sabato 28 dicembre 2013

Giuseppe Feola, "Schegge"

Ho il piacere di pubblicare questi brevi e folgoranti testi di Giuseppe Feola, che fanno pensare alla poesia orientale (magari nella traduzione imagista di Pound, o in quella orfica del nostro Onofri), rivisitata attraverso l'analogismo ermetico (del resto, come ricordava il compianto Renato Turci con un'indicazione forse non abbastanza approfondita dalla critica, che altro sono I fiumi di Ungaretti se non una sequenza di haikai uniti dal sottile filo delle associazioni analogiche e delle transizioni memoriali?).
È sul piano fonosimbolico che le associazioni più sorprendenti trovano la loro giustificazione, come se la parola recuperasse la sua funzione di "esplicazione orfica della terra”, e come se la realtà stessa, parola in potenza, anelasse a farsi verbo. Si tratta, spesso, di nessi che associano, attraverso il valore delle consonanti (soprattutto delle liquide e delle rotanti), il piano del suono a quello della luce, immergendo l'uno e l'altro nella fluidità del divenire rappresa in emblematicità d'immagine. «Una scheggia precisa / di Sole / nell’acqua della sera: novilunio». «o- / dori che il Sole matura in pensieri». «Tre quarti / di opàle / in un limo di chiuso / bitume».
« Imiter le Chinois au coeur limpide et fin» (si potrebbe dire con Mallarmé), inseguendo sul filo sottile della parola e del verso l'indicibilità delle impressioni fuggitive, e la tersa oscurità dell'essenza irraggiungibile, cinta dal buio e dalle nubi del reale, di cui il cielo notturno è la torbida e lacerata allegoria. «I segnali del Mondo sono cose / dal fondo incandescente della Notte / esplose come luce in superficie». (M. V.)

 
1


Lampeggia
una spada alla cinta
d’una nube in cammino.


2


Una scheggia precisa
di Sole
nell’acqua della sera: novilunio.


3


La terra
rivolge
i percorsi dell’acqua
nel sole:
            o-
dori che il Sole matura in pensieri.

4


Nella foschia, sul fiume, la Luna
occidente: tre quarti
di opàle
in un limo di chiuso
bitume.

5


La nera
finestra
mezza sbarrata
del palazzo dell’ede-

re: la natura
riprende
il suo spazio.

6


Le strisce
dei pollini sulla strada le vie
del vento insospettate
rivelano.

7


Pietre rivolgono bocche alla luce
che cade: rughe
già dall’aratro del cielo scavate
di pioggia.

8


La città s’addormenta nella ruvida
coperta
del temporale:

l’abbraccio
a primavera bruno della notte.

9


Si accende
di verdi
fiammelle d’erba nuova
l’attrito delle pietre
al tremito
sopito del-
la primavera.
10


I segnali del Mondo sono cose
dal fondo incandescente della Notte
esplose come luce in superficie.

11


Le scale
di ruggine
del cielo

portano a un tetto
da cui si vede il mondo.

12


Le porte chiuse
allineate
nella città di notte:

il passaggio degli anni
nella mia vita
deserta.

13


I gabbiani insaziabili
affollano
il cielo: becchi,
bocche rosse di vita
spalancano,
gridano al Sole che vomita il giorno.

14


Antiche mura
si aprono al vivere
di erbe e di nidi.

Verde notte del seme:
spalanca al-
l’esistere
la natura il suo grembo.

15


Sotto le nuvole,
i corvi:
           lente
ronde percorrono
il cielo.

16


La Luna: il suo
sguardo lieve che interroga il
Sole, a chiedergli d’essere
mite alla Terra.

venerdì 13 dicembre 2013

Il Principe del Silenzio. Florilegio da Adolfo De Bosis






Un'essenziale antologia dell'opera di poeta, traduttore e saggista di Adolfo De Bosis, esteta vicino all'ambiente dannunziano.

