giovedì 5 giugno 2014

"Ma il ricordo ancora mi segue". Dieci poesie di Isabella Zangrando

Isabella Zangrando, nata nel 1982, lontana da certi ambienti culturali esibizionistici e chiassosi, nel 2011 ha fatto uscire quasi in sordina, nella forma di una piccola plaquette semiprivata, la sua prima raccolta, La pallida estate bruciante (http://books.google.it/books/about/La_Pallida_Estate_Bruciante.html?id=UVHuAQAAQBAJ&redir_esc=y).
La sua poesia nasce sotto il segno della diversità, del non appartenere a questi tempi, a questo paese, a questo mondo culturale e comunicativo.
Il dato che subito salta all'occhio, perché preponderante nei suoi versi, è la presenza di un elemento che potremmo definire magico. Naturalmente, non si dovrà intendere questo aggettivo in senso stretto, e cioè come l'apertura all'impossibile, al non credibile; tutt'altro, è l'immedesimarsi dell'autrice nel senso profondo della natura, dell'essere. È la presenza forte di un dato che distorce, nella ricezione sensoriale, la realtà come ci appare. Sembra, leggendo questi versi, di guardare le cose e le persone da dietro occhiali capaci di svelare l'anima segreta che nascondono. Eppure, non esuliamo mai dal reale, non si trovano vie per rifugiarsi nel sogno, nella finzione: gli unici due casi, nei testi proposti, sarebbero l'accenno al piccolo regno (forse una voluta storpiatura del piccolo popolo del folklore celtico?) e il ponte di sogni.
Poco per definire queste poesie azzardi fantasiosi. Perché qui sono le parole (e non le cose o le persone raccontate) a creare l'atmosfera magica; come se fossimo tornati ad un grado zero della lingua, dove lo stupore, l'ammirazione per la bellezza, la scoperta dei suoni e delle immagini sono ancora possibili, ancora tutti da realizzare.
Così gli oggetti chiamati in causa, gli animali, le rare presenze umane sembrano rivestiti di un alone mistico, divino: sono archetipi d'esistenze, simboli fissati per sempre.
Il tempo prediletto è un presente che ingloba tutto, stagione eterna da cui si distaccano i ricordi, dolorosi spesso, e pur sempre rivissuti come cause dello stato attuale (la bugia era / pallida ombra dell'odierno distacco; l'affanno di ieri nel vento ostile di oggi; e soprattutto nei programmatici versi ma è tempo amaro questo / divide le strade, sperpera sorrisi / ci ricorda che il senso / ricade solo nell'oggi). E', insomma, un cercare il tono temporale medio, che possa servire da fondale su cui mettere in luce i legami sovratemporali dell'esistenza.
Nel romanzo storico, la rappresentazione di uno stadio più antico del mondo serve spesso a parlare del presente senza tirarlo in ballo; qui accade il contrario, in qualche maniera, perché parlando di un presente così vasto, e che comprende così tante esperienze che appaiono anche giustapposte, più che legate tra loro (ma una logica c'é, ed è stupefacente scoprirne le vere sembianze, come in il giallo di un muro e il lento / passare dell'ora, scoprire nell'ombra / ferita di ferro e pianto di madre, dove leggo il movimento dell'ombra, in un pomeriggio estivo, che si stacca dal muro seguendo il sole, e i giochi di una bambina con un qualche pezzetto di ferro, la ferita procuratasi per sbaglio e l'apprensione della madre: una situazione, un'immagine cristalline, dopo averle svolte), si finisce pur sempre per indagare i motivi di questo presente, le sue radici. Il passato, in poche parole. Abbiamo invece pochi accenni al futuro: speri trattenga; eterno rifrangere / di luce; accesa per noi ancora; profuga ignara di nuove estati; la bruma salmastra / foriera di notti buie e severe; troviamo solo una voce verbale futura vera e propria, ma già negata in partenza: mai più sarà Aprile, come a dire che esistono solo le prime due dimensioni temporali. Per il resto, l'idea di futuro è solo suggerita tramite aggettivi, avverbi, verbi che semanticamente (speri) e sintatticamente (potrei, sarei), fanno pensare al futuro. Sembra quasi che esso riservi solamente incertezze, e da qui i numerosi accenni al buio e alla notte che non chiudono solo il giorno, ma idealmente anche i componimenti. La presenza di questo lato oscuro dell'esistenza è preponderante, sempre vigile, pronto a prendere il dominio della scena (per i lettori) e dell'immagine (per i personaggi). Sembrerebbe una mancanza di speranza, un cedere alla sconfitta, al dolore; tutte cose che non mancano, in questi testi come nella vita reale, ma va considerato che il buio e l'ombra, che potremmo quasi considerare la stessa entità chiamata in due modi, sono più forti solo grazie alla luce: per l'assenza di essa (buio) e per la sua forza esaltatrice (l'ombra). Del resto, l'autrice stessa si chiede poteva il buio coprire il tempo?, e credo di poterle rispondere che no, non può, anche se l'apparenza sembrerebbe suggerire di sì. Ma si legga il bellissimo ricordo d'infanzia che forma intero il testo di Riso antico: il tono è gioioso, l'infanzia è l'età della luce, delle risate, c'è una sensazione di caldo e di sole a scorrere quei versi che anche nella suddivisione si discostano dagli altri, sono più snelli, più liberi. Corrono, verrebbe da dire, come corrono i bambini.
Il ricordo è un altro tema fondamentale. Tema che si lega, come accennato sopra, alla scelta di un tempo mediano eternante. Ne Il verde del muschio si parla de l'eco del mondo di ieri: accenno che è sì universalmente valido, ma che qui è così personale, così privato, da colpire quasi. E il bellissimo verso, così montaliano, la memoria ti assale fresca, dà il senso di smarrimento, e di gioia triste, davanti al ricordo. Il testo è tutto giocato sul tema della perdita (che è comunque una delle cifre della poesia di Isabella), su quello della solitudine che ne consegue, e che non trova una soluzione. La grande mancanza, quel vuoto che si registra trasversalmente a tutti i testi qui presentati, sembra quella di una figura femminile che faccia da guida. Una madre, che viene accennata tramite l'atto del filare, con tutto l'universo lessicale che segue: ne La casa delle volpi abbiamo filare, trama, cruna, filo. E nel testo intitolato Una tomba di spighe vediamo il dialogo a distanza tra due donne, o meglio tra due età di donna, tra madre e figlia. La madre tace, non può più parlare, e tocca alla figlia darle voce. Ma la speranza non molla, nemmeno se schiacciata dal tempo, dalle spighe e dal cemento: e vive pur sempre chi credevamo perduto.
Si nota spesso, in queste poesie, una parabola ascendente, come se passassimo dalla disperazione al suo contrario. Questo perché è solo il presente ad esistere, il passato ha terminato la sua corsa disperata, ha esaurito il suo dolore; e il futuro non esisterà mai. La soluzione è appunto nella continuità, nel non negare lo ieri per non smorzare l'oggi.


La notte in silenzio

Il giallo di un muro e il lento
passare dell'ora, scoprire nell'ombra
ferita di ferro e pianto di madre,
la notte ora volge al meglio.

Così rassetti la veste, nel cono
di luce passi il crine col legno,
ti scopri donna nel sogno ma
altra è la voce dalla strada.

Poteva il buio coprire il tempo?
Socchiusa, contempli di carta
un grumo sottile, il marmo del
giorno si sbecca nel sogno.

Ora che l'ora t'avvolge, ricami
nel buio un lembo del foglio,
speri trattenga nel grembo
amore di madre e buio di donna.


Memoria, vento e lumi nella casa

(Quando leggeva piano il calore
della transumanza scemava della polvere)

Guardo da tende spente il morbo che
sale da volani di sole, sale lento e
accende il cuore di nuove bugie.

Il mondo che nasce oggi si nasconde,
timido fantoccio giace rugoso al suolo
mentre mi guardi sospesa nel sale.

La sabbia del vento penetra nei
nostri solai e sparge ricordi come
monete, emergono talora nella ruggine.

Ti ho perso, tra il legno di quella casa
quando leggevi assorta, la bugia era
pallida ombra dell'odierno distacco

(i flutti e il suolo, eterno rifrangere
di luce, accesa per noi ancora
ci aspetta silenziosa nel buio).


La casa delle volpi

Questa sera la polvere
ti mangia il cuore mentre sale
nell'aria l'odore del piccolo
regno e tu assisti silente,
profuga ignara di nuove estati

(timida processione di volpi,
nel buio del segreto
ritrovi del verde il segno).

Ricordami nel tuo filare,
la trama del mantello mi
avvolge, stupenda falena che
rompe il fragile schema
del nostro piangere umano.

Il faro nel sepolcro sulla collina
ci avvertiva del nostro passaggio
ma la notte dimentica negava,
di segni modesti la chiusa e
tu immemore musa vigilavi

(ora son ferme, da giunchi
osservano la fuga del tempo).

Ora che piega la cruna, il filo
unisce i pezzi ma polvere
sottile circonda questa casa,
come turbina d'acciaio bruno
accartoccia i nostri pensieri.


Il ponte di sogni

Anche ieri il vento portava il tuo nome
chiamava dal bosco, portava il respiro
dei morti di ieri, verdi bambini di terra.

Oggi che il ponte di sogni s'interrompe
la macchia più scura del prato si fa
ombra di ieri, mare di verde oblio.

Mai più sarà Aprile, la nenia del merlo
e il suono del chiurlo sospingono l'uscio
ritorna la paura del soffice manto laggiù.

Lo vedi, si muove il fardello, tra foglie
di leccio e passi dimentichi ti chiama,
affanno di ieri nel vento ostile di oggi.


Ricordi di mare e bruma

All'alba il suono smorzava
restava il silenzio,
sciabordare di barche.

Sapevi di sasso e manico
arnesi di gioco
trastulli di vecchi appassiti.
L'olmo non riposava più,
nel cortile vuoto
risate nuove echeggiavano.

Ma il ricordo ancora mi segue,
macina strade consumate
e beve acqua salata.
Sei tu quel rumore sordo,
quel dondolare di remi
la bruma salmastra
foriera di notti buie e severe,
anima scura ritorna ancora
la porta è socchiusa.

Ma è tempo amaro questo
divide le strade, sperpera sorrisi
ci ricorda che il senso
ricade solo nell'oggi.


Una tomba di spighe

Son pietre e vento, le tue rose
stamani mi parlano. Ricordo,
eri di spiga un giallo acceso e
ridevi del povero gallo sconfitto.

