Solo la parola “voluttà” e la sua giusta enfatizzazione fra le virgolette hanno reso chiaro al mio intelletto il suo scritto su spirito e progetto culturale di questa rivista.
Ciò è dipeso da un’altra connaturata attitudine del me lettore, che non so apprendere i contenuti di un testo senza considerarne al contempo il tono verbale e il registro formale.
E dunque mi pareva incongruo che lei additasse la quiete, il ripiegamento riflessivo e la riposante appartatezza della letteratura e del dialogo letterario provinciali e poi li descrivesse con un denso espressionismo linguistico (che, si sa, non è mai stato corrente letteraria ma da sempre un possibile stile di scrittura), dall’ingente ipotassi e folto di accumulazioni e serie di aggettivazioni (e incisi e citazioni), insomma un linguaggio che non definirei quieto e riposante bensì carico di partecipazione intellettuale ed emotiva.
Mi è sembrato peraltro che in alcuni momenti lei volesse mitigare spinte in realtà vibranti, mentre afferma la purità di quel che è defilato e ovvero distante dai potentati, letterari o globalmente sociali e culturali. Accade allorché narra la sua simbolica provincia come «anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico», con quella limitazione a una certa misura, o già quando esordisce e ne dice l’omologa «misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali», e cerca di arginare intensità e vivezza con parole di quiete e pacatezza. Ma a un certo punto del suo scritto appare provvidamente una «estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici», e allora ogni cosa torna a posto. Mi torna a posto entro quanto io ritengo sia propriamente la “confessione” di un sentimento acceso, anche se intrecciata alla legittima intenzione di coltivarlo in santa pace.
Così penso per esempio alla “estetica passione” di Pasolini, oppure alla simile, riprovata o nei casi migliori distanziata dalla critica storicista, “ontologia letteraria” a cui s’erano versati i più anziani Ungaretti, Montale, Penna, Caproni, o prima ancora il “cercatore d’assoluto” Mallarmé (non serve al discorso ampliare la nomenclatura e le stagioni).
Però pensando ricordo che costoro appartenevano indifferenziatamente alla provincia e al centro o fra l’una e l’altro circolavano. Pasolini iniziava con frenesia da una provincia di confine e giungeva a maturarla nella capitale; Montale, Penna, Caproni, da provinciali pervenivano a un centro, fosse Firenze o Milano o Roma; Ungaretti, cosmopolita, si era acquartierato in molti centri, e da studente alla Sorbonne terminò professore alla Sapienza; i leggendari “mardis de la rue de Rome” si svolgevano a Parigi dopo che Mallarmé era tornato dai penosi soggiorni di provincia. Altrettanto indipendenti dalle atmosfere dei natali e delle residenze furono alcuni loro atteggiamenti opposti: l’assenza (Mallarmé, Montale, Penna) o la partecipazione (Ungaretti, Caproni, Pasolini) alla realtà storica, l’impegno (Montale, Pasolini) o il disinteresse (Penna) verso il discorso metaletterario. E allora, poiché non mi sembra tipico né della provincia né del centro, io credo che per quelli l’appagante e insieme sofferto, quindi esistenziale, coinvolgimento nelle Lettere fosse presente, diciamo, nella loro “anima”, cioè non fosse maturato in un particolare luogo-ambiente ma nella loro intima diversità. E la diversità è di per sé un isolamento, il lineamento distintivo di un separato. Pertanto, a maggior ragione oggi, da cosa origina la diversità del letterato se non dall’isolamento, se non dalla condizione emarginata dell’umanesimo intero e in questo della Letteratura? Parlo ovviamente della Letteratura con elle maiuscola, non dei testi di quella metà degli uomini che scrivono dando atto delle previsioni di Svevo. Parlo della Letteratura che si è quasi eclissata non soltanto per motivi propri a una sua interna evoluzione di fianco alla lingua naturale e alla realtà che mutano, ma soprattutto perché se n’è fatto precipitare il tono da quando, sotto l’egida dello spettacolarismo, dell’attualismo e del drammatismo falso-filantropici e nell’ingordigia della fama per tutti (le inclinazioni dominanti), in troppi si sono messi a scrivere e a pubblicare versicoli e storielle senza la consapevolezza del necessario ingaggio interiore, culturale, civico, storico. (Non mi sto contraddicendo: anche il distacco dalla storia, in coloro che “ermeticamente” lo attuarono, fu una cosciente posizione verso i fatti storici).
E io stesso vengo (alla sua simbolica provincia) da una realtà metropolitana, Roma, che non è soltanto un centro, anzi non è più nemmeno quello, ibrida come tutte le metropoli di questa civiltà.
Fin quando sono stato giovane Roma, la “città aperta” del dopoguerra, era una grande città coesa, ben oltre le disparità di rango dei patrizi e dei plebei che agglomerava e a dispetto di quel che pareva agli sguardi estranei. Bastava prendere un tram o la cinquecento di chi l’aveva e ci si poteva recare a uno dei tanti teatri scegliendo fra molte opportunità, alla presentazione di una novità editoriale in una delle tante librerie, a qualche declamazione pubblica nei parchi delle tante ville, a uno dei tanti cinema, a una mostra d’arte, a una basilica o sala da concerti. Vivere nella, o anzi meglio, “essere” della periferia non pregiudicava nulla; per chi nutriva interessi culturali Roma era saldata fra le sue membra centrali e periferiche, e Caproni all’ostello universitario raccontava per tutti la personale esperienza di poesia, e Pagliarani ospitava chiunque ai suoi incontri letterari spiegando gli scopi delle neoavanguardie.
Ma già negli anni Otytanta tutto questo era finito, la coesione si era sciolta nel caldo infernale di un dantesco bulicame fluito nascostamente; le membra della città che avevano tenuto alla precedente vastità del territorio e all’entità della popolazione non resistettero più e si sgretolarono, orizzontalmente per cellule sociali e verticalmente per strati di influenza affaristica e politica. Vi fu la disdetta di ogni patto solidale e il dissolvimento della raggera umanitaria che prima conduceva dai punti della circonferenza a un riferimento da essa equidistante e viceversa; il centro perse il nome e la sostanza, ne rimasero soltanto le vestigia dei monumenti e dei palazzi, passeggio e albergo dei “parvenus” contemporanei, mentre le periferie si addensarono di climi eterogenei e divennero gli spazi del silenzio dei separati.
Ecco, io vengo da quell’isolamento di una periferia romana, intristito e teso nel constatare le nuove pose senza stile (peggiori dei vecchi ma più rari snobismi) e ascoltare le menzogne nei salotti-parodie intellettuali della relativamente recente città bene, e nel dover tornare alla mia periferia a percepire il peso e però anche la profonda verità dell’isolamento.
D’altra parte nell’acme della maturità, sull’arco di quella sella che sta fra l’ultimo tratto ascendente e il primo discendente delle età, prima vicissitudini e poi riassetti familiari mi portarono a una vera provincia del territorio, in quel di Siena. Ebbene, non è che in questo habitat differente abbia trovato di meglio, anzi la situazione è complicata dalla “chiusura delle vanità”, fra gente che si autostima notevolmente per le competenze in qualche specialismo, oppure perché talvolta ha parlato con Fortini o Luzi che passarono di qui, o con Bilenchi nato nelle vicinanze (qualcuno lesse Tozzi per amor patrio locale).
Ho conosciuto critici d’arte (di nomea) che parlano di campiture e spatolate ma non sanno dir nulla della possibile trans-figurazione di un dipinto, commentatori di letteratura che replicano i contenuti espliciti di un libro senza mai pronunciarsi su uno stile; gli organismi culturali hanno i caratteri delle consorterie; insomma vedo gente niente affatto quieta piuttosto arrovellata intorno a personalistiche ambizioni. Naturalmente e fortunatamente incontro anche qualche persona per bene, ma tante volte ho provato delusione in quest’altro isolamento provinciale, e come già un tempo nella periferia di Roma, privato dello scambio intellettuale e del suo scopo disinteressato, per una decente sopravvivenza ho dovuto far leva sulle mie due risorse da isolato, gli studi preferiti e la scrittura.