INDICE
9  Elisabetta Brizio, Beauty is right, mind beauty... Estetismo e coscienza in Amori ac silentio sacrum
33 Poesia                                        
73 Traduzioni
101 Pagine saggistiche 
117 Matteo Veronesi, Rileggere un silenzio
123 Galleria d'immagini


  


lunedì 25 novembre 2013

Ricordo di Susana Chávez, una poetessa contro il femminicidio


«Ni una mujer más», «Mai più una donna uccisa»: questo il proclama che anima gli attivisti di Ciudad Juarez, i quali tentano invano di arginare il fenomeno degli assassinî, atroci quanto inspiegabili, di donne povere e smarrite in quella piccola città perduta nel deserto messicano, a pochi chilometri dal confine con gli Stati Uniti, terra promessa che in quelle regioni aride e amare molti sognano come meta di fuga e luogo di riscatto.
Susana Chávez, la poetessa che aveva creato quel motto, nella notte fra il cinque e il sei gennaio 2011, non ancora quarantenne, è caduta a sua volta, con tragica ironia, vittima di quell'anonima e misteriosa crudeltà. Ritrovata con una mano mozzata e la testa avvolta in un sacco: come a dire che non avrebbe dovuto scrivere, e che non avrebbe dovuto parlare.
Era l'esponente forse più significativa del movimento poetico di Ciudad Juarez, di quella cerchia (basti qui ricordare Elegía en el desierto di Micaela Solís: «Irretita nelle sue strade, la città, / sospende impavida la morte / alla profondità del suo silenzio. / Irretiti, le sue ore e i suoi giorni / nelle perfide menzogne della luce / alba esausta dell'ultimo naufragio») di idealisti, di artisti o di illusi che tentano di contrapporre la forza disarmata della parola alla ferocia dei trafficanti e degli assassini. Autrice di versi accesi e visionari, d'intensa passione, che fanno pensare, a tratti, a Neruda. Nel testo di séguito riportato (che doveva far parte del libro Primera tormenta, troncato dalla morte) vi è quasi un oscuro presagio del proprio destino, oltre al forte, ostinato e disperato attaccamento all'identità femminile. (M. V.)

SANGRE NUESTRA

Sangre mía,
de alba,
de luna partida,
del silencio.
de roca muerta,
de mujer en cama,
saltando al vacío,
Abierta a la locura.
Sangre clara y definida,
fértil y semilla.
Sangre incomprensible gira,
Sangre liberación de sí misma,
Sangre río de mis cantos,
Mar de mis abismos.
Sangre instante donde nazco adolorida,
Nutrida de mi última presencia.
 

SANGUE NOSTRO

Sangue mio,
d'alba,
di luna lacerata,
del silenzio,
di pietra morta,
di donna in una stanza,
che si getta nel vuoto.
Aperto alla follia,
Sangue chiaro e scolpito,
fertile e seme.
Sangue indecifrabile fluisce,
Sangue liberazione di se stesso,
Sangue amaro dei miei canti,
Mare dei miei abissi.
Sangue istante da cui nasco addolorata,
Nutrita della mia estrema presenza.





martedì 12 novembre 2013

Una poesia di Giselda Pontesilli



Come fa chiaro in noi, così noi siamo
portati in un sol giorno a grande altezza
e un borgo antico, una campagna mesta
soccorriamo, al cui risveglio e al nostro

è grande festa; come in pianura
come in lieta brezza di primavera
andiamo in un sol giorno oltre le Alpi
a trovare un amico che ci aspetta.

Oh! dolce vivere, dolce parlare
ed essere concordi con quel sempre
che è a noi passato, futuro, presente.

Come una sola anima la terra
allora è nuova e ovunque di sé trova
immagine diversa, risplendente.

