Isabella
Zangrando, nata nel 1982, lontana da certi ambienti culturali
esibizionistici e chiassosi, nel 2011 ha fatto uscire quasi in
sordina, nella forma di una piccola plaquette
semiprivata, la sua prima raccolta, La
pallida estate bruciante (http://books.google.it/books/about/La_Pallida_Estate_Bruciante.html?id=UVHuAQAAQBAJ&redir_esc=y).
La sua poesia nasce sotto il segno della diversità, del
non appartenere a questi tempi, a questo paese, a questo mondo
culturale e comunicativo.
Il
dato che subito salta all'occhio, perché preponderante nei suoi
versi, è la presenza di un elemento che potremmo definire magico.
Naturalmente, non si dovrà intendere questo aggettivo in senso
stretto, e cioè come l'apertura all'impossibile, al non credibile;
tutt'altro, è l'immedesimarsi dell'autrice nel senso profondo della
natura, dell'essere. È la presenza forte di un dato che distorce,
nella ricezione sensoriale, la realtà come ci appare. Sembra,
leggendo questi versi, di guardare le cose e le persone da dietro
occhiali capaci di svelare l'anima segreta che nascondono. Eppure,
non esuliamo mai dal reale, non si trovano vie per rifugiarsi nel
sogno, nella finzione: gli unici due casi, nei testi proposti,
sarebbero l'accenno al piccolo regno (forse
una voluta storpiatura del piccolo popolo
del folklore celtico?) e il ponte di sogni.
Poco per definire queste poesie azzardi fantasiosi.
Perché qui sono le parole (e non le cose o le persone raccontate) a
creare l'atmosfera magica; come se fossimo tornati ad un grado zero
della lingua, dove lo stupore, l'ammirazione per la bellezza, la
scoperta dei suoni e delle immagini sono ancora possibili, ancora
tutti da realizzare.
Così gli oggetti chiamati in causa, gli animali, le
rare presenze umane sembrano rivestiti di un alone mistico, divino:
sono archetipi d'esistenze, simboli fissati per sempre.
Il
tempo prediletto è un presente che ingloba tutto, stagione eterna da
cui si distaccano i ricordi, dolorosi spesso, e pur sempre rivissuti
come cause dello stato attuale (la bugia era
/ pallida ombra dell'odierno distacco;
l'affanno di ieri nel vento ostile di oggi;
e soprattutto nei programmatici versi ma è
tempo amaro questo / divide le strade, sperpera sorrisi / ci ricorda
che il senso / ricade solo nell'oggi). E',
insomma, un cercare il tono temporale medio, che possa servire da
fondale su cui mettere in luce i legami sovratemporali
dell'esistenza.
Nel
romanzo storico, la rappresentazione di uno stadio più antico del
mondo serve spesso a parlare del presente senza tirarlo in ballo; qui
accade il contrario, in qualche maniera, perché parlando di un
presente così vasto, e che comprende così tante esperienze che
appaiono anche giustapposte, più che legate tra loro (ma una logica
c'é, ed è stupefacente scoprirne le vere sembianze, come in il
giallo di un muro e il lento / passare dell'ora, scoprire nell'ombra
/ ferita di ferro e pianto di madre, dove
leggo il movimento dell'ombra, in un pomeriggio estivo, che si stacca
dal muro seguendo il sole, e i giochi di una bambina con un qualche
pezzetto di ferro, la ferita procuratasi per sbaglio e l'apprensione
della madre: una situazione, un'immagine cristalline, dopo averle
svolte), si finisce pur sempre per indagare i motivi di questo
presente, le sue radici. Il passato, in poche parole. Abbiamo invece
pochi accenni al futuro: speri trattenga;
eterno rifrangere / di luce;
accesa per noi ancora; profuga
ignara di nuove estati; la
bruma salmastra / foriera di notti buie e severe;
troviamo solo una voce verbale futura vera e propria, ma già negata
in partenza: mai più sarà Aprile,
come a dire che esistono solo le prime due dimensioni temporali. Per
il resto, l'idea di futuro è solo suggerita tramite aggettivi,
avverbi, verbi che semanticamente (speri)
e sintatticamente (potrei,
sarei), fanno
pensare al futuro. Sembra quasi che esso riservi solamente
incertezze, e da qui i numerosi accenni al buio e alla notte che non
chiudono solo il giorno, ma idealmente anche i componimenti. La
presenza di questo lato oscuro dell'esistenza è preponderante,
sempre vigile, pronto a prendere il dominio della scena (per i
lettori) e dell'immagine (per i personaggi). Sembrerebbe una mancanza
di speranza, un cedere alla sconfitta, al dolore; tutte cose che non
mancano, in questi testi come nella vita reale, ma va considerato che
il buio e l'ombra, che potremmo quasi considerare la stessa entità
chiamata in due modi, sono più forti solo grazie alla luce: per
l'assenza di essa (buio) e per la sua forza esaltatrice (l'ombra).