Ora che stoppie e cemento ti coprono,
sogno. Sei viva, un'effige del cielo che
pende dal lato del cuore, mi scopro
guerriero sconfitto di ieri.

Come teneva la mano, rosa selvatica,
premeva il palmo la spina, dettava
nuova legge al suo pastore, voce
della pallida estate bruciante.

Ora che tutto è silenzio, tu rivivi
come rosa acerba, il ricordo di
nuove promesse, tra spighe e
murette sbeccate rinasci al cielo.


La voce del sangue

Se nel silenzio di quest'ultima ora
nell'attesa furente delle pietre
se ancora non sai che la rosa
si fa cavallo con armi dimesse

cosa avvisa la timida allodola?

La senti nel chiaro dell'alba
là al fiume pasteggi con ghiaccio
e il povero sale degli occhi
consuma le lacrime dei morti.

La sento distante, il passo è rumore.

Allora ti cerco, orgoglio di martire
la pietra e il legno son vesti diverse
la tua che ricordo era talamo d'agnello
ma l'ombra è lesta e l'alba sorella.

Acque rossastre, di piume un covo
che canta, il giorno di ieri è già sera.


Ricordi di terra e sangue

Se il silenzio fosse tomba.
E mi svegliassi.
Se il dolore fosse riposo,
se fosse aria da respirare
ora io potrei vivere

(invece muori ancella triste).

Se solo questa prigione
avesse rami e spine tenere,
queste ombre non mi tenterebbero
sarei creatura tra tante
carne dolorosa al macero

(socchiudi l'imposta ma non guardi).

Se tu poi non fossi
che un ricordo lontano
la pallida estate bruciante.
Invece sei fredda estasi
un ritorno solitario e perpetuo,
la fresca terra che mi accoglie.


Riso antico

E mentre correva
il carretto,
acciaio su ferro
stridente,
ridevo e sognavo.

Era un cestino di carta
il sogno mortale
del poeta cantore.

Era il seme bruno
maturato al sole
un pugno sul muro,
il ricordo di bimba.

Rideva il mio cuore,
sapeva di mare
palestra di odori
estate lontana.

E rubavo ghirlande
(biondo ferino)
di sangue e terra
regalo amaro,
e sussurravo
tra rovi acerbi
parole di riso antico.


Il verde del muschio

Il verde del muschio nelle ombre
la sera qui cala veloce.
Sei sola di nuovo, la mano ferita
e l'eco del mondo di ieri
mottetto scaltro del piccolo amico.

La rosa che storce il capo mendica
i tuoi ricordi, tra fronde di pino
la memoria ti assale fresca.

Di ieri cerchi la traccia nell'ombra
veloce che cambia.
Risali nel buio del sonno, primule
e castagni accompagnano frane,
ti paiono nel male una luce.

E sorge la notte, ancora bendata.
E sogni la luce, dimentica sposa.

Qui la notte morde rapace.

Un lirismo così puro, soffuso, pudico, lontano dalla sensualità e dalla corporeità a volte prepotenti di molta poesia femminile d'oggi, da essere quasi destinato di per sé, per la propria stessa natura, a restare riposto nell'ombra di pagine semiclandestine, sfuggite, esili e fini, fra le maglie del sistema editoriale e del meccanismo esteriore delle presentazioni e dei festival, e destinate alla meditazione silenziosa e partecipe della lettura solitaria. 

                                 
                                                      Gabriele Marchetti 

mercoledì 28 maggio 2014

Giselda Pontesillli, "Adriano Olivetti, Editore"



Ripercorrendo il progetto editoriale attuato da Adriano Olivetti tra il '46 e il '60 con le sue edizioni di "Comunità", non si può non avvertire tra i libri da lui pubblicati un singolare collegamento, un'inconfondibile, anche se dapprima indefinibile, unità di intenti, pur se gli autori proposti, i temi affrontati, le rispettive discipline di appartenenza sono molti e diversi.
E' come se in questi libri parli variamente una sola voce; come se siano stati scelti per qualcosa che tutti, a loro modo, hanno e che li rende, in fondo, analoghi, unanimi.
Sappiamo da autorevoli testimonianze ( Zorzi, Ferrarotti ) che Olivetti sceglieva personalmente i libri da pubblicare e del resto lui stesso in un'intervista al quotidiano "La Stampa (maggio '59) dichiara: "La scelta dei titoli è esclusivamente mia".
Ma in base a quali criteri, li sceglieva?

Sia dalla Dichiarazione politica del Movimento Comunità (genn. 1953), sia dai vari scritti e discorsi di Olivetti (oggi in ristampa nelle riapparse edizioni di "Comunità"), sia in primo luogo dal suo inedito, straordinario modo di fare l'imprenditore, emerge chiaramente, a mio avviso, che egli esattamente nel senso illuminato, proprio in quegli stessi anni, dall'allora sconosciuto Jan Patočka non aveva un'ideologia ma una vita nell'Idea, o, sempre citando Patočka, non era un intellettuale, ma un uomo spirituale ( cfr. "L' idéologie et la vie dans l'idée" e "L'homme spirituel et l'intellectuel" in Jan Patočka, Liberté et sacrifice -Ecrits politiques- J. Millon, Grenoble 1990, p.41-50 e p.243-257).
Credo che questa fondamentale differenza sia presente, sia pure implicitamente, a tutti gli studiosi e testimoni dell'opera di Olivetti, i quali, dovendo sottolinearne, a un certo punto dei loro discorsi, la posizione meta-politica, morale, religiosa, culturale, fondata su valori spirituali, mostrano di avvertire, anche se non lo focalizzano speculativamente, che i suoi criteri di fondo erano ontologici, non ideologici.
In un suo scritto, al riguardo esemplare, Olivetti richiama tutti, "gli uomini, le ideologie, gli Stati" a liberarsi, cioè a sottomettersi nuovamente a ciò che -lui dice- "rimane eterno nel tempo e immutabile nello spazio: amore, verità, giustizia, bellezza": le Idee, le "autentiche e creatrici forze spirituali" -lui le chiama.

"Noi tutti crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali e crediamo che la sola soluzione alla presente crisi politica e sociale del mondo occidentale consista nel dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo.
Parlando di forze spirituali, cerco di essere chiaro con me stesso e di riassumere con una semplice formula le quattro forze essenziali dello spirito: Verità, Giustizia, Bellezza e, soprattutto, Amore".
(da "Le forze spirituali" p.39-40, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

In questi pensieri non c'è, a ben vedere, alcuna ideologia, perché Idee e "forze spirituali" non vengono definite, rappresentate, ridotte in contenuti positivi, bensì solo nominate e intuite nella loro indefinibile -eppure evidente- assoluta realtà, nella loro differenza ontologica da tutto ciò che è oggetto, o concetto.
Proprio per questo esse coincidono, per Olivetti, con la libertà: perché non sono imposizioni, categorie, precetti; ma puri appelli della trascendenza e quindi "motori immobili" della nostra liberazione, ricerca di libertà, pluralità.
Ma come si può concretamente rispondere a questo loro appello?
Tra gli altri studiosi di Olivetti, Beniamino de' Liguori (nuovo direttore delle edizioni di "Comunità") ha il merito di aver valorizzato in lui, la prioritaria dimensione dell'agire, risolutiva per comprenderne al meglio il pratico e niente affatto utopistico messaggio (cfr. Beniamino de' Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Quaderni della Fondazione Olivetti n.57, Roma 2008 ).
In Olivetti, "agire" significa innanzitutto, secondo me, confortare con il fare, col proprio impegno di uomo e imprenditore, la verità, la credibilità di ciò che pensa e dice, coerentemente con l'insegnamento paterno che gli è sempre presente:

"La luce della verità, usava dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole".
(da "Prime esperienze in fabbrica" p.30, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

Ma poi, "l'agire" è per lui, come per Hannah Arendt, diverso sia dal lavorare che dal produrre opere: l'agire, che la modernità ha di fatto totalitariamente abolito, è la forma più alta e libera dell'attività umana, quella che rende pienamente umano l'uomo, quella in cui il lavoro, necessario per garantire la vita biologica, è gratificato e giustificato.
Chi lavora (l'operaio, che Olivetti aveva in fabbrica, come qualsiasi altro uomo) non deve, non può farlo solo per la riproduzione materiale dell'esistenza, per la vita biologica, ma anche per realizzare la propria vita umana più specifica, per poter agire.
L'agire è il prendere (o il seguire) un'iniziativa libera, rivolta alla Verità, al Bene, è mettere in movimento qualcosa di degno, di nuovo, di non prevedibile, di non meccanico, è pronunciare (o ascoltare) grandi parole, è decidere o anche solo riflettere con gli altri non strumentalmente, bensì disinteressatamente, è vivere nell'Idea -direbbe Patočka, "dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo".
L'agire è fondamentale non solo per dare senso al lavoro, ma anche per far comparire artefatti, opere: architettura, arte, poesia non ci sarebbero, non ci sono, senza coloro che, gli uni con gli altri, ricordano, tramandano, commissionano, incoraggiano la nascita.
L'agire -dice Hannah Arendt- è "la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali": esso è dunque possibile soltanto con gli altri.
Soltanto in comunità -dice Olivetti; quella comunità che coincida spazialmente con una grandezza e una misura umane, ossia tali da non estraniare, non isolare gli uomini, bensì da permettere tra loro incontri confortanti, consueti, personali; quella comunità, cioè, a sua volta totalitariamente abolita, come ben spiega Nisbet in "La comunità e lo Stato" (Edizioni di Comunità, Milano 1957), dalla moderna società, dallo Stato.

"La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell'industria moderna, potrà finalmente tornare a scaturire quando il lavoratore comprenderà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio -che pur sempre sarà sacrificio- è materialmente e spiritualmente legato a una entità nobile e umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità, reale, tangibile, laddove egli e i suoi figli hanno vita, legami, interessi" (da "L'industria nell'ordine delle Comunità" p.45, in A. Olivetti, Le fabbriche di bene, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2014).
[ Vorrei osservare in questo brano la centralità dell'inciso "-che pur sempre sarà sacrificio-" che conferisce al tutto un significato, un orizzonte non storicistico, né materialistico, bensì, direi, axiologico, autofinalistico ].