Dunque esiste un’altra provincia, non dell’ambiente bensì tutta interiore, che è l’isolamento del diverso. Il poeta, il filosofo, l’intellettuale pensante e scrivente, i non ciarlanti sono degli isolati. Ora, questo profilo della “diversità” del quale parlo non intende né potrebbe confutarla; dico però che esso a me sembra contenere anche la “letteratura provinciale” o la “provincia culturale” che lei descrive. Ed è da quella radicale dimensione di isolamento che io mi sento continuamente provocato, e contro ogni ragionevolezza ancora mi protendo verso le ragioni della Letteratura.
Osservo onestamente la siderale distanza fra i miei intenti e le cose che un uomo “normale” pensa e compie; nel mio piccolo mondo cerco di non confondermi nella visuale ridotta di molti che mi circondano; tuttavia spesso questo lavoro solitario stanca; essere isolati, così periferici, anormali, spesso avvilisce e stanca. Così, in un classico circolo vizioso, vieppiù si accende il desiderio di un dialogo letterario non concitato ma senz’altro appassionato, come quello a parer mio rivelato dal suo “stile”, e condotto in santa pace, quietamente anche se dialetticamente, come nel “senso” del suo editoriale programmatico. Per questo plaudo e simbolicamente aderisco alla sua, per me simbolica, Nuova Provincia.
Luigi Arista
mercoledì 29 luglio 2015
sabato 18 luglio 2015
Cinque poesie di George Pasa
George Pasa, poeta rumeno, esperto di letteratura russa, traduttore di Esenin, un poco appartato rispetto ai grandi centri della vita letteraria, autore solo negli ultimi anni di quattro esili raccolte di versi, sembra riuscire a fondere in sé una duplice vena, una duplice sorgente d'ispirazione, proprio come quella «sorgente del tutto», «Izvorul a Toate», da cui trae nutrimento: da un lato, si potrebbe dire, la grande lezione di Nichita Stanescu, per quell'impareggiabile capacità di tradurre il dato naturale, il germinare e il pullulare della materia vivente, in sostanza verbale, in oggetto e materia di elaborazione letteraria, con quell'elemento di baudelairiano surnaturalisme che inevitabilmente ne deriva; dall'altro, forse, quasi allontanata o rimossa, l'ombra di Lucian Blaga, con quel suo senso panico, quasi panteistico della forza vitale che permea tutto il vivente e da esso si trasmette, si trasfonde e riversa nel discorso del poeta.
Ma si stende anche, sui versi di Pasa, il velo di una, per così dire, metaletteraria malinconia, dettata dalla consapevolezza che la pagina del poeta fissa in parole e segni, essi stessi perituri, una realtà e un mondo di sentimenti e di visioni anch'essi transeunti – mentre la Sorgente del Tutto continuerà, impassibile, a far scaturire correnti d'esistenza, a cui si contrappone, eterna, impassibile, la serenità quasi brancusiana della pietra.
E, ancora, simbolo malcerto della poesia e della sua condizione esistenziale, la figura di Ovidio, archetipo del poeta esule, perso fra i ghiacci, le tempeste e i suoni aspri di una lingua incomprensibile – così come esule, benché trasognato, ironico, quasi incredulo, è il poeta, smarrito nella realtà e nel linguaggio.
(introduzione e traduzione di Matteo Veronesi)
studio celeste
non aspettare colori inauditi
o un maestro che passa
di colore in colore,
qui c'è solo il fumo che sprigiona
l'ardere a un fuoco quieto
qui c'è solo il segno
che l'arte ha denti splendenti,
che mordono solo nel mezzo,
con il vantaggio d'essere il principio.
non esistono testimoni,
solo il restare sospesi nei pensieri
e il pennello che accarezza il legno
con ostentata dolcezza.
Nulla cade di sbieco,
solo di tanto in tanto
si gettano le scaglie,
perché sia pulito,
come prima di un'esposizione di sogni.
atelierul albastru
nu aştepta culori nemaivăzute
sau un maestru ce trece
din culoare-n culoare,
aici e doar fumul pe care-l face
arderea la un foc potolit,
aici e doar semnul
că arta poartă dinţi strălucitori,
muşcând numai din miez,
cu avantajul de a fi începutul.
nu există vreun martor,
doar s(t)are pe gânduri
şi penelul mângâind lemnul
cu duioşie făţişă.
nimic nu cade oblic,
doar din când în când
se mai aruncă molozul,
să fie curat,
ca înaintea unei expoziţii de vise.
Tempo di rimpianto
Dovevi essere le mie mani,
splendente sulla scala dell'assenza,
venire in pienezza lungo la via dell'attesa,
perché neppure un mattino mi destassi
senza sfiorare le tue palme.
Ora i frutteti si vestono di fiori
per altre ondivaghe illusioni;
io passo senza accorgermi del nettare
in cui la primavera ha mutato la propria bellezza,
il cielo limpido spento nell'azzurro,
non vedo che cenere a memoria del fuoco.
Senza rimpianto, presto sarà sera,
sapremo di non essere stati che ombre in un sogno insidioso,
per questo tutto ci duole, tutto ci grida in una sola voce:
«È il tempo per l'amore, è il tempo di ricordarvi
che tutti gli istanti hanno gemme e fioriranno per voi.
Passerà ad altri il vostro splendore, l'appassire
è l'ultimo confine prima della notte. Nulla va perduto:
il tempo ha memoria per tutto ciò che esiste.
Tenetevi saldi: passate per una stretta cruna,
e in equilibrio è il tempo del rimpianto».
E timpul pentru dor
Trebuia să fii mâinele meu,
strălucitor pe scara absenţei,
cu plin să vii în calea aşteptării,
nicio dimineaţă să nu mă trezească
fără mângâierea palmelor tale.
Acum înfloresc pomii pentru alte iluzii hoinare;
eu trec fără să iau în seamă nectarul
în care primăvara şi-a trecut frumuseţea,
limpezimea cerului stinsă-n albastru,
văd numai tăciunele ca amintire a focului.
Fără dor, va veni mai curând înserarea,
vom şti că n-am fost decât umbre într-un vis lunecos,
de-aceea toate ne dor, toate ne strigă-ntr-un glas:
„E timpul pentru iubire, e timpul să v-aduceţi aminte
că toate clipele au muguri şi vor înflori pentru voi.
Strălucirea voastră va trece în alţii, veştejirea
e ultima barieră înaintea nopţii. Nimic nu-i pierdut:
timpul are memorie pentru toate cele ce sunt.
Ţineţi-vă bine: treceţi pe o punte îngustă,
şi-n balans e timp pentru dor”.
Pietra dolce
Le ore, fissate con chiodo d'argento.
Il pedale della dimenticanza, calcato fino al rifiuto.
Fra i rumori, il silenzio come un uccello del cielo,
fermo alla fonte per addormentare l'istante.
Di tutto ciò che hai avuto,
non ti è rimasto che un piccolo cerchio di pietra
a cui intrecci il filo delle storie.
Sai che ha soltanto un'imperfezione l'erba:
prende la forma dei nostri corpi perituri,
poi dimentica il nostro passaggio.
Se l'oblio è la legge che il sonno
fila per noi dal giro delle stelle,
se dici “mai” quando sogni in eterno,
allora esistono anche ore impossibili,
che lasci vagare libere tra elefanti d'argilla,
allora esiste una cera con cui si modella
anche il nostro corpo prima di farsi scoria.
Tu resti una pietra dolce
su cui l'amarezza non ha intonato il suo canto,
pietra lasciata nel sonno della pietra.
O piatră dulce
Orele, tintuite în cuie de-argint.
Pedala uitării, apăsată pînă la refuz.
