna alla quale non viene destinata la funzione liberatoria o cristòfora, come accade di leggere per esempio in Montale, quanto una sorta di dissolvenza e nebbiosità e struggente elegia presente invece nel "suo" Sereni.
Da questa partenza che produce una inversione apparente dello Stilnovismo, Pagnanelli procede nelle altre raccolte concentrandosi sul tema del tempo e dell'oltranza, di un altro mondo che tuttavia lascia, o meglio imprime, forti "rispecchiamenti" nella geografia naturale, con grande preminenza, anzi con imperativo primato della simbolica dell'acqua (si può notare la foltezza della citazione acquatica, dal fiume alla lacrima, fino al "fondamentale" mare).
C'è in Pagnanelli questa sorta di mitologia della "vacanza", o euforia della vacanza, di labile derivazione adorniana, ma, in verità, lascito centrale, ancora, del "suo" Sereni, ad esempio quello che scrive quel famoso verso-emblema:“ solo vera è l'estate".
Pagnanelli è come se volesse trovare nella natura una ragione, una “ numinosità”, per usare un suo termine, e in qualche modo tenta questa strada, tenta cioè di scovare il linguaggio della natura. Si deve leggere, a tal proposito, un importante contributo critico sul tema poesia-natura in Leopardi, un piccolo e concentrato saggio di altissima penetrazione che certamente chiarisce o comunque fornisce una lente adeguata per la ulteriore lettura delle sue raccolte.
Non a caso questo paesaggio e questa natura si animano di segnali e forze misteriose, di voci, di "entità", tutti elementi attraverso i quali si tenta il recupero di una qualche metafisica che Pagnanelli distende o meglio articola sul paesaggio. Ad una lettura più attenta si può scorgere come questa attenzione derivi, per chi lo ha conosciuto e per chi ha letto i saggi critici, da una pluralità di testi teorici anche di area teologica, che in qualche modo costituiscono una "energia" riflessiva che poi si traduce nei versi. In numerose interviste ha dichiarato che il "poetare" è molto vicino al martirio, proprio nel senso radicale ed etimologico. La poesia è testimonianza, è agonistica e antagonistica, è, come andava ripetendo ancora da Sereni, un "organismo vivente". Non si creda tuttavia che l'antagonismo di cui si parla sia semplicemente da includere nello stretto perimetro di una dialettica tutta interna al fatto letterario, quanto invece, anche, dentro il ruolo che la poesia giocherebbe nel campo più generale della vita, una poesia capace di essere anche " passione e ideologia", poesia che tenga conto delle ragioni espressive e del grande e inevitabile asse semantico. Una poesia capace di "argomentare".
La rarità di questa posizione che Pagnanelli incarnò nella doppia funzione di poeta e di critico, è davvero esemplare, ancora di più oggi, dove si segnala un eccesso di "scrittura" che sembra provenire più o da un abile (ma senza echi letterari) laboratorio o, nel peggiore dei casi, da "ganci" o "pretesti" meramente tematici, una scrittura, insomma, certamente lontana da quella idea di poesia e di letteratura nella quale Pagnanelli credeva e per la quale è indubbiamente vissuto. Non tuttavia una posizione decadente, più precisamente vita che si identifica nella letteratura, ma più semplicemente, la vita e la letteratura in un unico cammino: “ nel mare allora andando in un'oscurità maggiore\ sogna l'alito di Dio e vedine la chiarità che salva".
Guido Garufi
Nota biografica
Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato nel 1955 a Macerata, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Milano, Scheiwiller, 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Latina, Di Mambro, 1985), Fortini (Ancona, Transeuropa, 1988), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (come «Alfabeta», «Otto/Novecento», «Letteratura Italiana Contemporanea»), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Milano, Mursia, 1991). Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forlì, Forum, 1981 e Musica da Viaggio, Macerata, Olmi, 1984), due raccolte (Atelier d'inverno, Treviso, Accademia Montelliana, 1985, Preparativi per la villeggiatura, Montebelluna, Amadeus, 1988), e postumo Epigrammi dell'inconsistenza (Grottammare, Stamperia dell'Arancio, 1992). II tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (Ancona, il lavoro editoriale, 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale «Poesia Aperta» Milano (1990).
II suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi, sono confluiti presso I'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze.
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della "frontiera" (come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni) che lo separava dall'utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci, con la loro immagine, di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non abbia la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio "; e proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.
martedì 31 marzo 2009
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