Possiamo dunque dire, in definitiva, che la terza via, di cui, riguardo a Olivetti, talvolta si parla non era una terza ideologia, alternativa a marxismo e capitalismo (che sarebbe come dire una terza "idolatria" -direbbe Olivetti con Simone Weil), bensì, propriamente, il richiamo, non parlato ma innanzitutto attuato col proprio agire e vivere, all' agire, come superamento concreto di ogni ideologia.
E' questo fondamento, questo rinnovato e rivoluzionario sentire ontologico, che guida l'Editore Olivetti nella scelta di chi pubblicare: chi, cioè, proprio in vario modo riconoscendolo, avvertendolo -in qualità di economista, filosofo, architetto, scienziato, sociologo, urbanista, sindacalista, religioso, poeta, si mostri libero, creativo, altamente competente e sapiente nella propria disciplina, determinato nell'opporsi alla desertificazione umana dei nostri tempi.
Con la sua casa editrice, Olivetti diceva di voler

"recare alla comprensione del tempo e del mondo in cui viviamo la voce [cioè la voce collegata, concorde] delle coscienze e delle menti ["coscienze" prima, e poi, in unità, "menti"]
più alte di ogni paese in un dialogo senza frontiere che al di là delle contingenze e delle polemiche [cioè al di là delle ideologie, dei partiti, delle divisioni] parlasse agli uomini delle loro mete, della loro vocazione e responsabilità.
(da Documento senza titolo, ASO, fondo Adriano Olivetti, sez. Ed. di Comunità, 22.620/2).


Il Catalogo, che su questi criteri Olivetti compone, è un'opera necessaria, mirabile, in cui tutti gli elementi (tutti i libri) collaborano, con la loro particolarità, alla ricerca dell'unità, sollevandoci, indicandoci un orizzonte, una meta.
Con questa sua libera, creativa opera editoriale, egli ci mostra compiutamente chi sia, chi debba essere l'Editore, in che consista il suo compito, il suo metodo, la sua insostituibile figura.
-"Editore": autore originale al pari del filosofo, dell'architetto, del poeta;
Autore degli autori: colui che li comprende, li collega, li rivela simili, o, proprio in quanto diversi, necessari gli uni agli altri, complementari; colui, dunque, che forma civiltà, cultura, comunità.
Così, in Olivetti, la composizione, la fondata architettura editoriale, illumina, include, valorizza reciprocamente, allude a connessioni, interazioni, soluzioni ulteriori.
Unità nella pluralità, unità nella libertà: Nisbet e Simone Weil, Schubart e Marlin, Berdiaev, De Rougemont, Forster, Dawson, Mumford, Gutkind, Gropius, Le Corbusier, Huizinga, Schumpeter, Kelsen, Lippmann, Soloviev, Assunto.
-Ancora oggi, ci sono, ci devono essere persone che possano comprendersi, collegarsi: agire.
Ma, come dice Olivetti,
"questo dare, questo conferire a un gruppo di uomini l'energia vitale capace di uno sforzo creativo al di sopra dello sforzo comune, appartiene al Mistero, è istanza segreta che la Provvidenza soltanto può, quando vuole, concedere" (da A.Olivetti, Democrazia senza partiti p.69, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).


                                                                       Giselda Pontesilli

mercoledì 21 maggio 2014

Gabriele Marchetti, "La lezione di Mallarmé"





(Paul Gauguin, ritratto di Mallarmé per la traduzione francese del Corvo di Poe)

Mi sono chiesto spesso se fosse possibile imparare qualcosa da un poeta così particolare, così ostico, come Stéphane Mallarmé; se questo annoiato professore di inglese, che si era messo in testa di fornire il Livre definitivo, ci avesse lasciato una lezione ancora valida, qualcosa di applicabile anche oggi che la poesia ha sostanzialmente fallito nel raggiungere il pubblico, rispetto ad altre forme più popolari di arte (la musica, il cinema).
Il compito della poesia, secondo Mallarmé, era indicare, indagare e infine dipanare il mistero dell'Essere. Una missione da portare avanti con l'unico strumento a disposizione del poeta, e cioè le parole, senza ricorrere al tramite di sistemi filosofici, idee politiche o religiose; semplicemente usando le parole, a cui veniva donato un senso nuovo che mai avevano avuto, come se fossero adoperate per la prima volta. Da qui la frammentarietà dell'opera di Mallarmé, cui è toccato il compito impossibile di ricostruire dal nulla, o quasi, un'arte e il suo intero linguaggio; da qui la difficoltà nel leggerlo e comprenderlo. Perché con il rinnovamento del linguaggio è andato di pari passo il rinnovamento delle immagini che formano l'universo poetico di Mallarmé, e con esse il rinnovamento delle modalità di ricezione della realtà, almeno da parte del poeta.
Prendiamo un testo come Tristesse d'été (1864), giustamente uno dei suoi componimenti più celebrati. Si tratta di un sonetto, quindi siamo di fronte ad una forma in qualche maniera classica di poesia. Questo è vero a prima vista (e del resto, lo stesso Rimbaud scriverà sonetti); ma l'incastro delle immagini una sull'altra, quasi una dentro l'altra, dimostra una perizia tecnica altissima. Le soleil che splende sur la sable è il punto d'inizio, l'attimo bloccato per l'occhio del poeta in un'epifania sfuggente ma eternabile; e l'oro del sole richiama l'oro dei capelli nel cui incavo flessuoso si prepara un calore che brucia l'incenso delle guance. Il filo conduttore è la luce, il suo calore; che aprono anche la seconda quartina (ce blanc flamboiement), dove l'orizzonte si allarga fino a comprendere altri scenari, esotici, immensamente lontani (nous ne serons jamais une seule momie / sous l'antique désert et les palmiers heureux!, vv. 7-8, accenno ad un fantomatico Egitto); e Mallarmé, nella prima delle terzine, batte ancora l'accento sul calore, parlando di rivière tiède, ma subito dopo ecco irrompere il mistero, ce Néant que tu ne connais pas. E il ponte con gli ultimi tre versi scaturisce dall'idea della fluidità: le fard pleuré richiama, nel gocciolare, l'immagine del fiume che scorre. I due versi finali,

pour voir s'il sait donner au coeur que tu frappas
l'insensibilité de l'azur et des pierres
(vv. 13-4),

sono la metafora della Poesia intesa come arte del disvelamento dell'Essere: le lacrime piante sono le parole che (e qui Mallarmé si chiede sinceramente, spaventato com'era dalla propria missione, se la lingua, una qualsiasi lingua sarà mai sufficiente a portarla a termine) dovrebbero essere all'altezza del loro compito immane; il cuore spaccato è la menomata sensibilità dell'uomo moderno, ormai assordata dal mondo e resa cieca dal progresso materiale al quale non si è accompagnato ancora quello spirituale. L'azzurro e le pietre rappresentano la natura, il fondo contro cui le ombre delle cose, come nel mito della caverna di Platone, si muovono lasciandoci intuire le cose stesse. E da quel fondo, meno costretto che gli uomini del racconto platonico, il poeta deve saper strappare la verità senza farsi ingannare dal velo sottile dei simulacri; deve capire e far capire l'Essere che si agita e agisce sotto la superficie quieta come la forza vitale sotto la pelle, e che assume la forma del mistero. Termine, questo, su cui Mallarmé avrà meditato a lungo prima di adoperarlo, pur nelle pagine giovanili de L'Art pour tous. Possiamo intenderlo nel senso di una verità segreta, nascosta, da scoprire; una sorta di viaggio di conoscenza e nella conoscenza, e anche più largamente un rito di iniziazione a verità e sapienze negate per sempre ai più. Il poeta è, come il sacerdote, l'intermediario (l'unico? Mi piacerebbe rispondere di sì) tra il lettore e la verità, che per il lettore sarebbe forse troppo intensa, troppo pura per colpirlo e lasciarlo così com'era prima di conoscerla. Il poeta agisce come la voce prestata alla Poesia, la quale esiste già prima, in modo assoluto e cioè sciolta dal mondo, dalle cose; perché esisterebbe pur sempre la Poesia, anche senza i poeti, ma mai il contrario. Anche se oggi, abbassando lo sguardo sulla marmaglia pullulante dei poeti autoproclamati, vediamo gente che con la Poesia non c'entrerà mai nulla.
Ma (tralasciando questi innumerevoli incidenti di percorso) la parola può davvero ridarci la realtà pura? Ha in sé questa forza, questo dono? Prendiamo un altro famoso testo di Mallarmé, quell'Aprés-midi d'un faune a cui egli lavorò fin dal 1865, e che fu poi musicato da Debussy nel 1894. E', forse, la summa della sua arte, se è possibile che la frammentarietà abbia mai una riconciliazione artistica definitiva, una qualche ricostruzione possibile. Per chi ha ascoltato almeno una volta l'accompagnamento musicale creato apposta per coronare e introdurre questo testo, il richiamo ad atmosfere di sogno, poco o niente terrene, dovrebbe essere familiare. Quella frase suggerita dal flauto, che ritorna ondeggiando come un leit-motiv, contiene già tutta la bellezza latente di un meriggio dorato, il canto smorzato dei rari uccelli, la luce (di nuovo) e il silenzio delle acque.
Ma restiamo, più umilmente, alle parole. L'atmosfera evocativa che avvolge il lettore ci presenta subito le protagoniste mute del poemetto, le ninfe, che il fauno vuole eternare. Quel verbo, perpétuer, indica fin dall'incipit la missione del poeta: tramandare, rendere eterna, intoccabile, fissata per sempre e in un continuo ritorno la bellezza cosicché non ne vada sprecata o persa un stilla. Ed ecco la prima immagine estasiante, che ci cala lentamente in un'altra, dimenticata dimensione:

                                                       Si clair
leur incarnat léger, qu'il voltige dans l'air
assoupi de sommeils touffus
(vv 1-3).

Abbiamo già tutto un paesaggio, concentrato in pochi versi, in leggerissimi accenni: l'aria assopita rende l'idea del pomeriggio, il tempo del riposo, quando il sole scalda più forte; i sogni sono touffus perché fatti all'ombra di qualche albero. C'è insomma uno spostamento delle caratteristiche fisiche che causa lo smarrimento della materialità ordinaria. E siamo solo all'inizio. Nel prosieguo immediato, dopo essersi domandato se abbia solo sognato l'incontro con le ninfe, il Fauno s'aggira pigramente lungo bords siciliens d'un calme marécage, impegnato in un monologo che si trasforma ogni tanto in canto, in cui egli parla della propria perizia come suonatore di flauto. C'è, da parte di Mallarmé, un accenno nemmeno tanto velato alla propria poesia,

les creux roseaux domptés
par le talent
(vv. 26-27),

capace di cantare, e sembra impossibile per chiunque,

                                  quand, sur l'or glauque de lointaines
verdures dédiant leur vigne à des fontaines,
                                  ondoie une blancheur animale au repos:
et qu'au prélude lent où naissent les pipeaux
ce vol de cygnes, non!, de naiades se sauve
                                   ou plonge...
(vv.27-32).