Printre zgomote, linistea ca o pasăre a cerului,
oprită la izvor s-adoarmă clipa.
Din tot ce-ai avut,
nu ti-a rămas decît un cercel de piatră
prin care îti treci firul povestilor.
Stii că iarba are doar un cusur:
ia forma trupurilor noastre pieritoare,
apoi uită că am trecut pe acolo.
Dacă uitarea e legea pe care somnul
ne-o toarce din rotirea stelelor,
dacă spui niciodată cînd visezi totdeauna,
atunci există si ore imposibile,
pe care le lasi să umble libere
printre elefantii de lut,
atunci există o ceară din care se modelează
si trupul nostru înaintea trecerii-n zgură.
Tu rămîi o piatră dulce
pe care amarul nu si-a exersat melodia,
piatră lăsată în somnul de piatră.
Ovidio
e se il simbolo della poesia fosse Ovidio
e se le mie stagioni si chiamassero
sogno silenzio tristezza e amore
e ancora il vento che batte nei vuoti della vita
vanità
allora perché non dovremmo anche noi dirci
esploratori dell'ignoto
poveri buffoni che rubano incantesimo all'istante
e poesia alla notte
e se il simbolo della poesia si chiamasse
Ovidio
Ovidiu
şi dacă simbolul poeziei ar fi Ovidiu
şi dacă anotimpurile mele s-ar numi
reverie tăcere tristeţe şi dragoste
iar vântul ce bate-n pustiurile vieţii
zădărnicie
atunci de ce nu ne-am numi şi noi
exploratori ai neştiutului
sărmani bufoni ce fură-al clipei farmec
şi-a nopţii poezie
şi dacă simbolul poeziei s-ar numi
Ovidiu
Tutto vive
Poiché ti sento qui,
o Sorgente del Tutto,
mi scrollo via il mantello dalle spalle
su cui cadono le pietre degli istanti,
lascio che mi lavino le piogge d'estate
dai peccati del dire in violente torsioni,
perché restino solo le parole
balsamo sulle cose.
Lo so fin d'ora: neppure una virgola
divide ciò che è stato da ciò che è,
solo punti di domanda
cercheranno risposta eternamente.
Il contesto si traccia in superficie con i segni del senso,
mai si inquadra la grande frase nella pagina,
si riverserà verso l'interno, fino a uscire da sé.
Non c'è sosta in questo divenire,
anche il filo di sabbia serba il canto della sorgente.
È vano chiedersi chi va, chi resta,
sempre l'argilla e l'acqua furono compagne,
il fuoco e l'aria scriveranno i segni
dell'ultima venuta.
E poiché ti sento qui, o Sorgente del Tutto,
scrivo su queste pagine mortali
ciò che non morirà
insieme a me.
Totul e viu
Pentru ca Te simt aici,
Izvorule a Toate,
mi-azvarl mantia de pe umerii
in care lovesc pietrele clipelor,
las ploile verii sa ma spele
de pacatele spunerii in rasuciri violente,
sa ramana doar cuvintele-balsam-peste-lucruri.
Stiu de acum: nicio virgula
nu desparte ceea ce a fost de ceea ce este,
doar semnele de intrebare
isi vor cauta intotdeauna raspuns.
Contextul se deseneaza in piele cu acele sensului,
niciodata nu are sa incapa in pagina marea fraza,
se va revarsa in interior, pana la iesirea din sine.
In toata curgerea aceasta nu exista intrerupere,
chiar firul de nisip mai pastreaza cantecul izvorului.
In zadar te intrebi cine pleaca, cine ramane,
lutul si apa au fost dintotdeauna prieteni,
focul si aerul vor scrie semnele ultimei veniri.
Si pentru ca te simt aici, Izvorule a Toate,
scriu pe aceste pagini pieritoare
ceea ce nu va pieri
odata cu mine.
domenica 5 luglio 2015
Giuseppe Feola, da “Il corno del narvalo”
Con
questi versi, che ho il piacere di presentare (e il cui titolo fa
riferimento ad un singolare cetaceo, la “balena cadavere”, sorta
di affascinante ed enigmatico unicorno marino), l'autore prosegue,
per così dire, il suo scavo verbale nelle profondità ultime e prime
della materia e
insieme della parola, risalendo, o discendendo, da un lato al fondo
minerale, organico, precosciente delle strutture viventi (a cui può
alludere il mito di Deucalione e Pirra, con l'immagine degli uomini
nati dalla pietra, ma anche quello di Orfeo, con l'emblema della
lira-teschio che sparge per i mari il suo armonioso canto, e così
pure il rito romano del lituo con cui si traccia sulla terra la
proiezione del templum
celeste), dall'altro all'origine, ugualmente profonda e remota, della
tradizione letteraria, sia essa quella novecentesca, reboriana
montaliana sereniana, del residuo disincarnato, della scoria,
dell'oggetto abbandonato alla sua matericità apparentemente senza
redenzione, sia essa quella tout
court italiana (la
Povertà- Morte a cui «la
porta del piacer nessun disserra», l'arduo cimento intellettuale del
procedere, come lamentava Bonagiunta Orbicciani, «per forza di
scrittura», inevitabilmente perso, ormai, il diretto contatto con
quella naturalezza che pure s'insegue). (M. V.)
Deserto
Wanderlied
1
La
mia vita è una spira polverosa
di
passi sparsi in una valle d’ombra;
solo
sul sasso, la crepa, la spina,
lo
sguardo – uccello non di cielo – posa.
Quanto
dal giro, qui, dell’orizzonte, nel-
la
stanza della vista si disserra,
sono
figure
scheggiate
in selce
dal
pugno della luce:
veli
di sogni
che
illudono la vista
ma
eludono la mano, al-
la
fine della via che vi conduce.
E in questa truce, livida
rovina, cosa
viva
non v’è, che ti accompagni.
Dentro
l’azzurro
vano del tuo cielo, l’anima
tace,
contempla,
e
non riposa.
Le
ossa1
da
Deucalione prole fu alla madre / Wanderlied 8
Sto
qui, seduto, come un accampato,
sui
miei
talloni,
sotto il Cielo terso e vano,
pulito
da esauriti temporali:
immerso
nel
tepore
passeggero d’una tazza
d’acqua
sporca di tè,
cavata
dal silenzio di una fonte
tra
le pïetre,
simili
alle ossa
ferme
del mio cranio.
(nel
grembo della forte)
Mezzanotte
Sentila,
qui,
nel
ticchettìo fermo
del
mondo,
giunta
quasi per nostra
familïare
compagnia – grembo
di
grano e legno –,
l’ora
del
tarlo e del mulino,
della
scossa del vento nel-
la
polvere, del tremito
nell’ombra
dell’opera
del ragno:
la
forte mezzanotte, cuor di pietra,
a
macinar dolore, e farne crosta,
midolla
e pula – pane
per
l’assoluta fame della mente;
ed
a vestir della furiosa carne
dei
suoi pensieri e sensi,
dell’animo
le
scarne desolate
sacre
ossa.
Frammento
d’un Orfeo
Se
la morte l’ha desolato in vita,
lo
sa la selva e il cùculo che canta
la
fonda nota e la perpetua pendula
canzone
ch’egli ascolta,
ipnotizzato
all’ombra d’una pianta.
Ma
se l’uccello fugge
e
tace nella fronda, grigio-alato,
“e
qui sia tolta”, dice
“fratello,
col furore
l’illusione,
radice
prima
del nostro faticoso stato”.
Risveglio
(I)
Attendo
il giorno,
la
quiete ed il momento
in
cui del vivere
in
ultimo usurato
il
facile fiorire si esaurisca;
e
del groviglio spesso
delle
immaginazioni e degli affetti
in
antico animato
non
resti che lo stento di un arbusto,
il
velo della cenere, la scoria,
gracile
e secca e frusta la memoria
e
vuota: come il cuore di uno stelo
che
la feroce aurora
di
un polveroso sole ha soffocato.