venerdì 2 agosto 2013

Natura e innocenza nei temi dei bambini imolesi


 
In tanti (da Vico ai Romantici a Pascoli...) hanno sottolineato, in modi diversi, la peculiarità dello sguardo inimitabile ed irrecuperabile che l'infanzia è in grado di gettare sulla realtà: sguardo innocente, ingenuo, disarmato, ma proprio per questo, a volte, più limpido, autentico, immune dai condizionamenti della società e della cultura.
Tale è appunto l'ottica che rispecchiano i temi e i disegni dei bambini delle scuole elementari imolesi pubblicati, fra il 1950 e il 1957, sul giornalino La Voce dei Piccoli, e raccolti ora da Sergio Sangiorgi, direttore didattico, nel libro Il Risveglio de «La Voce dei Piccoli» (Grafiche Veronesi, pp. 296, euro 23: per l'acquisto, è possibile rivolgersi direttamente all'editore, tel. 051466106, info@graficheveronesi.com).
Scorrendo queste pagine, limpide ed eleganti anche nella grafica (stampate originariamente con la linotype, attraverso un'opera di paziente artigianato, e ora riprodotte anastaticamente, ossia in modo fotografico e assolutamente fedele, in questo volume), non si può non essere còlti, senza retorica, da un senso di sincera nostalgia (pur se, paradossalmente, per una realtà mai vissuta, appartenuta ad altri uomini e ad altro tempo).
Nostalgia per un mondo in cui l'esperienza della realtà e della natura non era ancora (a maggior ragione per i bambini) mediata, schermata e mistificata dall'immagine, prima televisiva, poi elettronica, che avrebbe imperato via via nei decenni successivi, fino a produrre quell'effetto di artificio, di straniamento e di alienazione, del resto inevitabili, che è difficile non ravvisare oggi.
La Natura e la Storia (la prima con la sua viva immobilità, il suo paziente e solerte ripetersi di cicli di germinazione, fioritura, fasi del lavoro dei campi; la seconda con i suoi mutamenti e i suoi traumi che si avvertono e risuonano quasi da lontano, come sullo sfondo, ma nondimeno non sfuggono ai piccoli sguardi che si aprono al mondo e alla coscienza) si intrecciano e si avvicendano in queste pagine.
Le opere e i giorni della natura e dell'uomo assumono a volte l'aria di un mito rurale che le parole dei bambini ritraggono e rispecchiano con la fissità arcaica e nitida dell'immaginario popolare. Affiora, ad esempio (immagine che sarebbe piaciuta a Pasolini), il ricordo degli antichi cimiteri, delle antiche ossa che rispuntavano dalle trincee scavate dai soldati tedeschi (morte su altra morte, tempo su altro tempo); o l'immagine mitica della pieve di campagna che si presumeva esistesse da sempre, e alle cui campane si chiedeva di spaventare il cielo, per stornare i temporali e la grandine.
La morte, si è detto. I bambini la rappresentano con un assoluto, incantato e stranito nitore, e, insieme, con un'accettazione quasi, inconsapevolmente, eroica della sua inevitabilità e della sua naturalezza, anche qualora a provocarla sia stata proprio la crudeltà della storia.
La bambina che non può piangere il nonno, sepolto in terra lontana, depone fiori sulla tomba di altri soldati, sperando che altri facciano lo stesso, altrove, sulla tomba del nonno, come per una sorta di anonima solidarietà, di dolente e muto scambio, di medianica sintonia, nel dolore silenzioso. La bambina che ha perso il padre nella Campagna di Russia venera un cavallino a dondolo, suo ultimo dono, come una reliquia o un lare protettore, e sembra tacitamente accettare quella morte assurda e iniqua, emblema della crudeltà della storia, come uno dei tanti eventi, dei tanti anelli di un ordine naturale.
Ma, ovviamente, in queste pagine c'è anche e soprattutto tanta vita, colori canti voci immagini profumi, in un mondo in cui animali e piante erano ancora compartecipi delle fatiche, delle attese e delle emozioni degli umani.
Scorrono, in sottofondo, ma pur sempre parte integrante, gli eventi istituzionali e le prassi pedagogiche: la vita incerta e contrastata della scuola post-elementare, che anticipò la scuola media unica introdotta nel 1963; le pratiche di “scuola all'aperto”, che, istituite ai primi del Novecento per ragioni sanitarie, in un contesto come quello imolese del secondo dopoguerra assumevano ovviamente un particolare valore di contatto con la realtà rurale (anche se non mancano, in queste pagine, echi della crescente industrializzazione del territorio, e del persistere di una fervida tradizione artigianale).
L'idea stessa di un giornalino redatto dagli alunni, e stampato come un vero giornale, era senza alcuna utopia libertaria o attivistica, né alcun forzato antitradizionalismo largamente anticipatrice (qualcosa di simile apparirà, ancora con molte difficoltà e molte resistenze istituzionali, nel documentario Diario di un maestro di Vittorio De Seta, del 1972, peraltro in un contesto totalmente diverso, e ben più denso di contrasti, quello delle borgate romane).
È stato detto che il bambino sarebbe, in realtà, un «perverso polimorfo», che cela dietro l'apparente innocenza, l'esteriore disarmata ingenuità, chissà quali convulse e indecifrabili pulsioni.
Nulla di tutto questo nelle pagine qui raccolte. Esse mostrano, senza mezzi termini, la candida e fragile, ma a suo modo forte, innocenza dell'infanzia, di menti ancora in formazione (che anzi, forse, iniziano appena a formarsi) che si affacciano sul mondo in una luce aurorale, fanno proprie le dinamiche del mutamento, le leggi tacite che soggiacciono al divenire della materia, della vita e della morte, e accettano con una sorta di tragica e stupefatta serenità ciò che non si può cambiare, poiché ha in sé la verità assoluta del già accaduto.
C'è da credere che quella perversione e quel polimorfismo siano sempre appartenuti, più che all'infanzia, allo sguardo degli adulti che la osservavano, la rappresentavano, o pretendevano di modellarla o di indirizzarla secondo i propri schemi e le proprie proiezioni; adulti che, forse, invidiavano e odiavano, e perciò negavano, nei bambini, quell'innocenza disarmata e potente, fragile ed assoluta, che sentivano di aver perso; e che, forse, quel che è peggio, essi si siano in qualche modo trasmessi all'infanzia attraverso i condizionamenti di una società adulta che pretendeva appunto di negarle il suo sacro diritto all'innocenza. 
Quell'innocenza che risplende, luminosa e pura, in queste semplici pagine, con le loro (per citare ciò che dell'espressività infantile scrive Andrea Zanzotto, egli stesso per lunghi anni insegnante e preside) «invincibili, fini, crude verità».