Segue l'interruzione improvvisa del canto del fauno, come se fosse già stato raggiunto un qualche limite della conoscenza umana, come se la paura di scoprire troppo, o una verità troppo grande, gli frenasse la lingua ancora impastata di sonno.
La distanza dal mondo presente aumenta (alors m'éveillerai-je à la ferveur première, / droit et seul, sous un flot antique de lumière, vv. 35-36), mentre ne svaniscono già i contorni noti; ed eccoci in atmosfere da fiaba, da idillio teocriteo (vedi l'accenno alla Sicilia), con venature simboliche che indagano il mistero, la sua bellezza (ce doux rien, v. 37; une morsure / mystérieuse, vv. 39-40). Pare di essere lì, tra i giunchi, nel silenzio, a guardare un sole di bronzo (l'heure fauve, v. 32) che illumina il vero aspetto delle cose e allo stesso tempo ci rende ciechi a tutto il resto. E un'immagine spicca su tutte,

         arcane tel élut pour confident
le jonc vaste et jumeau dont sous l'azur on joue
(vv. 41-42),

dove la natura è indicata come depositaria della verità, e del mistero che la traveste. La bellezza è ovunque (la beauté d'alentour, v. 44), ma è impedita dalla nostra pochezza ricettiva (par des confusions / fausses entre elle-meme et notre chant crédule, vv. 44-45), aiutata solamente dal sogno, che però è fugace apparizione e più fugace sostanza (évanoir du songe ordinaire de dos / ou de flanc pur suivis avec mes regards clos, / une sonore, vaine et monotone ligne, vv. 47-49).
Segue un'immagine vertiginosa, dove abbiamo la metafora del disvelamento dell'Essere, del suo infinito mistero:

ainsi, quand des raisins j'ai sucé la clarté,
                                    pour bannir un regret par ma feinte écarté,
                                   rieur, j'élève au ciel d'été la grappe vide
    et, soufflant dans ses peaux lumineuses, avide
                  d'ivresse, jusq'au soir je regarde au travers
(vv. 55-59),

dove la clarté richiama l'idea di ciò che sta sotto la superficie (ses peaux lumineuses), come luce imprigionata dalle tenebre; e il semplice involucro che nasconde la verità è appunto il mistero (la grappe vide), che usando della bellezza come un' esca attrae l'uomo e lo spinge a cercare qualcos'altro, ciò che può soddisfare la sua ivresse.
Ed ecco la ripresa del canto. Il fauno si rivolge alle ninfe, richiamando alla loro memoria l'assalto sessuale di cui le ha fatte oggetto; ed è di nuovo una metafora, molto larga, sulla missione del poeta che deve attaccare il velo della realtà, strapparlo di dosso alla natura per vedere cosa c'è sotto:

mon oeil, trouant les joncs, dardait chaque encolure
                              immortelle
(vv. 61-2).

Ma la visione scompare velocemente, inafferrabile se non per un attimo:

et le splendide bain de cheveux disparait (v. 64);

e quell'attimo è bastato, forse, per sciogliere il mistero:

mon crime, c'est avoir, gai de vaincre ces peurs
                                 traitresses, divisé la touffe échevelée
                 de baisers que les dieux gardaient si bien mélée
(vv. 80-82);

ma è solo illusione, la parola non basta a trattenere la bellezza, il tempo non si ferma e la visione non è mai più fissabile:

de mes bras, défaits par de vagues trépas,
                                     cette proie, à jamais ingrate se délivre
                   sans pitié du sanglot dont j'étais encore ivre
(vv. 88-90).

E anche se, nel finale del poemetto, si fa strada la folle speranza di ritrovare altrove, in altre occasioni, sotto altri cieli, la stessa bellezza per ora tornata nell'alone del mistero:

vers le bonheur d'autres m'entraineront (v. 91),

la certezza del poeta è che

sans plus il faut dormir en l'oubli du blasphème (v. 105)

dove blasphème rappresenta la vita quotidiana, la noia dell'esistenza che non incoccia mai nello svelamento del mistero, perché la normalità è il regno delle vecchie parole che non sanno, e non possono, ricercare e ricreare l'essenza del reale.
Nel poemetto emergono, in perfetta luce, due delle caratteristiche principali dell'arte di Mallarmé: un'immaginazione folgorante e la perfezione tecnica. A cui, splendido corollario, andrà aggiunta la scomparsa del poeta dal suo stesso testo.
Il poeta qui si ritrae: chi parla? Mallarmé? O piuttosto il Fauno, cui Mallarmé presta, come un megafono, la sua bocca? E quel susseguirsi di immagini concatenate ci inabissa in uno stupore che ha del primordiale, dell'edenico; siamo noi e il mistero, faccia a faccia, senza più veli. Le parole sono solo i segni dell'essere, mai l'essere stesso; ma con Mallarmé arriviamo così vicini a quell'essenza che pare di sentirne l'odore.
E in fondo è lo stesso Mallarmé che si chiede, invertendo le parti e usando la voce del fauno, ho amato un sogno?, per intendere da subito che lo svelamento del mistero non è possibile con i mezzi comuni, con la sensibilità comune. Serviranno parole nuove, al poeta che vorrà penetrare l'Essere fino al cuore mai toccato. E', insomma, la sofferta ammissione di una sconfitta già annunciata? Vedendo quanto poco la lezione di Mallarmé echeggi nei poeti di oggi, direi di sì.
Guardiamo alla lirica italiana del '900. In Montale e Quasimodo abbiamo una certa sopravvivenza della poetica del mistero di Mallarmé: questo essenzialmente perché in loro l'attenzione al mondo naturale è ancora vivissima.
Ossi di seppia di Montale non bisogna di presentazioni; forse, sarà necessario segnalare qualche traccia, ancorché evidente, di una poetica tendente alla scoperta del mistero, come per Mallarmé. Penso ai famosissimi versi de I limoni:

        in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
(vv. 22-29),

dove il mistero è visto in una luce negativa, come l'errore che svela la verità, e non come la verità stessa. La raccolta è attraversata da questi tentativi di scoprire il pertugio in cui sbirciare, ma sempre come se fosse il caso a decidere, e mai la volontà del poeta, come testimoniano certe scelte lessicali:

                                       tutto divaga
dal suo solco, dirupa, spare in bruma

(Il canneto rispunta i suoi cimelli, vv. 11-12),

vedrò compirsi il miracolo
(Forse un mattino andando in un'aria di vetro, v. 2),

accosto il volto a evanescenti labbri
(Cigola la carrucola del pozzo, v. 5),

ti ridona all'atro fondo,
visione, una distanza ci divide

(ibid., vv. 9-10),

in lei l'asilo, in lei
l'estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l'anima nostra confusa

(Fine dell'infanzia, vv. 75-78),

le molli parvenze s'infransero
(Vasca, v. 8),

è il segno d'un'altra orbita
(Arsenio, v. 12),

uno sterile segreto,
un prodigio fallito

(Crisalide, vv. 39-40),

e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario!

(ibid., vv. 65-67),

la vita che si rompe nei travasi
segreti a te ho legata:
quella che si dibatte in sé e par quasi
non ti sappia, presenza soffocata

(Delta, vv. 1-4).

E' quasi come se Montale rifacesse in negativo, ribaltando le parti, quello che suggeriva Mallarmé: qui c'è un'arrendevolezza al reale, lo si subisce, rassegnati al proprio ruolo, incapaci di agire titanicamente verso di esso. La scoperta, qui, è casuale; mai cercata, mai davvero voluta (ci si aspetta), perfino passiva (ci metta), come una lunga attesa che non si può sapere se sarà mai appagata davvero. In Mallarmé era il poeta / fauno a provocare la natura per farla aprire. E poi in Montale la scoperta sembra riservare quasi un dolore, uno spavento, se compiuta sul serio; come se la sicurezza dell'uomo moderno potesse essere scossa (e siamo tra le due guerre) da qualcosa di troppo più grande di lui.
Nel primo Quasimodo sparisce questa passività, e manca pure il terrore di ciò che c'è dietro il velo della natura. L'aspetto divino del reale (il mistero, in fin dei conti) contiene in sé la salvezza. Il poeta stesso appartiene in pieno alla natura, ne fa parte senza intermediari: sono molti i casi di versi in cui la costruzione sintattica ci mostra il poeta sullo stesso piano della natura che sta cantando, anzi dentro di essa, anzi è essa stessa. Questo sentimento di totale appartenenza va forse oltre la soglia tracciata da Mallarmé, che manteneva al poeta un ruolo distinto dall'oggetto del suo poetare; in Quasimodo non c'è un confine, non c'è una distanza a separare soggetto e oggetto del disvelamento, un po' come nei lirici greci da lui tradotti: il sentimento è il medesimo. Il poeta è la natura, la natura ha in sé il mistero, dunque il poeta sa già il mistero. Nei versi di Ed è subito sera e di Oboe sommerso mancano infatti quelle connotazioni negative della scoperta che invece erano ben presenti in Montale; come se la cancellazione della soglia fosse inevitabile, e senza alcuna conseguenza:

e ricompone le sepolte voci
                                                  dei greti, dei fossati,
dei giorni di grazia favolosi

(Ariete, vv. 6-8),

dormono selve
       di verde serene, di vento,
pianure dove lo zolfo
era l'estate dei miti
immobile

(Dormono selve, vv. 4-8),

a me
fossile emerso da uno stanco flutto

(Dammi il mio giorno, vv. 10-11),

mi cerco negli oscuri accordi
di profondi risvegli

(Convalescenza, vv. 5-6),

dove abbiamo anzi una pacificazione, un riconquistare mondi e vite perduti, che sembravano cancellati per sempre;

mi parve s'aprissero voci,
                                                che labbra cercassero acque,
che mani s'alzassero a cieli