Attendo
che raggiunga
me
silenzioso in ascolto quell’ora
in
cui si toglie all’avida
vista
il contento;
e,
tra le aperte diradate spoglie
del
faticoso allucinare spento,
coscienza
di se stessa può guardare
dolore
e nudità, e verità
del
vano sopravvivere cruento.
Attendo
il punto del mio compimento:
ché
l’animo, dolendosi, è perfetto.
Sia
stretto allora il suo freddo legame
sul
cuore segreto
del
mondo. E guerra sia porta da me
per
questa morta ed arida contrada:
spada
sia l’occhio, che mira deserto.
Sia
pur trista, perduta in cieco fondo
la
mia estrema strada.
1
Ad Angelo Mammone Rinaldi, compagno di tè e trekking.
lunedì 22 giugno 2015
Elisabetta Brizio," FOLLOW YOUR DREAMS CON 'IL BOSCO INTERIORE' DI LEONARDO CAFFO"
“Crisi”:
tale il concetto-chiave di questo libro, e insieme la temibile
insidia a cui esso cerca di offrire una soluzione. «La crisi porta
progresso», diceva Einstein, una delle autorità qui richiamate. La
parola deriva infatti da kríno,
“separare”, “distinguere”, “discernere”, designa allora
un momento risolutivo che determina la dismissione di una maniera di
essere per un passaggio radicale ad un’altra. Si ha la sensazione
di vivere alla fine della storia, viviamo una crisi profonda che ci
rende inclini all’astensione, all’adattamento, all’accettazione
acritica del luogo comune. Insieme all’impressione di una
esperienza incompleta, anonima, “qualunque”. È il mondo-Moloch,
quello dell’urlo di Ginsberg: «Moloch che mi è entrato presto
nell’anima!», «Moloch in cui io sono una coscienza senza un
corpo!», «Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi
naturale!» (Howl,
tr. it. di L. Fontana). Ma abdicare a Moloch, sottoscrivendo lo
stigma di soggetti neutralizzati, non è l’alternativa ideale per
Leonardo Caffo, che stando a quanto afferma in Il
bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry
D. Thoreau
(Sonda 2015), ha imparato molto presto a distinguere e a disobbedire.
Il bosco è non-città ma non è totale isolamento o voglia
dell’irrimediabilmente distante. Nel bosco non ci sono soltanto
cose sotto altra luce, ci sono altre cose, sicuramente i presupposti
per un cambio di prospettive.
Con
le opere di Thoreau, filosofo trascendentalista e autore del
manifesto della disobbedienza civile, si cercano qui le ragioni delle
tante anomalie e disfunzioni della situazione presente. Che ruolo
abbiamo, noi, in questo delirio? Avrebbe detto Kerouac. Di Thoreau
vengono elusi riferimenti specifici che seguano rigorosamente la
cronologia delle sue opere (il volume è comunque corredato da una
ampia bibliografia, di una «Thoreau-grafia» per la precisione) allo
scopo di realizzare un discorso essenzialmente sincronico mediante un
continuum
narrativo
e argomentativo ispirato al suo insegnamento, messo ogni volta in
relazione con il contemporaneo: Thoreau è il tramite, e non il fine,
di questo libro, dove ad essere posto radicalmente in questione è il
nostro tempo. Per questo nelle pagine iniziali Caffo parla di
“finzione letteraria”, perché «attraverso Thoreau che critica
il proprio tempo, assistiamo in realtà a un’analisi del nostro».
Ciò suppone meccanismi che si ripetono nel tracciato della storia,
nonché una identità di fondo della natura umana, pur esplicandosi
essa in epoche distanti. Innanzitutto, Caffo dice, è l’umanità
come concetto
che va assunta quale oggetto di osservazione della filosofia.
Ogni
mutamento esige una azione. Un filosofo attuale che analizzi
l’odierna società concluderebbe che l’uomo contemporaneo non
agisce ma, addomesticato in seguito alla espropriazione delle sue
facoltà critiche, si limita a muoversi. Di più: in linea con
Wittgenstein, per cui l’umano è la somma delle sue azioni
possibili, l’uomo contemporaneo non esiste neppure. Unicamente è,
senza esistere. Perché le nostre scelte sono soltanto esteriori,
sono «giochi truccati», scelte falsate e falsanti, preventivamente
orientate dalle già ginsberghiane «fabbriche del pensiero».
Potenzialmente liberi, siamo di fatto asserviti e realizziamo gli
obiettivi di chi ci ha alterati, resi docili, manipolati: omologati
sia sotto il profilo dell’esistere che in quello del valore
individuale. Caffo intravede nella filosofia eccentrica e
radicalmente trasgressiva di Thoreau la ribellione alla rassegnazione
e la possibilità di svincolarsi dal potere assoggettante delle
organizzazioni statali e culturali. In una prospettiva che deprime le
umane potenzialità poco senso avrebbe la domanda: «che fare?»,
piuttosto se ne impone un’altra, osserva Caffo, cioè «che fare
per poter ricominciare a poter fare?».
La
contemplazione in Thoreau, nell’isolamento di Walden, è rivolta al
superamento della condizione del muoversi senza agire, quel movimento
che secondo Caffo è «esattamente un istituzionalizzarsi del fare
senza intenzione», l’interdizione della libertà di esistere come
soggetti di una azione all’altezza di concorrere a trasformare lo
stato delle cose. Ogni azione propriamente detta prelude a un atto,
cioè a «qualcosa che sposta certe proprietà del mondo cambiandolo
dall’interno». Non è metodo, è una res
nova
destinata a permanere. L’atto è centrale, per Caffo. È un’idea
che fa parte del lascito ideale di Carmelo Bene, che faremmo meglio a
considerare anche come un sophos,
un “saggio”, se non proprio un philo-sophos,
certamente sui
generis.
Ecco il nodo solenne cui Caffo fa riferimento: «L’atto è l’oblio
e per agire devi dimenticare, se no non puoi agire». E quindi? Prima
di fare, noi pensiamo di fare, cioè di poter fare. Ma il pensiero di
questo “poter fare” è già condannato in qualche modo, e
depotenziato: è non fare. Perché l’evento da testimoniare ha già
avuto il suo Adamo nomenclatore, è già stato nominato, definito,
concluso. La conseguenza paradossale è che quello che si fa è fatto
soltanto perché lo si può fare.
Una
delle distinzioni preliminari su cui basarsi per una vita
socializzata è quella tra “giusto” e “giustificato”, dove il
giustificato potrebbe contribuire, come di fatto fa, a pregiudicare
l’accezione di “giusto”, legittimata da una diffusa – e
ingiustificata – supposizione di liceità. Così non può esserci
azione, ma solo movimento non compatibile con la nozione di agire.
Perché l’agire si renda fattibile diviene necessario educarsi a
discriminare, non adeguarsi, «scegliere di non scegliere» tra
opzioni imposte oppure vincolate, o palesemente non giuste ma solo
accreditate da una accondiscendenza generalizzata. Ma è possibile
farlo da soli?
La
vacanza sul lago Walden è finalizzata a riconsiderare le idee di una
natura e di un mondo antecedenti alla manomissione su di essi
condotta dall’animal-umano. Ognuno di noi ha il proprio Walden, il
proprio “bosco interiore”, luogo della visualizzazione dell’anima
ritrovata, e Caffo dice del suo. A condizione che il bosco interiore
non si risolva in un desiderio/necessità di emarginarsi che si
converta in distacco, in volontà di defilarsi dallo scenario
compromesso del mondo per una spiritualizzazione della vita o per una
esclusiva focalizzazione su se stessi. Con l’isolamento va invece
perseguito l’obiettivo contrario, cioè il riprendersi la vita
nell’avvertimento del suo legame con le origini, così recuperando
le radici della nostra libertà quale condizione dell’agire.