M. V.

mercoledì 17 luglio 2013

Anacleto Margotti, un pittore bucolico e metafisico

Raccolta dei covoni


 C'è ancora un po' di tempo, qualche giorno (fino al 21 luglio), per visitare, al Centro Gianni Isola, la bella mostra che la Fondazione Cassa di Risparmio ha dedicato ad Anacleto Margotti (http://www.fondazionecrimola.it/attivita-culturali/archivio-news/anno-2013/giugno-2013/mostraanacleto-margotti-collezioni.html), mostra organizzata secondo un lineare percorso cronologico e tematico ed accompagnata dall'agile e documentato catalogo curato da Matteo Bacci.

Un'occasione, forse, anche per rivedere il cliché del Margotti realista, campagnolo, erede dei macchiaioli o della pittura verista, bucolico e georgico, chiuso alle suggestioni del moderno.

Fu Carlo Carrà, che pure contribuirà ad alimentare lo stereotipo nella presentazione della mostra roveretana del '48, ad associare, in un articolo apparso sull'«Ambrosiano» nel '29, Margotti al Novecentismo, per il modo in cui sapeva trattare «il rilievo il chiaroscuro la solidità e la sintesi».

E, in effetti, forse anche per influsso di certe estetiche francesi, da Charles Blanc a Maurice Denis, diffuse fra Ottocento e Novecento, le quali vedevano nell'arte una sorta di homo additus naturae, di elemento umano che traeva dalla natura un'essenza estetica ed intellettuale per ritradurla, o sublimarla, o fosse pure distorcerla, nel linguaggio delle linee, degli spazi e dei colori, delle tinte e dei chiaroscuri, Margotti coglie e porta alla luce, in tutte le forme della natura, del paesaggio, del lavoro agreste (come osserverà, da pittore-poeta capace di dipingere anche la parola, Ardengo Soffici), «il mistero del loro prototipo».

Sulla scia di Cézanne, e prima ancora della pittura italiana del Rinascimento, estaticamente ammirata al Louvre durante il soggiorno parigino, Margotti immerge le figure e il movimento entro un sistema, implicito, di forme geometriche, di rigori prospettici, di parallelismi e rispondenze ed echi visivi che paiono già presenti, e come dimenticati, nella realtà, nella natura, nella physis, avvolti nel manto della materia, e in attesa di essere rivelati, anche attraverso impercettibili correzioni del dato visivo, dallo sguardo pittorico che si protrae e si trasfonde, per così dire, nel gesto e nel colore.

Così, i buoi e gli uomini sono avvolti dallo stesso fascio di linee che ne sottolinea lo sforzo, e che si prolunga, idealmente, immaterialmente, al di fuori dei limiti del quadro; le vanghe e i cappelli dei braccianti descrivono tre linee rivolte verso l'alto, verso un cielo invisibile; un solenne ed austero schema triadico, da pala d'altare, sembra discendere sugli uomini e le donne intenti ad ammassare i covoni di fieno.

L'uomo che attraversò due guerre, esasperato, come egli stesso scrisse, dalle «prevedibili contraddizioni», tragiche quanto paradossalmente banali, della storia, e che fissò in nervosi schizzi espressionistici i soprassalti, i traumi e gli stenti della Linea Gotica, forse trovava nella fervente immobilità nella natura, nell'animoso ripetersi dei cicli del lavoro agreste, quell'armonia e quella pace che il divenire della storia infrangeva.