(I morti, vv. 1-3),

io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca

(Curva minore, vv. 12-14)

e qui si può notare l'uso dei verbi, che appartengono all'area semantica della scoperta (s'aprissero, e quindi con un moto spontaneo, non imposto, non violento; cercassero, che denota il desiderio della scoperta);

e tutto mi sa di miracolo
(Specchio, v. 7),

affermazione che tradisce un'apertura fiduciosa del poeta alla natura, al mondo, che ha del mistico; e addirittura

in me un albero oscilla
da assonnata riva,
alata aria
amare fronde esala

(L'Eucalyptus, vv. 6-9),

scena che ricorda qualche passaggio, o almeno l'atmosfera generale, del Faune; e ancora

fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano

(Senza memoria di morte, vv. 10-12),

dove l'antropomorfizzazione è al contrario.
La natura mantiene in Quasimodo una presenza fortissima, come appunto nel Montale degli Ossi; ma qui, come detto, c'è la totale sovrapposizione di natura e poeta, di immagine e voce che la racconta. La lezione di Mallarmé è insomma vivissima: l'io del poeta non pesa sul testo, non usurpa nessun ruolo, nessuno spazio, perché anche dicendo io si intende quasi automaticamente (e si vede, leggendo) la natura.
Ma c'è un'altra presenza importante, nel '900 poetico italiano, che vorrei esaminare, e cioè Pier Paolo Pasolini, uno dei nomi più duraturi, influenti e forse (non per causa sua, ma dei suoi odierni imitatori incapaci) deleteri della nostra poesia. La sua figura è andata oltre quella del poeta; è stata, per molti e in tempi difficili, la coscienza che mancava, una guida nelle tenebre di ogni giorno. Il che esula dai compiti di un poeta, è un di più pericoloso.
La prima prova poetica di Pasolini, giovanissimo, è quel libricino intitolato Poesie a Casarsa che, onore raro, ricevette una positiva recensione da parte di un transfugo Gianfranco Contini, riparato in Svizzera durante gli anni feroci della guerra. La breve raccolta inanella scene di vita di paese, quasi totalmente simboliche, che in alcuni passaggi richiamano forse, anziché la polita levigatura di Mallarmé, lo stile del più cantabile Verlaine. La natura è, come per il Montale degli Ossi, lo specchio in cui il poeta vede riflesso se stesso; e i suoi ritmi, le sue cerimonie, le sue vittime (quanti morti, in questi pochi versi) disegnano una parabola personalissima che trova anche nella scelta della lingua, il dialetto friulano, una cifra nuova, diversa. Si potrebbe vedere in questa scelta la necessità di un nuovo sistema di parole da adoperare per descrivere quel mistero che ancora tormentava i poeti, così come Mallarmé voleva ridefinire la lingua poetica dalla base. La musicalità dei versi in friulano è innegabile; così come è innegabile che le sonorità un po' aspre del dialetto diano una maggiore ampiezza alle immagini descritte: o almeno, le ricoprono di un alone di mistero che agisce già sulla parola, prima che sul concetto espresso. Questa misteriosità di suoni rende speciali anche le immagini più semplici (e questa prima raccolta pasoliniana non ha l'ardire delle seguenti, ma si muove proprio tra piccole cose, tra paesaggi familiari descritti con pochi tocchi leggeri):

serena
la sera a tens la ombrena
tai vecius murs: tal sèil
la lus a imbarlumìs

(O me donzel, vv. 12-15),

la siala a clama l'unvièr
-quant ch'a cianta la siala
dut tal mont a è clar e fer

(Li letanis dal biel fì, I, vv. 1-3),

i vardi il soreli
di muartis estàs,
i vuardi la ploja
li fuèjs, i gris

(ibid., III, vv. 17-20),

co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me paìs al è colòur smarìt

(Ciant da li ciampanis, vv. 1-2),

blanc per i pras
scur par il sèil,
il bot da l'Ave
a no'l à pas

(Fiestis di me mari, vv. 1-4).

Sono scene dove appare una natura dalla forte presenza umana, e potremmo quasi definirle quadretti di paese. Ma ecco il mistero, improvviso:

i soj tornàt di estàt.
E, in miès da la ciampagna,
se misteri di fuèjs!

(Fevràr, vv. 9-11),

sai ben jo se ch'a trima
tal paìs sensa pas.
Me mari a era fruta
e chistu muàrt sunsùr
al passava pal còur
sidìn dai vecius murs

(La domènia uliva, vv. 45-50).

Da queste immagini, che paiono e sono sogni di un adolescente dal cuore pieno di poesia, Pasolini passerà ad altre, totalmente diverse, mosso da un impeto che del poetico ha ormai poco.
Questa vera e propria rottura, già iniziata dal Quasimodo impegnato del bienno tragico 1943-45, parte da un allontanamento dalla natura. La poesia tenta la partecipazione alla vita, alla guerra, ma fallisce perché le sue forme, le forme che dovrebbero bastarle a decifrare il mistero naturale, che è eterno, vanno in corto circuito se adoperate per il presente transeunte: e diventano forme di altro genere, della narrativa, del giornale, della canzone popolare, della propaganda. Il clima saturato di politica, nato per reazione a vent'anni di silenzio imposto dal regime, finisce per subissare di impoetiche annotazioni la poesia. Non sfugge a nessuno che Quasimodo, come poeta, abbia accusato un calo vistoso in Giorno dopo giorno, con risultati scarsi se messi a confronto con quelli raggiunti nelle prime raccolte (si sarebbe ripreso in seguito, senza però mai tornare ai livelli prebellici); e su questa china che scende e porta ad un imbastardimento della poesia lo ha seguito Pasolini. Dopo lo sfolgorante esordio di Poesie a Casarsa, ha preso anch'egli la via della poesia impegnata dove mantiene sì un certo tono, ma forse solo ne Le ceneri di Gramsci (vero capolavoro di poeticità), per perderlo poi definitivamente nelle raccolte successive dove non è più la Poesia a dargli da parlare, ma qualcosa di troppo terreno perché ne escano frutti degni. E lo stesso Montale, il grande vecchio della nostra poesia, aveva già perduto lo smalto che, dagli Ossi sino alla Bufera, aveva mantenuto la sua voce ben al di sopra di tutte le altre. Ora quella voce appariva bolsa, senza più fiato.
L'allontanamento dalla natura, operato, scelto, subìto da questi tre autori, da Pasolini in poi ha aperto la via ad una poetica che ha messo al centro dell'opera il quotidiano, anche quello più becero e schifoso; sembra quasi, se si ha lo stomaco abbastanza forte da reggere più di due testi, che i poeti di oggi facciano a gara a chi scrive delle cose più stupide, inutili, minime, luride. Credono che la loro vita, con il suo solito tran tran, i suoi vuoti insensati rituali, abbia un qualche valore per qualcuno che non siano essi stessi. E' sfuggito alla loro attenzione che il quotidiano, in quanto abitudine, è irreale; è il falso mondo in cui si è condannati a vivere, o dove ci si rifugia per comodità esistenziale. L'abitudine al conosciuto è bugia, l'innaturalezza di questo modo di vivere è semplice costruzione. Dicono e scrivono bugie e non capiscono che illudono se stessi, assieme agli altri. Aprirsi al mistero, all'ignoto, al lato nascosto della natura è invece l'unica verità.
A questo uso sociale della poesia si è accompagnato una ostinata, ostentatantetata presenza dell'autore nei testi. Mallarmé chiedeva invece precisamente la sparizione del poeta dalla poesia: l'oeuvre pure implique la disparition élocutoire du poete, qui cède l'initiative aux mots (Crise de vers).
La poesia è per pochi, pochissimi. L'idea che aveva Mallarmé del poeta era quella di un ricercatore dell'Essere distaccato e, davanti al mistero, sempre solitario; il lettore arriva a raccogliere i resti del divino banchetto in un secondo tempo. Il limite, il divario tra i due non sono mai colmabili, né eliminabili. La bellezza è dispersa nel mondo, inconcepibile nella sua interezza; ma c'é. 

Perché dunque è sparita, dalla poesia odierna, come un rapido sogno che non si lascia dietro niente? Dov'è finita quella bellezza che non scompare mai del tutto? I poeti hanno dimenticato la natura, il reale e il suo mistero, per diventare quello che non dovrebbero mai diventare: lettori tra lettori ‒ dimentichi del fatto che la Poesia esiste anche senza di loro, e anche senza lettori.

                                                                        Gabriele Marchetti

domenica 27 aprile 2014

Una miscellanea di varia cultura

 Satura lanx. Saggi, interventi, recensioni, colloqui

di Elisabetta Brizio e Matteo Veronesi

Nuova Provincia, Imola 2014






Il titolo del libro (espressione latina che designava la lussureggiante e variopinta abbondanza degli omaggi rituali a Minerva) allude alla multiformità e all'eterogeneità degli argomenti trattati, tenuti insieme, però, da una eclettica comunanza di passione intellettuale e curiosità interpretativa.



http://www.lulu.com/shop/search.ep?keyWords=satura+lanx&type=Not+Service&sitesearch=lulu.com&q=