Scriveva Thoreau che «il migliore dei governi è quello che ci
governa di meno», oppure quello «che non governa affatto». Le
organizzazioni statali deprimono la nostra natura di soggetti
dell’azione, di qui il pensiero anarchico di Thoreau, filosofo
dell’anarchia che cerca di riguadagnarsi una autonomia morale
uscendo dai limiti di un controllo esterno: e in ciò sta il senso
dell’invito alla disobbedienza civile, cioè a una resistenza
attiva tesa a ricominciare da noi stessi, dalle nostre potenzialità
di esistenza e di valore. In Thoreau l’anarchia non si risolve in
una forma di negativismo che si arresti alla fase iniziale; per lui
anarchia – scrive Caffo – «è una sorta di ideale regolativo per
spingere le società a riconoscere l’importanza della valutazione
degli individui, e delle loro singole istanze». Lo Stato non va
insomma accettato in maniera inerte, e qui si inscrive la critica
delle istituzioni da parte di Thoreau, e di Caffo con lui: gli
oggetti sociali, da noi istituiti allo scopo di sostenerci, hanno
finito per esercitare su di noi un’azione di controllo e per
neutralizzarci come soggetti deliberanti. Accettiamo la devastazione
della natura e la mattanza animale come procedure ineluttabili e
irreversibili. Se provassimo a trasferire Thoreau ai nostri tempi,
cosa ci aspetteremmo che dicesse in merito alla sperimentazione
animale, alle centrali nucleari, ai disastri ambientali, alla
gestione dei beni comuni, ecc.?
La
sentenza di Zarathustra per cui “Dio è morto” per Caffo va presa
in senso positivo: è una motivazione a riproporre la questione del
senso volgendosi verso versioni della vita vincolate alla dimensione
del corpo e ad un qui ed ora teso a restituire un rilievo finalistico
all’esperienza quotidiana. «Siamo organi di un unico corpo»,
scrive Caffo in accordo con Thoreau e in opposizione a Cartesio;
rimettersi alla prospettiva di una dissociazione mente/corpo
significa pregiudicare la nostra concezione dell’esistenza, ma
prima ancora la nostra complessità esistenziale. La riflessione da
condurre sul vivente deve essere unitaria, organica, strutturante.
«Siamo tubi digerenti», diceva Carmelo Bene, e per Caffo in tale
assunto non c’è alcunché di riduzionistico, perché la vita è
una biologia, scienza del corpo e racconto del corpo. L’assenza di
una tensione dialettica tra mente e corpo, e insieme l’enfasi
protratta sulla componente intellettuale, hanno finito per
compromettere la contemporaneità.
Lontanando,
nel mettersi alla prova del silenzio, emerge l’imperfetto del
mondo. Il silenzio in Thoreau non ha tendenza infinitiva ma attiva
(Caffo propone la diade «silenzio e rivoluzione», perché è con
l’esperienza del silenzio che si articola l’idea di una
rifondazione comunitaria); la prospettiva lontanante non configura un
abbandono dei rapporti e dei legami, ma risponde all’esigenza di
renderci consapevoli dei vincoli etici e del valore dell’aldiquà.
Quindi nulla di individualistico né di mistico, quanto filosofia da
realizzare qui, adesso, e non in un altrove nebuloso oppure
inaccessibile. Non si tratta tanto di capire il silenzio, di
avvertirlo come dimensione della vacuità, o come blanc
dell’esperienza per poi attribuirgli maggiore eloquenza e pregnanza
rispetto alla parola, quale luogo dello svelamento dell’enigma o di
qualche lato segreto. Bensì di assumerlo come sospensione della
parola superflua, soverchiatrice, sviante, strumentale; come
interludio illuminante che promuova nuove assunzioni etiche e con
esse l’attivazione dell’azione. «E sento di nuovo la domanda che
dimora / nelle nostre menti sull’idea / che è dietro all’uomo il
suo posto nell’universo e / l’universo, il suo posto nell’uomo»
(John Wieners, I
walk under the
distant
stars,
tr. it. di F. Pivano). Con il distacco dall’ultimo orizzonte del
mondo – nel silenzio nella natura e non con il silenzio della
scrittura – emerge come il nostro congedo dalla natura assume una
centralità rilevante in filosofia. Avvertirsi come parte della
natura contribuirebbe ad arginarne la distruzione (che sarebbe
autodistruzione), sentirsi come “animale naturale”, piuttosto che
come risultato della società, determinerebbe inoltre l’estinzione
dell’idea di diversità, e dell’idea stessa di nazione.
Al
silenzio inerisce la bellezza, che ha carattere morale: «bello –
scrive Caffo – è ciò che infonde, al di là delle convenzioni,
una sensazione di unità con il resto delle creature viventi. In
questa parte del bosco, sempre più metaforica e spirituale,
scopriamo che essere artisti significa anticipare il mondo di domani:
distinguiamo, sui bordi del lago, il futuro dall’avvenire. E
facciamo una scelta: il domani non può che essere meglio dell’oggi».
L’idea restituita da Thoreau è che il filosofo sia un artista. Per
lui l’estetica non è teoria della percezione ma teoria dell’arte,
e l’opera d’arte superiore è la natura. Nessuna intenzione
estetizzante, la natura non imita affatto l’arte ma è essa stessa
opera d’arte, con evidente rovesciamento dei canoni che saranno
propri dell’estetismo. In Walking,
che Caffo definisce un’opera estetica «di profonda valenza
ecologica», Thoreau disegna una concezione dell’arte come qualcosa
che va ben oltre le competenze che sottendono agli umani prodotti
estetici. Molto poco di artistico possiedono quelle opere
incoordinate dalla vena dissacratoria (chissà cosa Thoreau avrebbe
pensato di fronte ad opere basate sul sovvertimento dei canoni),
perché l’arte «è anche natura» e il bello non è proprietà che
si possa attribuire dall’esterno, da un atto creativo, e neppure
motivando l’assalto alle forme e l’arbitrarietà eletta a regola
quali antidoti alla rimozione – come talora si argomentava nel
secolo scorso. L’esteticità è ingenita alla natura, di cui le
forme espresse dell’arte sono solo fenomeni secondari. E se al
museo si riservano cure maggiori rispetto a quelle che vengono
destinate al mondo naturale, ciò è emblematico di fino a che punto
possa spingersi il fattore economico, che tutto tende a incorporare e
a tradurre in termini di valore di scambio. Lo sguardo sulla bellezza
deve essere disinteressato, da essa possiamo soltanto trarre quel
senso di armonia, di euritmia, di pienezza e di compiutezza
spirituali, che solo il bello in natura – in virtù della sua
oggettività e indipendenza tanto dal soggetto percepiente che da
convenzioni o soluzioni stilistiche – è in grado di trasmetterci.
Walden
o
la vita nei boschi
è il punto di partenza di un possibile percorso artistico
convergente con la filosofia, parola di cui andrebbe riconsiderata la
base etimologica: la filosofia è critica, e non amica, della
sapienza. «Sovvertire, cambiare e trasformare: la filosofia è la
messa in atto degli ideali, che il bosco interiore, durante tutto il
percorso, trasmette al nostro io più intimo e profondo». Viene
accordata alla filosofia la piena facoltà di tenere distinte (sulla
scorta di Derrida) l’idea di un futuro come scorrimento del tempo
da quella dell’avvenire, cioè di un futuro orientato dall’etica,
che predica il rispetto verso la natura. Tuttavia, le dottrine
possono essere assunte a prescindere dal soggetto che le elabora?
Detto altrimenti, il dire sarebbe ancora attendibile, e ricevibile,
se non conforme al fare? Non per Thoreau, e neppure per Caffo: ogni
filosofia è esercizio sterile qualora non si traduca in applicazione
pratica della teoria e non faccia corpo con la vita, cioè con ciò
che eccede il puro lato speculativo della chiarezza e distinzione o
della disposizione all’universale. «Diventa i tuoi ideali», è
l’esortazione di Caffo.