Del resto, l'autrice stessa si chiede poteva
il buio coprire il tempo?, e credo di
poterle rispondere che no, non può, anche se l'apparenza sembrerebbe
suggerire di sì. Ma si legga il bellissimo ricordo d'infanzia che
forma intero il testo di Riso antico:
il tono è gioioso, l'infanzia è l'età della luce, delle risate,
c'è una sensazione di caldo e di sole a scorrere quei versi che
anche nella suddivisione si discostano dagli altri, sono più snelli,
più liberi. Corrono, verrebbe da dire, come corrono i bambini.
Il
ricordo è un altro tema fondamentale. Tema che si lega, come
accennato sopra, alla scelta di un tempo mediano eternante. Ne Il
verde del muschio si parla de l'eco
del mondo di ieri: accenno che è sì
universalmente valido, ma che qui è così personale, così privato,
da colpire quasi. E il bellissimo verso, così montaliano, la
memoria ti assale fresca, dà il senso di
smarrimento, e di gioia triste, davanti al ricordo. Il testo è tutto
giocato sul tema della perdita (che è comunque una delle cifre della
poesia di Isabella), su quello della solitudine che ne consegue, e
che non trova una soluzione. La grande mancanza, quel vuoto che si
registra trasversalmente a tutti i testi qui presentati, sembra
quella di una figura femminile che faccia da guida. Una madre, che
viene accennata tramite l'atto del filare, con tutto l'universo
lessicale che segue: ne La casa delle volpi
abbiamo filare,
trama, cruna,
filo. E nel testo
intitolato Una tomba di spighe
vediamo il dialogo a distanza tra due donne, o meglio tra due età di
donna, tra madre e figlia. La madre tace, non può più parlare, e
tocca alla figlia darle voce. Ma la speranza non molla, nemmeno se
schiacciata dal tempo, dalle spighe e dal cemento: e vive pur sempre
chi credevamo perduto.
Si
nota spesso, in queste poesie, una parabola ascendente, come se
passassimo dalla disperazione al suo contrario. Questo perché è
solo il presente ad esistere, il passato ha terminato la sua corsa
disperata, ha esaurito il suo dolore; e il futuro non esisterà mai.
La soluzione è appunto nella continuità, nel non negare lo ieri
per non smorzare l'oggi.
La notte in silenzio
Il giallo di un muro e il lento
passare dell'ora, scoprire nell'ombra
ferita di ferro e pianto di madre,
la notte ora volge al meglio.
Così rassetti la veste, nel cono
di luce passi il crine col legno,
ti scopri donna nel sogno ma
altra è la voce dalla strada.
Poteva il buio coprire il tempo?
Socchiusa, contempli di carta
un grumo sottile, il marmo del
giorno si sbecca nel sogno.
Ora che l'ora t'avvolge, ricami
nel buio un lembo del foglio,
speri trattenga nel grembo
amore di madre e buio di donna.
Memoria, vento e lumi nella casa
(Quando leggeva piano il calore
della transumanza scemava della polvere)
Guardo da tende spente il morbo che
sale da volani di sole, sale lento e
accende il cuore di nuove bugie.
Il mondo che nasce oggi si nasconde,
timido fantoccio giace rugoso al suolo
mentre mi guardi sospesa nel sale.
La sabbia del vento penetra nei
nostri solai e sparge ricordi come
monete, emergono talora nella ruggine.
Ti ho perso, tra il legno di quella casa
quando leggevi assorta, la bugia era
pallida ombra dell'odierno distacco
(i flutti e il suolo, eterno rifrangere
di luce, accesa per noi ancora
ci aspetta silenziosa nel buio).
La casa delle volpi
Questa sera la polvere
ti mangia il cuore mentre sale
nell'aria l'odore del piccolo
regno e tu assisti silente,
profuga ignara di nuove estati
(timida processione di volpi,
nel buio del segreto
ritrovi del verde il segno).
Ricordami nel tuo filare,
la trama del mantello mi
avvolge, stupenda falena che
rompe il fragile schema
del nostro piangere umano.
Il faro nel sepolcro sulla collina
ci avvertiva del nostro passaggio
ma la notte dimentica negava,
di segni modesti la chiusa e
tu immemore musa vigilavi
(ora son ferme, da giunchi
osservano la fuga del tempo).
Ora che piega la cruna, il filo
unisce i pezzi ma polvere
sottile circonda questa casa,
come turbina d'acciaio bruno
accartoccia i nostri pensieri.
Il ponte di sogni
Anche ieri il vento portava il tuo nome
chiamava dal bosco, portava il respiro
dei morti di ieri, verdi bambini di terra.