Rileggere un silenzio. Per riscoprire Adolfo De Bosis








Nella Contemplazione della morte, D'Annunzio definisce De Bosis come «Principe del Silenzio», e contrappone il fasto debordante – fra panneggi e suppellettili, ornamenti e velami, fascinazioni visive e tattili, un po' come nella Vie des chambres di Rodenbach, nella Filosofia dell'arredamento di Poe o nel Baudelaire della Chambre double – dello sgargiante e quasi soffocante salotto, descritto fra gli altri da Diego Angeli nelle Cronache del Caffè Greco, in cui si riuniva la redazione del «Convito», al vuoto e al nudo silenzio che avrebbero invece aleggiato nella propria momentanea dimora: una quiete in cui troneggiava, fra i pochi e scarni arredi, anche un pianoforte a coda – simbolo, quasi, di una musica muta, di un'armonia potenziale e germinante, come in un quadro metafisico –, e dietro la quale, quasi a fare da controcanto, si avvertiva il «clavicembalo d'argento» del Tevere, il cui sommesso ed incessante mormorio accompagnava il fluire dei pensieri e l'inanellarsi delle sillabe.
Basta questa contrapposizione, questo contrappeso e contrappunto fra pieno e vuoto, fra Voce e Silenzio, e questa caratterizzazione alata e remota di De Bosis – un po' come di Angelo Conti nel Fuoco – quale esteta distante, pacato, diafano, quasi avulso dalla materia e dal reale, a predisporre, ad ispirare e ad intonare secondo il modo più suggestivo una rivisitazione e una rilettura di questo poeta, esteta e traduttore raffinato, elegante, a suo modo non privo di originalità, anche se in apparenza così lontano dal nostro gusto.
Una musique du silence, una  sottilissima  tessitura di  unheard melodies (per citare due  autori,  Mallarmé  e  Keats,  che grandemente contribuirono ad alimentare le poetiche del  simbolismo italiano) che nascono, di per sé, intrinsecamente, dall'homo interior,  dal  raccoglimento  e  dalla  quiete  del  pensiero; ed è, questa, una  parola che al silenzio è tornata,  che un silenzio  quasi  gnostico   ha   riavvolto, per una sorta di  neoplatonico  ritorno  all'Uno;  e  che  è,  infatti,  e permane, nella sua inaccessibilità, nella sua aseità marmorea, sepolta a stento in qualche vecchia e polverosa antologia, citata di rado in qualche nota erudita. Forse questo è, in generale,  il  destino  triste o
necessario, miserabile o essenziale, eroico o vano, di ogni parola affidata alla pagina, qualora essa non si fermi alla superficie screziata e fugace delle cose e dell'uomo sotto un pretesto d'autenticità, di naturalezza o di verisimiglianza.
Ad ogni modo, è da quel silenzio, da quegli indugi fra sillaba e sillaba, come avrebbe detto De Robertis (che pure contrapponeva la musicalità a suo dire esteriore e manierata, in cui «nessuna sillaba trema per un brulichio luccicante», di De Bosis, a quella, più necessaria, consapevole, essenziale, ontologicamente fondata, di Mallarmé, che «sopra una coscienza vuota costruì una poesia grande» – mentre il Boine di Plausi e botte, pur così lontano, con il suo sentito espressionismo esistenziale, dall'estetismo di De Bosis, riconosceva dietro quest'ultimo un'esperienza di vita e una vicenda spirituale a loro modo autentiche e vibranti, degne di «uomini semplicemente vivi, che dicevan cose vive ed eterne») 1, che si sprigionano la luce e il senso di questo discorso; è in quel silenzio che ci si deve reimmergere.
La Parola racchiude in sé il Silenzio, come il Silenzio la Parola, come nel «nodo ritmico» che è, per Mallarmé, ogni anima. E l'una nasce dall'altro, e all'altro ritorna. «Trema il Silenzio in suoi tintinni d'oro». «Ella tacea, diversa, sul cuore mio vigile e solo / ora il silenzio parve  trepido di parole».  Il  silenzio racchiude  in  sé, simbolicamente,  semanticamente, fonicamente, il lievito e il vibrio del suono e del dire –  «Une  ligne,  quelque  vibration,   sommaires   et tout s'indique»,  come suggerisce il  Mallarmé   lettore  di   Banville, in una posizione storica  simile  a  quella  di  De  Bosis,  il  quale  rivisita  la  classicità parnassiana di Carducci infondendovi un fluido d'inquietudini e d'echi e di brividi – «Profuse strains of unpremeditated art», «Unbodied joy whose race is just begun», come quelli dell'Allodola di Shelley, così cara a De Bosis –  o  la  notturna  musica  vibrata  dalle corde di «some still instrument», di un qualche indefinito strumento silenzioso, nell'Hymn to Intellectual Beauty.
«Language is a perpetual Orphic song», si legge nel Prometheus Unbound – «explication orphique de la terre» dovrebbe essere, per Mallarmé, il Libro, il fine supremo del poeta. Campana, come poi Onofri, forse anche attraverso la mediazione di De Bosis 2, dovette meditare a lungo su queste parole; e non si può escludere che proprio De Bosis possa rappresentare un anello, forse esile, ma significativo, della catena che porta l'analogismo della poesia romantica e di quella simbolista a trasfondersi e a sfociare nel grande orfismo novecentesco, in una poesia, cioè, conscia – in modo ora entusiastico, ora meditato e criticamente mediato – del proprio valore ontologico, conoscitivo ed epifanico.        
Nodo interiore, vincolo – riflesso incarnato della copula mundi, della coesione macrocosmica – di Parola e Silenzio, Segno e Vuoto. In questa unità dei contrari De Bosis riuscì a far coesistere – da essa stessa alimentandole – i diversi lati della sua natura, i diversi volti della sua personalità creatrice: il poeta che seppe trasfondere, in un metro di foggia classica, ma già pervaso da alterazioni, sollecitazioni, inquietudini (del resto, Lucini teorico del verso libero vedrà proprio nelle anomalie, negli scarti e negli straniamenti della metrica barbara carducciana il presagio e il fermento del nuovo), la sensibilità e l'afflato, spirituali e musicali, dei Romantici inglesi e di Whitman (quel Whitman che, prima di lui, già Enrico Nencioni, preparando così la strada al D'Annunzio di Elettra, aveva conciliato con un senso carducciano di classicità e di sublime); il traduttore che diede veste italiana, classica e mediterranea, a Shelley, fondendo l'immagine carducciana dello «Spirito di Titano entro virginee forme» con una concezione simbolista del traduttore – come dell'artista – quale «déchiffreur», quale rivelatore, per via di suggestione e d'analogia, di un'essenza noumenica, di una parola e un'unità primigenie, celate sotto gli abbagli della diversità e del molteplice; infine, il critico e saggista che, legato strettamente al traduttore-poeta, fuse l'impegno di una ricerca rigorosa e di un'altissima divulgazione con l'impulso, tipico del critico-artista dell'estetismo, a fare della critica stessa – come della vita, dell'esistenza, delle quali la «volontà d'interpretazione», paredra, insegna il Nietzsche postumo, della «Volontà di Potenza», è parte e forza essenziale – una forma d'arte, una «critique poétique» e un «poème critique» 3.
Fu, forse, Ricciotto Canudo, un esteta eclettico, geniale e troppo presto dimenticato, ad indicare, in un articolo uscito sul «Mercure de France», nel dicembre del 1904, la chiave in cui ancor oggi possiamo accostarci alle pagine di questo prezioso inattuale.
Fu proprio la solitudine dell'artista e dell'esteta, «le leit-motif de l'égotisme conscient et dédaigneux», ad alimentare, in lui (un po' come nel Wilde di The Soul of Man under Socialism), l'amore per l'umanità, per la natura, per la vita, proprio perché quel margine di solitudine e d'autonomia gli consentì di restare al di sopra del meschino turbinìo degli affanni e degli antagonismi e delle angustie vane che marcano il divenire dei giorni. La solitudine divenne, in lui, naturalezza, e per ciò stesso sguardo universale.
Vi è, dice Canudo, nei ritmi del poeta, una «melanconia forte», un vigore etico che abbraccia e ferma e nobilita anche i momenti di ripiegamento, d'abbandono, di meditazione sconfortata. Tutti i mali dell'homme crépusculaire (si noti che Canudo scrive un decennio prima del celebre articolo di Borgese che delineò la definizione di «poesia crepuscolare») sono avvertiti da De Bosis, ma restano, nei suoi versi, «sans un nom précis».
Vaghe sono le sofferenze e i rimpianti, come vaga la speranza. Ma proprio quella vaghezza, quell'indeterminatezza, quell'indecisione fra il culto della Bellezza pura e l'impegno etico, fra il ripiegamento e il proclama, l'indugio melanconico e il disegno ideale, sono sorgente, spazio e strumento d'espressione.
Siamo davanti ad un poeta che ha nella sua debolezza la sua forza, e nella sua inattualità la sua intuizione di tempi e d'inquietudini a venire. È tale l'immagine, tale la consapevolezza che ha ispirato e motivato questo essenziale florilegio.

                                                  Matteo Veronesi




1) Cfr., su questo come su molto altro, il ben documentato studio di Giorgio Pannunzio, Cittadino del Cielo: De Bosis poeta tra modernità e tradizione, Lulu Press, Raleigh 2011 (nella fattispecie, pp. 88 e 101-103).

2) Vedi il parallelo fra La Chimera di Campana e L'invocazione di De Bosis suggerito ancora da Pannunzio, ibid., pp. 180-181; si aggiunga che, ad esempio, l'Elegia della Fiamma e dell'Ombra pare profilare diversi possibili paralleli con testi degli Orfici come il Canto della tenebra o Immagini del viaggio e della montagna; ma la possibile silente presenza di De Bosis nella poesia italiana del Novecento, dai Crepuscolari ad Onofri fino forse a Montale (presenza a volte da me accennata, sinteticamente, nelle note), dovrebbe certo essere maggiormente indagata.

3) Rinvio al mio libro Il critico come artista dall'estetismo agli ermetici, Bologna 2006.

   
 
Il Principe del Silenzio. Florilegio da Adolfo De Bosis, a cura di Elisabetta Brizio e Matteo Veronesi, Nuova Provincia, Imola 2013.

L'antologia può essere gratuitamente scaricata, come libro elettronico, da questo indirizzo:


https://archive.org/details/DeBosisLibro2Reimpaginato

Una copia cartacea può essere ordinata qui:

http://www.lulu.com/shop/matteo-veronesi-and-elisabetta-brizio/il-principe-del-silenzio/paperback/product-21342588.html

giovedì 24 aprile 2014

"Quel che giace sul fondo". Alcuni inediti di Miriam Bruni

Capita raramente, soprattutto in questi tempi strafottenti e illuminati di squallore, di imbattersi in una poesia pulita, essenziale e a prima vista di semplice lettura come quella di Miriam Bruni (1979).
L'autrice ha già pubblicato Cristalli (Booksprint Edizioni, 2013), la sua prima raccolta, che spesso mi è capitato di paragonare, nel sentimento profondo che la informa, alle poesie della Dickinson. Anche graficamente, le emozioni sono personificate con l'uso della maiuscola a dare dignità ad ogni attimo, ad ogni atto, ad ogni sbaglio del nostro vivere.
Ho goduto del privilegio di ricevere direttamente dall'autrice alcuni inediti che proseguono sulla via già tracciata, e che confermano i tratti salienti emersi da Cristalli: la leggerezza del tocco, femminile in tutto (nelle immagini rarefatte, eppure a volte crudeli, terribilmente materiali); la personificazione metafisica delle esperienze quotidiane che si scontrano con la caducità del mondo che ne circonda l'azione; l'uso di una lingua che non eccede mai, attestandosi su un registro comune, ma in modo cercato, pienamente voluto. E' proprio nella scelta di una lingua semplice, ridotta al minimo, mai soverchiante, che sta uno dei meriti più importanti di Miriam Bruni. Paragonata a quella di altre poetesse di oggi, la sua poesia appare stringata; manca la verbosità di certi testi che non sono affatto poesie, ma brani di noiosissima prosa, e per di più infarciti con le solite banalità. Niente elenchi di azioni, ripetitivi e stancanti, inutili; niente frasi degne del diario di una ragazzina. Qui la prospettiva è diversa: è uno scavo interiore dove riusciamo a sentire la voce di una giovane donna che vive, soffre, ama, sogna, ha paura. Nei suoi versi è come se Miriam si stesse sempre guardando allo specchio, uno specchio magico che le permette (e quindi anche al lettore) di vedersi dentro, oltre che dal di fuori. E la semplicità che emerge dalle pagine di Cristalli e da questi inediti testimonia la semplicità di un'anima; e in poesia, e nell'arte in genere, la semplicità è un pregio, una qualità.
La sua voce può sembrare lieve, sottile: il canto di un lucherino che cerca di sovrastare il rumorìo ingombrante del mondo, della vita. Ma il ritmo e l'attenzione ad esso non calano mai, sono sempre sostenuti; la forza nascosta che emerge in alcuni punti è come il magma che spezza la crosta terrestre, incontenibile: e al di sotto (o magari al di là) del testo c'è l'angolo oscuro che ogni cuore possiede come estremo rifugio. E Miriam si è posta, credo, il compito di riportare alla luce quel che giace sul fondo, troppo in silenzio, come dice lei stessa in un verso bellissimo che contiene una decisiva idea di poetica. L'intento è riscoprire la vera Realtà, insomma, per risentire la voce spenta delle cose a cui l'uomo ha voluto imporre la propria; ed è appunto nel connubio, mai scontato, tra la prospettiva personale e quella assoluta del Vero che sta l'aspetto più interessante di questi testi. Che hanno, mi pare, una certa forza filosofica che sfiora in più di qualche caso il lato religioso, mistico, dell'esistenza. La bellezza va sviscerata dagli ingombri che la ricoprono; magari è nel modo in cui il sole gioca con l'ombra nei viali di una città, o nella primavera che riluce nell'aria.
Eppure c'è una cupa inquietudine che scorre in questi versi, mai sopita, sempre all'erta, pronta a saltare fuori per riequilibrare la bilancia del vivere umano. E allora si legge facilmente tra le righe la sensazione di essere condannati, fin dall'inizio, e senza una via di scampo che non sia l'accettazione piena del proprio destino di morte, perché nell'accettare il limite c'è già il superamento, almeno spirituale, del limite stesso.
Ecco i testi inediti:

1
Non so svincolarmi dal Riconoscimento.
E' forse questo il mio labirinto?

Resto immobile tra le sue spire; perduta
ogni consueta cognizione del tempo.

Lascio i codici, e divento spiga - vuota
clessidra - liberata dalle polveri dei ruoli,

dalle leggi gravitazionali. E' come
una corrente, un riverbero del divino fulgore

che conosce il mio nome e lo sa pronunciare.
Quando chiama il mio battito si accende,

lo riama, rimbalza fin sotto la gola, fin oltre
le spalle. Poi mi cola dentro, e riporta in alto

quel che giace sul fondo, troppo in silenzio.


2
A chi mi dice di alzare
la voce e impormi rispondo:
''non urlano le creature,
eppure stanno liete.
Con quanta luce e buio
non sapete; se con lana
o seta, spago grezzo, insanguinato,
io genero e dal mio stelo stacco
ciò che disvelo e offro.
In un'Ostia sottile e leggera
Lui si cela. E di noi conserva
tutto, il Padre in cui confido,
più di me che talvolta li butto
-i disegni- e distratta giaccio''.


3
Spesso avete parole come pietre,
che spezzano le gambe
e ottundono la mente. Per fare pace
dovrebbero esser fiori o piume,
o ali di farfalla: delicate.


4
Mi osservo e tocco
i polsi fragili, le dita,
le reni sottili e le caviglie,
l'aorta. E' nell'uomo
interiore la forza.
Ma resta che posso
spezzarmi - e morire -
con ben poco sforzo,
ben poco sudore.


5
L'ho poggiata sul sellino
l'inquietudine di ieri.
E portato a sobbalzare
sulle arterie principali.

Alle 18 il sole in San Vitale
era il cuore attraente del cielo.
Sbucava da palazzi e campanili
e a tratti mi abbagliava.

Col suo sguardo dorato
bagnava - lieto - le facciate verticali
mentre io - cieca - attraversavo l'ombra
e gli sorridevo, sentendomi leggera.


6
Cadiamo anche noi sulle macerie
troppo aguzze delle nostre vite

e a grandi lacrime ci avviciniamo
al maledetto canto della nostra fine.

Chi resiste in quei momenti è solo il cuore,
che continua a trottare, battere il tempo,

nel mare di Male che a sorsi ci ingoia,
privandoci di ogni risorsa e talento.

Lui tutto registra, obbediente. La testa
mi scoppia, disidratata è la mente,

e ogni mio arto così lento e cadente,
passato sotto un rullo, febbricitante.


7
Balla con me
Primavera
che sfasi le fioriture
delle piante
a piacimento
e a noi ci butti nei ricordi

senza pietà - a tradimento.

E' una poetessa, Miriam Bruni, da tenere d'occhio per il futuro. Il candore abbagliante delle sue parole è qualcosa che manca alla nostra poesia, troppo presa dall'apparire a discapito dell'essere. La genuinità, lo sforzo alla Verità nel descrivere l'esistenza, la scelta di una lingua decisa, senza abbellimenti inutili, forgiata per dire, non per chiacchierare: tutto questo ci manca terribilmente.


             
                  Gabriele Marchetti  


venerdì 11 aprile 2014

"Questi anni osceni perché fuori dalla storia". Sulla poesia di Emiliano Michelini





Ci si può chiedere cosa renda davvero poesia questi versi così vicini, nei temi e nelle parole, ad una quotidianità grigia, angusta, pesantemente materica – alla "prosa della vita reale", alla "realtà già ordinata a prosa", come diceva il filosofo. La risposta è nel ritmo: un ritmo che serba ancora l'eco ineludibile di una tradizione poetica, di un "canto italiano" diceva Ungaretti, che paradossalmente divengono, per contrasto, ancora più sensibili, come in controluce, proprio nel verso libero che sia usato in modo consapevole, sotto la vigilanza di una coscienza letteraria scaltrita, e dunque sorretto dalla memoria di quelle stesse armonie e simmetrie che vengono infrante, o si infrangono da sé sotto la pressione della realtà e del dire. Nel testo riportato in chiusura, questo indiretto dialogo con l'eredità di movenze e di accordi, di scarti e dissonanze, che giunge fino a noi dai secoli e attraverso i secoli, si fa ancora più marcata. E proprio in quel ritmo, nel solco di quella musica remota trovano la propria dimora e la propria espressione i lampi lirici, i bagliori siderali levati, in rari momenti, come a cercare di redimere l'oscurità di un'epoca alla deriva. (M. V.)  





Cominciamo dando subito la parola all'autore, Emiliano Michelini (1977), che ci illustra le caratteristiche essenziali della sua prima raccolta La circolazione del sangue (Sigismundus, 2013).
D: in che arco di tempo l'hai composta?
R: le poesie contenute nel libro sono state scritte in un arco di tempo piuttosto lungo, che va dal 2004 al 2012. Ovviamente all'inizio non c'era la volontà di farne un libro: andavo avanti a scrivere con l'idea poi di raccoglierle, ma non sapevo con quale criterio. Nel momento in cui si è manifestata dentro di me l'intenzione di pubblicare un libro, ho scelto quelle che maggiormente potevano amalgamarsi insieme. La circolazione del sangue rappresenta solo una piccola parte di un percorso poetico iniziato a fine anni '90, anche se fino al 2003 le cose che scrivevo non credo si potessero chiamare poesie.
D: qual era l'intento?
R: l'intento era quello di fare una poesia che fosse esperienziale, che descrivesse il caos che vedevo intorno a me, intorno alle persone che frequentavo; lo smarrimento, prima di tutto affettivo e sentimentale, che attraversava le persone che ho incrociato in questi anni. Non è la descrizione della mia generazione, è la descrizione di un microcosmo nel quale ho vissuto. L'adolescenza che si protrae anche dopo la maggiore età, tipica degli ultimi quarant'anni del nostro paese, ma calata in un contesto immaginifico di sale giochi e centri commerciali. Io vengo da lì, non avrei potuto scrivere di altro. Come dice Milo de Angelis in un suo verso, anche io sono nato lì.
D: le esperienze che descrivi sono le tue, o quelle di altri?
R: sono prevalentemente di altri, ma viste con i miei occhi, interpretate secondo la mia sensibilità. Mi piaceva l'idea di mettere al centro del libro gli oggetti, quasi come se fossero loro i veri protagonisti, mentre le persone sono relegate al ruolo di protesi, appunto, degli oggetti stessi. Non c'è nessun intento moralistico; quello che mi interessava era mescolare assieme esperienza lirica e motorini truccati. I personaggi che si muovono nel libro possono appartenere a qualsiasi provincia italiana: io ho descritto la mia, in modo caotico e incongruo, e nello stesso tempo profondamente tragico. Tragico nel senso greco del termine: un canto collettivo di marmitte truccate e ragazze truccate.
D: la scelta di una metrica totalmente libera, quasi caotica, è dovuta all'oggetto del poetare?
R: la scelta metrica è stata proprio questa. Non so se sia stata una scelta felice, probabilmente no. Ma in quel periodo avevo in mente il poemetto Il sasso appeso di Nanni Balestrini, che è un insieme di ipermetri spezzati. L'adolescenza, d'altronde, è l'età caotica per eccellenza. Credo che questo modello si sia sedimentato lentamente nel processo di scrittura, ma quello stile (o non stile, vorrei dire) è limitato a quel libro; ho anche lasciato volutamente degli errori di sintassi (come la posizione delle virgole nei primi versi) per dare un senso di smarrimento ancora maggiore. Ho rischiato molto e non sono soddisfattissimo del risultato: non era una sfida facile, ma se a qualcuno è arrivato un qualcosa, il traguardo in qualche modo è stato raggiunto. In sostanza, è un libro sperimentale che ha in sé un candore quasi dilettantesco. Solitamente, per darmi una direzione scrivo in forma chiusa o con endecasillabi sciolti, dipende dove mi porta la poesia che sto scrivendo. In alcuni casi trovo che la metrica chiusa sia il giusto abito e in altri casi spezzo di proposito gli endecasillabi. Trovo comunque che il verso libero sia molto più difficile da utilizzare, al contrario di ciò che si pensa: con il verso libero sei più soggetto a sbagliare.