E le donne lavoratrici di Margotti, che siano contadine o segretarie, hanno nei volti un'austerità, una solennità quasi monumentale di linee che fanno quasi pensare (senza averne la compostezza) all'arcaismo di un Manzù o di un Casorati (e rimandano, prima ancora, forse inconsciamente, all'archetipo della Grande Madre, matriarcale, possente, feconda, che dalle Veneri paleolitiche arriva, in certa misura, a quelle di Giorgione e di Tiziano); vi è, certo, qualcosa di bucolico e di georgico, di carducciano e di pascoliano (il «divino del pian silenzio verde», l'aratro abbandonato «in mezzo alla maggese», emblema della solitudine e dell'attesa vana, le bestie virgiliane «sospese in lontananza sulle rupi»...), ma anche queste atmosfere sembrano sempre rinviare, pur se senza risposta, ad una sfera superiore, o forse ad un'interiorità ulteriore e più profonda.

Vita d'arte, il libro autobiografico, descrive quasi sempre il gesto della creazione come preceduto e covato da un'attenta osservazione (protrattasi addirittura, nel caso del ritratto della madre, per decenni), ma realizzato e risolto come sotto la spinta di un fervore e di un entusiasmo repentini, quasi divini, che fissano e fermano per sempre l'istante nella mobile immobilità dell'eterno.

«Eternare ciò che vi è di così portentosamente poetico nella fugacità» era per lui il fine dell'arte. In un'epoca fugace come la nostra, anche e proprio quell'eternità trovata nella natura, nel lavoro, nell'epifania di un bagliore, di una penombra, di uno sguardo, può trovare esistenza ed ascolto rinnovati. «Si può ancora e sempre attingere alle fonti della provincia per alimentare energie innovatrici», scriveva l'artista accompagnando la donazione alla città delle sue opere.



M. V. 

sabato 13 luglio 2013

Giselda Pontesilli, "Madrigali"




 
Ho il piacere e il privilegio di pubblicare i Madrigali di Giselda Pontesilli. Testi che riconciliano con il passato e con il presente, con la totalità diacronica e onnipresente, onniavvolgente della vita; e, sul piano stilistico, di conseguenza, fondono la musicalità dei madrigali antichi con un respiro metrico insieme breve, rapido, conciso, eppure disteso, melodioso, armonico, specie se considerato a posteriori nella totalità rimeditata della rilettura che ricalca, o ricorda un poco, quello di certo Luzi («Nelle stanze la voce materna / senza origine, senza profondità s'alterna / col silenzio della terra, è bella / e tutto par nato da quella»), o di Betocchi («quel che scrisse il reciproco amore / del fare insieme, senza chieder conto / di nulla che a quell'opera maggiore / ch'era, non si sa come, amore insieme / operante, che gode del suo vivere, / e noi siam nulla, l'abolito seme... / E' l'opera comune che ha valore»). Qualcosa, insomma, di antico e nuovo insieme, nello stile come nei temi.
Il genere stesso del madrigale ritrova la sua vera origine, anzi due delle sue possibili, molteplici origini: materiale e matricale, parola legata alla materia, alla matrice, insomma alla sostanza vitale vera e sentita, e insieme alla madre, alla terra madre, unica e condivisa, origine e fine, sorgente e foce, patria-matria da cui partire e a cui tornare.
Ed è importante, poi, il paesaggio, il senso del paesaggio, che visualizza e quasi cristallizza, matericamente appunto, questo abbraccio e questo nodo del materiale e dell'umano, della natura e del tempo storico, fusi nell'immagine della scuola diroccata, luogo emblematico dell'infanzia, del prendersi-cura, e della scoperta del mondo.
La semplicità, la trasparenza, conquistate, dei versi si intuiscono essere il frutto di "lungo studio" e "grande amore", di un'opera di perfezionamento e pulizia condotta "per via di levare", come negli antichi scultori. Così come l'architettura si riappropria, attraverso l'arte, della natura, grazie alla razionale “naturalezza” degli “ordini” (viene da pensare, leggendo i versi della Pontesilli sugli ordini architettonici che assomigliano alla natura, e che forse proprio per questo sono oggi banditi dallo strapotere, in tutti i campi, della modernità e della Tecnica, alla pagina squisita ed elegiaca di Vitruvio sulla genesi del capitello corinzio, nato dalla natura e dalla morte, dallo spontaneo germinare di un acanto nel vaso deposto come offerta sulla tomba di una fanciulla: simbolo, quasi, della memoria che perdura, che germina e si propaga dal silenzio e dalla quiete di chi non è più, di ciò che non è più, ma che proprio in virtù della sua essenza si fa presente nel ricordo condiviso, come un filo esile che trapassa il muro della morte).
Attraverso l'arte riaffiora la vita, attraverso l'artificio la natura, come nei madrigali della tradizione, nei quali il verso è spesso attraversato dallo stesso brividio di vita, di germinazione, dallo stesso naturale sussurro e vibrio di energie latenti e di potenzialità proiettate verso il compimento, verso l'inveramento dell'incontro e del frutto: «Ecco mormorar l'onde / e tremolar le fronde /
e l'aura mattutina e gli arboscelli, /
e sopra i verdi rami i vaghi augelli /
cantar soavemente / e rider l'orïente». Ma prima ancora, alle origini stesse del madrigale italiano, c'è l'idea ricorsiva della morte e della rinascita, dello sgomento e del respiro, del tempo che, come nella tessitura e nel giro del verso, torna su se stesso e nel contempo si apre a nuove risonanze e a nuove illuminazioni: «tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo, / tutto tremar d’un amoroso gielo». (M. V.)