Oggi che il ponte di sogni s'interrompe
la macchia più scura del prato si fa
ombra di ieri, mare di verde oblio.
Mai più sarà Aprile, la nenia del merlo
e il suono del chiurlo sospingono l'uscio
ritorna la paura del soffice manto laggiù.
Lo vedi, si muove il fardello, tra foglie
di leccio e passi dimentichi ti chiama,
affanno di ieri nel vento ostile di oggi.
Ricordi di mare e bruma
All'alba il suono smorzava
restava il silenzio,
sciabordare di barche.
Sapevi di sasso e manico
arnesi di gioco
trastulli di vecchi appassiti.
L'olmo non riposava più,
nel cortile vuoto
risate nuove echeggiavano.
Ma il ricordo ancora mi segue,
macina strade consumate
e beve acqua salata.
Sei tu quel rumore sordo,
quel dondolare di remi
la bruma salmastra
foriera di notti buie e severe,
anima scura ritorna ancora
la porta è socchiusa.
Ma è tempo amaro questo
divide le strade, sperpera sorrisi
ci ricorda che il senso
ricade solo nell'oggi.
Una tomba di spighe
Son pietre e vento, le tue rose
stamani mi parlano. Ricordo,
eri di spiga un giallo acceso e
ridevi del povero gallo sconfitto.
Ora che stoppie e cemento ti coprono,
sogno. Sei viva, un'effige del cielo che
pende dal lato del cuore, mi scopro
guerriero sconfitto di ieri.
Come teneva la mano, rosa selvatica,
premeva il palmo la spina, dettava
nuova legge al suo pastore, voce
della pallida estate bruciante.
Ora che tutto è silenzio, tu rivivi
come rosa acerba, il ricordo di
nuove promesse, tra spighe e
murette sbeccate rinasci al cielo.
La voce del sangue
Se nel silenzio di quest'ultima ora
nell'attesa furente delle pietre
se ancora non sai che la rosa
si fa cavallo con armi dimesse
cosa avvisa la timida allodola?
La senti nel chiaro dell'alba
là al fiume pasteggi con ghiaccio
e il povero sale degli occhi
consuma le lacrime dei morti.
La sento distante, il passo è rumore.
Allora ti cerco, orgoglio di martire
la pietra e il legno son vesti diverse
la tua che ricordo era talamo d'agnello
ma l'ombra è lesta e l'alba sorella.
Acque rossastre, di piume un covo
che canta, il giorno di ieri è già sera.
Ricordi di terra e sangue
Se il silenzio fosse tomba.
E mi svegliassi.
Se il dolore fosse riposo,
se fosse aria da respirare
ora io potrei vivere
(invece muori ancella triste).
Se solo questa prigione
avesse rami e spine tenere,
queste ombre non mi tenterebbero
sarei creatura tra tante
carne dolorosa al macero
(socchiudi l'imposta ma non guardi).
Se tu poi non fossi
che un ricordo lontano
la pallida estate bruciante.
Invece sei fredda estasi
un ritorno solitario e perpetuo,
la fresca terra che mi accoglie.
Riso antico
E mentre correva
il carretto,
acciaio su ferro
stridente,
ridevo e sognavo.
Era un cestino di carta
il sogno mortale
del poeta cantore.
Era il seme bruno
maturato al sole
un pugno sul muro,
il ricordo di bimba.
Rideva il mio cuore,
sapeva di mare
palestra di odori
estate lontana.
E rubavo ghirlande
(biondo ferino)
di sangue e terra
regalo amaro,
e sussurravo
tra rovi acerbi
parole di riso antico.
Il verde del muschio
Il verde del muschio nelle ombre
la sera qui cala veloce.
Sei sola di nuovo, la mano ferita
e l'eco del mondo di ieri
mottetto scaltro del piccolo amico.
La rosa che storce il capo mendica
i tuoi ricordi, tra fronde di pino
la memoria ti assale fresca.
Di ieri cerchi la traccia nell'ombra
veloce che cambia.
Risali nel buio del sonno, primule
e castagni accompagnano frane,
ti paiono nel male una luce.
E sorge la notte, ancora bendata.
E sogni la luce, dimentica sposa.
Qui la notte morde rapace.
Un lirismo così puro, soffuso, pudico, lontano dalla
sensualità e dalla corporeità a volte prepotenti di molta poesia
femminile d'oggi, da essere quasi destinato di per sé, per la
propria stessa natura, a restare riposto nell'ombra di pagine
semiclandestine, sfuggite, esili e fini, fra le maglie del sistema
editoriale e del meccanismo esteriore delle presentazioni e dei
festival, e destinate alla meditazione silenziosa e partecipe della
lettura solitaria.
Gabriele Marchetti
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