Basterebbero forse queste lucide risposte a illustrare la gestazione e la realizzazione di questa raccolta. La prima volta che l'ho letta, sono rimasto come dopo un giro in ottovolante: senza respiro, mi ero goduto ogni vertigine, estasiato e schifato. Al momento non riuscivo a capire cosa ci fosse di così follemente bello in queste pagine che, allo sguardo disattento, paiono il diario di un adolescente che osserva da semplice spettatore la sua e le altre vite come attraverso un caleidoscopio. Ero colpito: certe scene che trovavo descritte non solo le avevo già vissute (o viste, anch'io nel ruolo di spettatore), ma erano proprio le mie. E l'uso febbricitante della lingua, che gioca con se stessa e con la realtà, contribuiva ad alimentare quello stupore.
La presenza intermittente di una qualche bellezza, calata nel quotidiano e su sfondi tridimensionali di acuto squallore provinciale, mi risultava talmente familiare da farmi credere che quelle parole mi fossero state strappate dal cuore. Parlandone poi con Emiliano, gli dissi chiaro e tondo che la sua raccolta era un pugno in faccia. Era, allora, la definizione che più mi sembrava calzare per dei quadri di vita sociale che hanno la forza icastica di film come Trainspotting o I ragazzi dello zoo di Berlino. Penso alla stupenda Ode alle hypnoninfette, dove

i ragazzi aspettano l'ennesimo tramonto,
con le dita sul pulsante degli scooter
quando la piazza si trasforma in un deserto
con gli occhiali stretti stretti tra le mani (p. 24, vv. 1-4),

e a fare loro da contraltare ci sono ragazzine dalle idee già chiare:

con i piumini comprati in settimana
e il loro primo paio di stivali alla nazista,
stretti stretti dentro i jeans del terzo reich (ib., vv. 10-12).

E ancora nella poesia che apre il libro, e che sa di manifesto per l'intera raccolta, Millenovecentonovantotto:

abbiamo lasciato il nostro cuore
sulle scale mobili degli ipermercati (p. 13, vv.1-2);

o anche in questo passaggio tratto dalla terza parte, che ha un titolo magnificamente suburbano, La luna vista dal McDonald's:

abbiamo rispettato la stessa fila,
io dietro di te aspettando che ordinassi
il McChiken Deluxe Menù
con un the freddo al posto della coca (p. 43, vv.1-4).

La provincia italiana, dalle pagine di questa raccolta, esce maciullata nel suo orgoglio perbenista. L'autore ce ne presenta ogni piega morbosa, ogni vizio (sempre a livello dello sguardo di un adolescente, quindi circoscritto a valori che non superano mai il qui e ora), ogni bruttezza, ogni solitudine:

mettere la mano nelle tasche, ritrovare
quel foglietto stropicciato
con sopra scritto il numero e la frase
''Simona disposta a tutto'' (p. 22, vv. 12-15)

gli occhi viola, vitrei, poi
con quella faccia da mangiafiga ti avvicinasti
chiedendomi dei posti, delle ore (p. 25, vv. 2-4),

se deve fare il filtro
con la tessere sconto del McDonald's (p. 33, vv. 14-15),

facendo attenzione a non farmi scoprire
in mezzo all'erba, in mezzo alle siringhe (p. 52, vv. 7-8).

Ma aleggia qua e là, come un farfalla impazzita che non si lascia acchiappare, una bellezza nascosta, un lampo di eternità che ogni tanto si salva e ci salva dal nulla quotidiano:

in gola i segreti di una domenica
mattina, quando con le luci negli occhi
i rumori, le cose ancora più in generale
e la natura... (p. 47, vv. 10-13),

mi farò pavimento
per accogliere te e queste fotografie sbiadite
di ginocchia sbucciate e altri pomeriggi (p. 52, vv. 1-3),

scandisco il tempo di quell'orsa maggiore,
astri tra le fronde (p. 58, vv. 6-7).

Questa raccolta è un'antologia di situazioni, di momenti, di scene che innalzano l'adolescenza (anche la più disgraziata e già rovinata, svenduta) alla dignità poetica.
Sembra quasi di rileggere i testi dei Ramones, il gruppo punk newyorkese che ha fatto dell'adolescenza (a volte peggiore di quelle dei personaggi della Circolazione) il tema preferito delle sue canzoni. Nei Ramones si trova una certa ironia, che sfocia spesso nel macabro, visione influenzata dalla sottocultura dei quattro fratelli, cresciuti a filmacci horror e nottate per le strade della Grande Mela; qui invece lo sguardo vuole essere di empatia, di commiserazione pur senza sfociare nell'aperta denuncia di un modo di vivere doloroso.
Tocca poi a noi mettere a confronto quanto descritto con la nostra stessa esperienza, per trovarci in qualche modo affratellati all'autore e ai suoi personaggi. Si avverte forte la certezza che in queste pagine c'è dentro molto di ognuno di noi (parlo per chi oggi si aggira sui trenta-quaranta, insomma per chi ha vissuto da ragazzo parte degli '80 e tanto degli anni '90): le stesse delusioni, le stesse paure, lo stesso impossibile desiderio di amore. Quest'ultimo tema resta sempre sullo sfondo, presenza fissa che fa quasi da basso continuo: anche se spesso è un amore usato male, o mai osato, o semplicemente troppo difficile da mettere in pratica:

ancora femmine ingoiate senza amore (p. 35, v. 10),

resistono le cose dell'amore,
e poi qualcuna guarda senza sesso
un altro uomo nella folla. Hanno amato per davvero
non te lo diranno mai (36, vv. 30-33),

e il bacio non dato alla fine della spiaggia (p. 57, v. 5),

l'unica parola
d'amore sul cartone dell'addio (p. 60, vv. 3-4),

e ancora nel componimento che chiude la raccolta, dove la richiesta di amore è disperata e impossibile da soddisfare:

o se mi ami rendimi muta,
amami come si ama un abisso
nel treno del tuo sangue (p. 63, vv. 9-11).

La salvezza, se mai ce ne può essere una, è solo nel superamento spirituale, prima che anagrafico, dei limiti dell'adolescenza. Non è negli altri, non è nei luoghi: è in noi stessi. Questa raccolta è come il viaggio dall'inferno ad un paradiso fatto di ciò che sta oltre, dietro la linea piatta delle cittadine della fascia romagnola. Per chi ne ha esperienza, magari per esserci sfilato velocemente in autostrada, le colline in lontananza sono il simbolo della via d'uscita dal piattume del paesaggio. Ma è una meta sempre rimandata. Siamo tutti, chi un modo chi un altro, dei sopravvissuti a noi stessi, a ciò che eravamo; l'adolescenza è stata la guerra splendida e terribile a cui siamo scampati. Feriti, sì, ma vivi.
Ne La circolazione del sangue si racconta questa guerra. Ci sono vittime, e distruzioni; ma anche pause dal dolore, aperture alla speranza, al domani, all'infanzia (come nella quarta parte, La prima carne). Il microcosmo nel quale si muovono i personaggi rievocati dall'autore è la proiezione di una realtà più vasta (il Mondo, l'Età Adulta) che s'infiltra fino al singolo con epifanie improvvise, spezzoni di immagini, flash improvvisi. E' anzi questa realtà demiurgica che prepara il terreno, lo sfondo, ai personaggi. Che si trovano come intrappolati in un cerchio ristretto di innaturali luoghi di aggregazione sempre più inconsistenti nella loro pesantissima materialità. L'infanzia e l'età adulta stanno in attesa: la prima pronta a saltare fuori in un ricordo improvviso veloce,

un bambino color ciliegia insegue
se stesso in mezzo ai camion, in mezzo

ai camion, alle cose, a questa
dottrina di compleanni risolti (p. 47, vv. 16-19),

restano le cose che sanno di pietra
quando il bambino
conosce tutti i rumori del pensiero (p. 53, vv. 1-3),

ho visto
che sanguinavi a ritroso nell'infanzia (p. 61, vv. 4-5);

l'altra già intenta a insozzare il modo di vivere dei personaggi che hanno sempre addosso un'ansia di crescere; anzi, e forse nemmeno loro se ne accorgono, sono già cresciuti, e non tutti bene.
Capita, a chi legge queste pagine, quello che capita ad Alice ogni volta che ricade nella buca del coniglio; ma qui il mondo delle meraviglie è una copia più lugubre, più spaventosa. Come sottolinea giustamente Davide Nota nella prefazione, è Alice nel paese delle meraviglie traumatizzate (p. 7). Ma questo paese non ha nulla del grottesco, del fantasioso che ispirava le invenzioni di Carroll; qui è la realtà stessa che si è tolta la maschera davanti ad uno spettatore adolescente che assiste alla tragedia del crescere quando non si è ancora in grado di crescere, col rischio naturalmente di crescere troppo in fretta.
Si arriva alla fine del libro, come già detto, con la sensazione di aver rivissuto qualcosa di nostro, qualcosa che credevamo nascosto agli occhi degli altri. E invece ecco lì il nostro cuore, in bella vista, che torna a battere al ritmo di quegli anni lontani.

Un altro dei meriti di Emiliano è una scelta che gli è stata dettata dalla volontà di fare poesia, prima ancora che un libro di poesie. Non ha avuto fretta di mettere in pubblico le cose cha andava scrivendo, a differenza di altri autori di oggi che diventano poeti (come faranno, poi...) prima di aver scritto un solo verso. La lunga gestazione ha raffinato il prodotto.
Parlando delle poesia italiana di oggi mi piace usare il termine desolazione: un deserto di risultati raggiunti, per la scarsità di valore di coloro che scrivono poesia. In questa raccolta, l'unica desolazione di cui posso parlare è quella dell'oggetto del poetare, non certo quella del risultato, che pone La circolazione del sangue ben al di sopra della media. Manca in quasi tutti gli altri autori l'uso convulso della lingua che qui si vede all'opera; uno scavo continuo, un ricostruirci sopra, un andirivieni di scale come in Relatività di Escher, un vero labirinto dove siamo guidati per mano verso l'uscita.
Abbiamo sentito in apertura, dalle parole stesse dell'autore, che la scelta di una metrica totalmente libera non è stata casuale. Ma Emiliano sta già prendendo altre strade: c'è in lui, al momento, una volontà di ritornare ad una certa regolarità di versificazione che è testimoniata da questo inedito che ha avuto la gentilezza di passarmi, e che ricopio di seguito per intero, come indicazione della sua futura poetica:

Il nome di tuo padre

Gelida sensazione che ci univa
come alba gelata avventa il collo
tentavo di non ridere e nel crollo
d'ogni sogno era un cadavere alla riva
di Gabicce Mare. Ma cosa dire
quali parole pronunciare non sapevo
non potevo negarmi, né tirarmi
indietro. E nella mente e nella boria
nostra pressa tuonante di memoria
degl'anni osceni, Luca, come scoria
osceni perché fuori dalla storia.


Gabriele Marchetti


http://www.sigismundus.it/shop/il-ponte/la-circolazione-del-sangue/

http://www.unilibro.it/libri/f/autore-editore/michelini_emiliano-sigismundus