Il
bosco, come abbiamo visto, è rifugio reale per un riorientamento che
realizzi in atti una visione delle cose scevra da sovrastrutture.
Tuttavia è anche un fattore simbolico. La vita sociale è un’altra
e va vissuta «nonostante», mettendo in opera il paradigma di
Bartleby, I
vould
prefer
non to:
è inevitabile inoltrarsi nella vita, altrimenti tutto si
arresterebbe a un immobilismo senza soluzione, tuttavia è vitale
farlo «nonostante». Leggiamo dai diari di Kerouac: «questa
continua ricerca di un ruolo è in sé nemica dell’esistenza. La
vita potrebbe essere così, “la vita è questa”, potrebbe essere
un desiderio umano e autentico, e tuttavia è anche la parte mortale
dell’esistenza e il nostro scopo, dopo tutto, è quello di vivere
ed essere autentici. Vedremo» (Windblown
World,
tr. it. di S. Villa).
Restano,
nel complesso libro di Caffo, il richiamo forte alla disobbedienza e
una speranza: quella che anche una azione minima, che oggi potrebbe
apparire di scarsa incidenza, potrà rivelarsi decisiva per una
umanità a venire. Il
bosco
interiore
è scandito in sette «fermate»: «Cosa può fare un uomo, solo?»,
che verte sulla valenza dell’azione del singolo; «Ognuno di noi,
ognuno di voi», sulla trasformazione come opera unanime; «Cambiare
ciò che dovrebbe cambiarci», dove l’idea di cambiamento viene
addotta alla luce della disobbedienza verso quelle istituzioni
tradizionalmente deputate all’incremento della creatività
individuale; «Vivere come artisti»: qui, a partire dalla
indissolubilità di etica ed estetica, Thoreau si misura con la
bellezza, che trasposta nel contemporaneo si configura come «bello
artificiale» in quanto monetizzata, rientrando così anch’essa nel
meccanismo del potere; «La politica, veramente», sul divario tra
gli Stati e la società e sulla dimensione comunitaria; «Selvaggio
sarà lei», sul senso dello stare ai margini e sul rapporto con una
natura non sempre docile; «Cosa può un filosofo?», sul ruolo di
una filosofia che oltrepassi una sfera teorica e astrattiva.
Attraversano questo discorso filosofico non professorale
numerosissimi riferimenti e collegamenti con altre discipline e con
altri canoni. Fermarsi ai mezzi termini non porterebbe da nessuna
parte. Senza esclusione di colpi, allora, e con toni a tratti
tutt’altro che deferenti, in questo manifesto aggiornato della
disobbedienza civile – un «Manifesto per una vita non
addomesticata (o del “come vivere liberi nonostante”)»
chiude questo percorso – si tende a far risaltare la tenuta e la
radicalità ispirativa dell’opera di Thoreau e a testarne il valore
perenne nella ricezione da parte delle varie generazioni fino a noi.
Sosta obbligata, la generazione dei beat battuti & beati, dei
vagabondi del Dharma, «o semplicemente “Sulla strada”», diceva
Kerouac. Non
alla
fine della strada.
lunedì 23 marzo 2015
Chiara De Luca, Poesie per Ferrara
Come scrisse splendidamente, tempo addietro (nel n. 9, ottobre-dicembre 2003, di «Cartapesta», piccola e preziosa rivista imolese oggi defunta), Andrea Pagani, «sarebbe stato difficile trovare una città più adatta di Ferrara – dannunziana “città del silenzio”, con le sue ampie strade deserte, con la sua sospesa solitudine, col senso di attesa e di mistero che trasuda dai suoi monumenti –» ad ospitare e sollecitare la genesi della pittura metafisica. Città, proseguiva, tale da ispirare «la suggestione per un punto di vista surreale del mondo; le pieghe del mistero che si nascondono sotto i contorni della realtà; immagini di sospensione, attesa, presagio; una sorta di occhio veggente e di accostamenti improbabili fra le cose».
Lo stesso vale per questi versi di Chiara De Luca, che ho l’onore di presentare. Testi in cui vi è, certo – ma remota, privata di qualsiasi compiacimento decadente, di qualsiasi svenevolezza ed estenuazione estetizzante –, l’eco della città del silenzio dannunziana (o di quella «Ferrara la morta» di cui Corrado Govoni, ad emulazione della Bruges di Rodenbach, cercò, a inizio Novecento, di plasmare l’immagine e il mito); ma nei quali prevale un ritrovato respiro, una rinnovata ariosità, discorsività e umanità del canto, oltre, e non al di qua, di ogni tentazione di formalismo o d’intellettualismo chiusi in se stessi.
Il che non indebolisce, ma semmai rafforza, la portata simbolica, la correlatività esistenziale dei luoghi, degli ambienti, dei nomi, e dei ricordi che essi, quasi proustianamente, richiamano e ridestano.
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domenica 8 marzo 2015
Antonio Castronuovo, "Elogio dell’editore a pagamento"
Faccio innanzitutto notare come gli editori a pagamento abbiano considerevolmente ampliato la platea degli scrittori, rendendola più folta di quella dei lettori. Come non elogiarne la pedagogica funzione? Chiediamoci onestamente: è più difficile e istruttivo leggere o scrivere? Ovvio: è più difficile e istruttivo scrivere. Dunque gli editori a pagamento, stimolando la pratica della scrittura (che per sua intima natura mira allo sbocco pubblico), hanno concorso al programma educativo nazionale più e meglio della Scuola Privata (e anche di quella Pubblica, per quanto assai meno autorevole).
L’editore a pagamento è poi figura premurosa: risponde infatti sempre e subito. Basta spedirgli un dattiloscritto che tratti di qualunque argomento, che perfino ricada nell’esiziale categoria poetica ed egli, pochi giorni dopo la ricezione, reagisce con una letterina nella quale annuncia che il prodotto è pubblicabile. In parole povere: l’editore a pagamento facilita il rapporto scrittore-editore. Vuoi mettere l’ansiosa attesa di anni imposta dai cosiddetti editori “veri”?
L’editore a pagamento è un critico affabile, non di quelli idrofobici che ce l’hanno a morte con qualche scrittore o con un certo genere di scrittura. Oltre a rispondere rapidamente, egli prodiga un giudizio critico di trama solidale e umanissima, del tutto soddisfacente per l’autore: comunica infatti quasi sempre che l’opera ricevuta – oltre a essere pubblicabile – è anche originale e seducente.
Ricordo con una certa trepidazione quando pubblicai il mio primo libro presso un editore a pagamento; ne ricordo la lunga lettera che mi spedì su carta intestata (all’epoca non esisteva ancora la posta elettronica); ricordo il garbo cordiale con cui mi annunciava la singolarità dell’opera, la rara capacità con cui avevo toccato temi di «diffuso interesse», la strutturazione organica del lavoro, insomma – terminava la lettera – «una vera novità». Tale da averlo indotto a pubblicare il lavoro e, per non aggravare i costi, a uscire con una tiratura minima, tutta a mio carico. Ma beninteso: l’eventuale ristampa sarebbe stata totalmente a sue spese.
Grande fu la mia gioia, anche se poi – per il mancato successo dell’opera, che non vinse alcun premio letterario, non godette di nessuna recensione e non vendette neanche una copia – non si giunse alla ristampa. Ma che importa? Nel definirla opera singolare, l’editore a pagamento era stato molto acuto: non fu colpa sua se la mia illusione si trasformò, più tardi, in disinganno. Anzi, anche questo è tema di elogio.
L’editore a pagamento apparecchia infatti per l’autore una bella illusione, senza omettere di donargli poi la capitale esperienza della disillusione, proprio come accade per l’amore (radicalmente erroneo il concetto di amore infinito espresso dal Sonetto 116 di Shakespeare). Ozioso ripetere quanto ciò sia essenziale alla maturazione: delusione su delusione, la vita si snoda nel tempo, mostrando il suo vero volto di illusione deludente. L’editoria a pagamento non fa che profilare una delle tante delusioni della vita, in ciò palesando il proprio ufficio sapiente.
