"Più sedative le ore che dedico al mio annoso tentativo di tradurre il Cimitero marino, tela di Penelope che faccio e disfaccio con una delizia mai stanca, accanito per ore sulle varianti d’un solo verso, senza decidermi di escluderne una sola:
Mare che ogn’ora sei uno e diverso…
Mare che non ti sazi di rinascere…
O tu che sempre rinnovelli, mare…
Mare, che ad ora ad ora ricominci…
Tu che rinasci ad ogni istante, mare…
O mare, infaticabilmente nuovo…
Mare che in ogni flutto ti rinvergini…
Mare, perpetuo moto, eterno inizio…
Mare, principio eterno, eterna fine…
Mare, incessante, pullulante palpito…
La mer, la mer, toujours recommencée…
che è l’ironico uovo di Colombo con cui concludo di solito, lasciando il verso perfetto com’è…".
(Gesualdo Bufalino, da Tommaso e il fotografo cieco)
Già, il "sole ogni giorno nuovo" di Eraclito (e proprio il Valéry del Cimitero marino inveiva contro il "crudele Zenone", eleatico uccisore del moto), il sole
"alius et idem" di Orazio, la "pulchritudo tam antiqua et tam nova" di Agostino, la primavera pascoliana che lascia nell'aria, anzi nel sole, "qualcosa di nuovo, anzi d'antico", il mare "vasto e diverso e insieme fisso" di Montale, infine la dialettica di ipse e idem in Ricoeur...
Tutte mobili, vivide e cangianti icone di una fissità che sempre diviene e si
trasforma, di un tempo che torna su se stesso nel suo apparente mutare, nel suo "delirio d'immobilità".
Così è anche delle nostre vite.
L'eternità è un istante, è stato detto. Figuriamoci poi la nostra vita, che è un lampo in quell'eternità, il volo repentino di un rapace in una stanza illuminata, una goccia nel mare o un'ala nello stormo... Un istante in un istante, una goccia infinitamente specchiata e scomposta in una goccia.
E la traduzione, che è di per sé una "gaia scienza", un'ars ermetica ed
alchemica, una disciplina malleabile e rigorosa della variabilità, dell'incertezza, della sfaccettatura, della polisemia, dell'ambiguità, della varietà, del mutamento, si muove e vive proprio in questo spazio intellettuale ed ontologico dell'impermanenza e dell'indeterminazione.
Nessuna traduzione è esatta e definitiva; tutte le traduzioni di uno stesso testo prima o poi diventano esse stesse leteratura e storia, paiono obsolete e superate, divengono lontane da noi come noi dal noi stessi di un tempo. Anche il testo, come il mare, il sole e noi stessi, è "toujours recommencé".
Proprio in questa misura, un po' angosciosa, di mutevolezza, di precarietà, in questo perenne mutare pur conservando intatti ed intangibili una sostanza, un noumeno comunque in se stessi indefinibili - più che nel loro presunto valore eterno ed immutabile - i classici sono davvero specchio di noi stessi, del nostro esistere, del nostro sentire, del nostro patire.
M. V.
domenica 26 aprile 2009
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