MADRIGALI



I
Ero così sicura! Solamente
c'era la sicurezza
di me, del presente
del mio posto centrale, il più reale.
Come una piazza ha il centro
e un faro il mare
come la terra ha il cielo e la bellezza
è assoluta, perfetta
come con noncuranza
ci si sente sicuri in una stanza
così ero io
e qualche amico mio.



II
E' ancora una cosa bella
per me quando sto in treno
vedere, poter vedere ancora
che ora, proprio ora
aveva, avrà un popolo l'Italia
parlò la lingua nostra,
di paese, con tanti accenti
con tanta sicurezza
e i toni erano tanti
tutti eleganti
c'erano sentimenti
in quelle sfumature differenti
come un abito di tanti colori
come i fiori dei campi
come gli allori
dei nostri bei poeti.

III
Ho pensato ai miei studi, questa notte
studi che non ho fatto
un disastro
a cui vorrei rimediare.
E pensavo che ero lì a rifare
il mio dottorato alla Sorbona
e non era com'era stato allora
che non stimavo, affatto, la scuola.

E già c'era il senso, tremendo
del perso
dell'accaduto:
non sapevo più il greco!
e cercavo di apprenderlo da sola.

Era come
è anche ora
ma ancora
io potevo io potrò
rimediare.


IV
Qui fuori al sole
col casale di fianco
io guardo, mentre parlo,
orto e giardino.
Non mi preoccupa niente
quando sto qui -presente-
nel campo del vicino.
Presente?
Sì, perché parlo con lui
veramente
non penso ad altro.

Ma assente, anche, assente
come sempre
perché, veramente,
non è questo! il mio campo
-e arriverà la grazia
di coltivarlo?

V
I cinque ordini
in architettura
sono leggi -armoniche
di Idea
di natura.
Servono a fare
scuole case ospedali
molto semplici,
arieggiati,
cordiali.
Per l'architetto sono
fondamenta, base
(com'è -per il musicista- la base
tonale);
ma oggi lui
non li può onorare,
non glielo fanno fare.

E' per questo
che le scuole,
le case gli ospedali
sembrano deprimenti
micidiali.



VI
Non so, io non contemplo
la natura
forse ho paura del ritmo sempre uguale
che fa il mare, la terra, le stagioni
forse la mia natura è contemplare
qualcosa! nella natura:
un casale, una tomba, la scuola
Felice Trossi”, diroccata,
che è qui vicino e che vorrei salvare.





VII
Ma come siete belli!
voi che fate
le piazze di Grottaferrata,
di Frascati,
di Marino.
Le fate? Sì!
con la vostra presenza:
ora che vi sostate
e passate
tornando a casa
a scuola al mercato.
Poi certo sarà
-super-estrema-super-segreta
-super-indicibile
la vostra sofferenza:
come sempre, come per tutti
oggi, in privato.
Ma intanto qui
coi camini e i balconi
del Seicento
vi riposate
per grazia
di uomini passati
che ve li hanno dati.


VIII
Come se fosse aprile,
o giugno, o maggio,
-e invece è inverno
inverno dello scrivere nemico”-
io mi incammino, oggi,
io penso,
e approvo un sentimento
chiaro, intenso:
è primavera, anche se c'è vento
è primavera! questo brutto tempo

l'assolutissima bellezza della natura
è sicura.