Grazie all’editore a pagamento, inoltre, chi non ha la stoffa dello scrittore – che consiste nel perseverare – si arrende. Allestendo lo smacco editoriale, egli opera come un setaccio che seleziona il buon grano e trattiene la pula. Dopo l’insuccesso, infatti, quasi tutti gli scrittori entrano nella folta categoria degli “autori di un solo libro”. Solo una testarda minoranza s’incaponisce e produce un secondo titolo, anch’esso pubblicato dall’editore a pagamento. Per colui che non s’è arreso i giochi si compiono dal terzo libro: c’è chi continua a pubblicare presso l’editore a pagamento, c’è chi trova sbocco editoriale “vero”. Ma si tratta di una minoranza.
Insomma, gli elogi verso l’editore a pagamento si sprecano ed è cosa turpe lamentarsi di lui. A farlo, con più alto strepito, sono gli scrittori esordienti, proprio quelli che nessuno leggerebbe mai, neppure se costretto. Invece l’editore a pagamento ha gettato l’occhio su qualche loro frase, ha compreso almeno di cosa l’esordiente stia parlando. Certo, lo abbiamo già detto: non che l’editore a pagamento sia così ottuso da leggersi tutti i dattiloscritti che riceve. Se leggesse non avrebbe certo il tempo di creare reddito, ulteriore motivo di elogio nei suoi confronti.
Agli esordienti, poi, va rammentato che molte grandi opere della storia letteraria furono pubblicate dagli autori a proprie spese presso un qualche tipografo (saltano in mente i casi della Stagione all’inferno di Rimbaud, del Porto sepolto di Ungaretti, dei Canti orfici di Campana). Auspico che l’esordiente sia più illuminato e valuti ogni aspetto del problema; solo così potrà convincersi della bontà dell’editore a pagamento e – come me – sollevarne un encomio.
Approdati alla stampa, altri motivi di plauso affiorano. Non sarà passato inosservato che i libri dell’editore a pagamento sono artatamente farciti di refusi, sia quelli d’autore sia alcuni di apposita istituzione (fenomeno notissimo: trovare che una propria frase sia stata corretta chissà da chi, producendo un errore che non c’era). Chi, in un empito di stravaganza, leggesse una pagina prodotta da un editore a pagamento, noterebbe agevolmente la quantità dei refusi. Ma quella pagina – futile e monotona come solo gli esordienti sanno fare – diventa di colpo, per il lettore severo, un campo di ricreazione culturale.
Va poi considerato che la lamentela sui costi è del tutto fuori luogo, trattandosi di valori accessibili. Un’edizione a pagamento (che so: una plaquette di poesie, un romanzetto, una raccolta di articoletti) viaggia oggi attorno ai mille euro, grazie anche all’editoria digitale che ha morigerato i costi. Cifra non elevata, se si pensa che equivale a ciò che serve per acquistare un piccì portatile, una mefitica settimana di villeggiatura per due persone, 60 pizze quattro stagioni con birra e tiramisù. Forse che un vero scrittore non rinuncerebbe a 60 pizze pur di vedere pubblicato il proprio libro?
Quei mille euro non sono affatto troppi; incomprensibile dunque l’irosa idea che chi cade nella rete dell’editore a pagamento sia uno stupido che merita di essere dilapidato. Anche in questo caso non vengono stimati i vantaggi. È noto che la miseria aguzza l’ingegno, e dunque lo scrittore dilapidato ha migliori possibilità di emergere rispetto a quello benestante.
Infine, un elogio che sorge dalla mia personale esperienza. Ho già narrato la trepidazione per il primo libro pubblicato a pagamento; giunsero poi anni in cui un paio di “veri” editori vollero scommettere su di me. Trascorsa quell’epoca di fiducia, nessuno oggi mi pubblica più, e sto pian piano tornando verso gli editori a pagamento. Che mi prendono per mano lungo la mesta rotta dell’autore anziano e in ombra.
Logoro e stremato, nulla più ho da dire, nulla più di originale da mostrare. Ed ecco che l’editore a pagamento mi accoglie a braccia aperte, e mi concede ancora una rasserenante illusione. Grazie, editore a pagamento, per il servizio che fai alla gioventù esordiente e alle vane fantasticherie degli autori sfiancati. Grazie.
(«Il Caffè illustrato», n. 76-78, gennaio-giugno 2014, pp. 8-9)
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venerdì 6 marzo 2015
Pietro Pancamo, "Gli intercalari del silenzio"
Offro ai lettori, da una raccolta inedita di Pietro Pancamo, questo prezioso esempio di poesia silenziaria che, del silenzio, esplora le varie dimensioni: tanto il lirismo quanto l'amarezza, sia la crepuscolare perplessità sentimentale che il pianto e il grido trattenuti a fatica, così il raccoglimento interiore come il sorriso, o la risata, beffardi e disgreganti.
L'ironia, spesso amara, o addirittura tragica, ghignante, ferale, è (come in Laforgue, o in certo Lucini) l'altra faccia del lirismo; vi è, in questo mondo poetico, una sottile dinamica esistenziale e semantica la quale lega i due elementi, i quali non possono non coesistere ed interagire.
Il simbolismo europeo, a prima ancora il romanticismo, ben sapeva che la musica è nelle pause dei suoni forse ancor più che nei suoni stessi, e che le melodie non udite, le unheard melodies, proprio perché solo immaginate o sognate, impossibili da incarnare e far risuonare per gli strumenti umani, sono più dolci di quelle udite.
Qui, però, è il silenzio stesso, indipendentemente dai suoni di cui è negazione (ma che nel contempo rende possibili, separandoli, modellandoli, scindendoli dall'indistinto), a parlare, a pronunciare il vuoto. I suoni turbano la perfezione del silenzio; l'essere, si potrebbe dire con Valéry, non è che un vizio nella purezza del non essere.
Ma l'altra faccia del silenzio è un tripudio di suoni; la poesia stessa è, come fu detto, “un silenzio rovesciato”. Tutti i suoni, tutte le voci le forme le espressioni che il silenzio racchiude in sé, fagocita, pareggia ed annulla (il rumore bianco, somma di tutti i suoni, è un soffio o un fruscio lievissimo, appena al di sopra del silenzio), esplodono in un tripudio caotico, quasi surreale, con transizioni imprevedibili e contrappunti stridenti, non appena si lacera il velo del silenzio, e ne viene schiuso lo scrigno celato.
Eppure, voci suoni forme sono sempre insidiati da quello stesso silenzio da cui nascono, e dovranno ad esso tornare, come in un ciclo apocalittico d'Alfa ed Omega. La poesia è appunto questo assiduo esorcismo del silenzio, questa sorta di creazione continua che al silenzio strappa ogni parola pronunciata e ogni istante vissuto.
(M. V.)
Filosofia
Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio
che smette, ogni tanto,
di pronunciare il vuoto.
Allora qualche indizio di materia
deforma l’aria,
descrivendo le pause del nulla
prima che il silenzio
si richiuda.
(Le mani s’infrangono
contro un gesto incompiuto)
Verande d’azzurro
I
Un laghetto di fumo nel cuore… Processioni di frasi lasciano calzature d’intelligenza
prima di entrare nella moschea delle bocche.
II
I profumi sorridono tra le maschere di foglie. E lettere serpentine
indossano pastrani di luce.
III
Un gregge di bagliori
alle pendici dei versi
nasconde l’Ulisse della mia ispirazione…
Canicola di gioia, tanfo d’allegria
negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero. Spranghe di felicità
negli acuti del sole
e, fra verande d’azzurro, spaventapasseri di poesia…
IV
Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…
Le nuvole sembrano covoni di luce, capanne di fieno
intorno al pagliaio del sole. Nel raspo degli alberi
festoni d’aria, e gli occhi sono brandelli di nostalgia tra festuche di tempo allegro.
Stelle filanti d’erba, pendii agitati fra la bonaccia della pianura…
V
Terra diroccata e baracche di collina. Villaggi di sole.
Dal lievito nullo di rocce azzime,
paesini salgono
pioli di luce.
Poeti
Noi che visitiamo carmi di sole
brindiamo con versi e parole.
Scriviamo sorrisi
e sentimenti in codice;
insonni di vita
andiamo sposi
ai nostri occhi.
Se la tua voce
Se la tua voce desidera cullarsi
nel mio cuore,
troverò i sorrisi
con la mano di un giocoliere
e i miei minuti saranno il volto di acrobazie
che, da una mano all’altra,
volano fra una mano e l’altra.
Il destinorizzonte
Stracci di sonno coprono,
masticano il corpo della notte
diafano di tenerezza;
lo avvinghiano
sinuoso di buio
– flessuoso di membra stellate –
e lo attraversano d’amore.
Poi, fosforescente,
lo sguardo della nebbia,
scosso di stanchezza,
si espande lento nel cuore
come un gas di desideri
volatilizzati.
Mentre il mio destino,
guantato dalla notte,
scende nei sobborghi dell’anima:
strade oscure di pensiero
e siepi d’amore
s’intersecano nel mio nome.
Il destinorizzonte
s’attorciglia
a questa landa di tempo.
«Chi» – si domanda –
«striscerà nella roccia del canto
la gioia, turgida
come i seni di un fiore incantato?».
Parole dal silenzio
Ricorda il mistero
che fioriva in un sospiro,
dove la morte ha tessuto il nido
come una spiaggia
di parole taciute;
come un barbaglio di sogni trasparenti,
orchestra di anime perdute.
La fuga mancata
La voce trasuda parole d’accento piagato
ma è tiepido il grido del tuo respiro,
le piaghe troppo soffocanti
perché tu abbia il fiato d’urlare.
Morire da te
è una fuga troppo leggera
per avere il sollievo.
Così
un pantano di figure
nel cuore
e il giorno s’increspa
a raccogliere il tuo soffio.
Nausea
Morbido silenzio, soffice
come una preghiera del sonno.
Il buio che adora fruscii e parole:
il buio, affannato dal mio respiro,
può solo accarezzare la
nausea di questa vita.
Nel giorno,
sputo della notte,
fiori freddi
come steli di pioggia.
Un’orma di luce
imbavaglia lo spazio.
L'ironia, spesso amara, o addirittura tragica, ghignante, ferale, è (come in Laforgue, o in certo Lucini) l'altra faccia del lirismo; vi è, in questo mondo poetico, una sottile dinamica esistenziale e semantica la quale lega i due elementi, i quali non possono non coesistere ed interagire.
Il simbolismo europeo, a prima ancora il romanticismo, ben sapeva che la musica è nelle pause dei suoni forse ancor più che nei suoni stessi, e che le melodie non udite, le unheard melodies, proprio perché solo immaginate o sognate, impossibili da incarnare e far risuonare per gli strumenti umani, sono più dolci di quelle udite.
Qui, però, è il silenzio stesso, indipendentemente dai suoni di cui è negazione (ma che nel contempo rende possibili, separandoli, modellandoli, scindendoli dall'indistinto), a parlare, a pronunciare il vuoto. I suoni turbano la perfezione del silenzio; l'essere, si potrebbe dire con Valéry, non è che un vizio nella purezza del non essere.
Ma l'altra faccia del silenzio è un tripudio di suoni; la poesia stessa è, come fu detto, “un silenzio rovesciato”. Tutti i suoni, tutte le voci le forme le espressioni che il silenzio racchiude in sé, fagocita, pareggia ed annulla (il rumore bianco, somma di tutti i suoni, è un soffio o un fruscio lievissimo, appena al di sopra del silenzio), esplodono in un tripudio caotico, quasi surreale, con transizioni imprevedibili e contrappunti stridenti, non appena si lacera il velo del silenzio, e ne viene schiuso lo scrigno celato.
Eppure, voci suoni forme sono sempre insidiati da quello stesso silenzio da cui nascono, e dovranno ad esso tornare, come in un ciclo apocalittico d'Alfa ed Omega. La poesia è appunto questo assiduo esorcismo del silenzio, questa sorta di creazione continua che al silenzio strappa ogni parola pronunciata e ogni istante vissuto.
(M. V.)
Filosofia
Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio
che smette, ogni tanto,
di pronunciare il vuoto.
Allora qualche indizio di materia
deforma l’aria,
descrivendo le pause del nulla
prima che il silenzio
si richiuda.
(Le mani s’infrangono
contro un gesto incompiuto)
Verande d’azzurro
I
Un laghetto di fumo nel cuore… Processioni di frasi lasciano calzature d’intelligenza
prima di entrare nella moschea delle bocche.
II
I profumi sorridono tra le maschere di foglie. E lettere serpentine
indossano pastrani di luce.
III
Un gregge di bagliori
alle pendici dei versi
nasconde l’Ulisse della mia ispirazione…
Canicola di gioia, tanfo d’allegria
negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero. Spranghe di felicità
negli acuti del sole
e, fra verande d’azzurro, spaventapasseri di poesia…
IV
Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…
Le nuvole sembrano covoni di luce, capanne di fieno
intorno al pagliaio del sole. Nel raspo degli alberi
festoni d’aria, e gli occhi sono brandelli di nostalgia tra festuche di tempo allegro.
Stelle filanti d’erba, pendii agitati fra la bonaccia della pianura…
V
Terra diroccata e baracche di collina. Villaggi di sole.
Dal lievito nullo di rocce azzime,
paesini salgono
pioli di luce.
Poeti
Noi che visitiamo carmi di sole
brindiamo con versi e parole.
Scriviamo sorrisi
e sentimenti in codice;
insonni di vita
andiamo sposi
ai nostri occhi.
Se la tua voce
Se la tua voce desidera cullarsi
nel mio cuore,
troverò i sorrisi
con la mano di un giocoliere
e i miei minuti saranno il volto di acrobazie
che, da una mano all’altra,
volano fra una mano e l’altra.
Il destinorizzonte
Stracci di sonno coprono,
masticano il corpo della notte
diafano di tenerezza;
lo avvinghiano
sinuoso di buio
– flessuoso di membra stellate –
e lo attraversano d’amore.
Poi, fosforescente,
lo sguardo della nebbia,
scosso di stanchezza,
si espande lento nel cuore
come un gas di desideri
volatilizzati.
Mentre il mio destino,
guantato dalla notte,
scende nei sobborghi dell’anima:
strade oscure di pensiero
e siepi d’amore
s’intersecano nel mio nome.
Il destinorizzonte
s’attorciglia
a questa landa di tempo.
«Chi» – si domanda –
«striscerà nella roccia del canto
la gioia, turgida
come i seni di un fiore incantato?».
Parole dal silenzio
Ricorda il mistero
che fioriva in un sospiro,
dove la morte ha tessuto il nido
come una spiaggia
di parole taciute;
come un barbaglio di sogni trasparenti,
orchestra di anime perdute.
La fuga mancata
La voce trasuda parole d’accento piagato
ma è tiepido il grido del tuo respiro,
le piaghe troppo soffocanti
perché tu abbia il fiato d’urlare.
Morire da te
è una fuga troppo leggera
per avere il sollievo.
Così
un pantano di figure
nel cuore
e il giorno s’increspa
a raccogliere il tuo soffio.
Nausea
Morbido silenzio, soffice
come una preghiera del sonno.
Il buio che adora fruscii e parole:
il buio, affannato dal mio respiro,
può solo accarezzare la
nausea di questa vita.
Nel giorno,
sputo della notte,
fiori freddi
come steli di pioggia.
Un’orma di luce
imbavaglia lo spazio.
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