Raccolta dei covoni |
C'è ancora un po'
di tempo, qualche giorno (fino al 21 luglio), per visitare, al Centro
Gianni Isola, la bella mostra che la Fondazione Cassa di Risparmio ha
dedicato ad Anacleto Margotti
(http://www.fondazionecrimola.it/attivita-culturali/archivio-news/anno-2013/giugno-2013/mostraanacleto-margotti-collezioni.html),
mostra organizzata secondo un lineare percorso cronologico e tematico
ed accompagnata dall'agile e documentato catalogo curato da Matteo
Bacci.
Un'occasione,
forse, anche per rivedere il cliché del Margotti realista,
campagnolo, erede dei macchiaioli o della pittura verista, bucolico e
georgico, chiuso alle suggestioni del moderno.
Fu Carlo Carrà,
che pure contribuirà ad alimentare lo stereotipo nella presentazione
della mostra roveretana del '48, ad associare, in un articolo apparso
sull'«Ambrosiano»
nel '29, Margotti al Novecentismo, per il modo in cui sapeva trattare
«il rilievo il
chiaroscuro la solidità e la sintesi».
E, in effetti,
forse anche per influsso di certe estetiche francesi, da Charles
Blanc a Maurice Denis, diffuse fra Ottocento e Novecento, le quali
vedevano nell'arte una sorta di homo additus naturae, di
elemento umano che traeva dalla natura un'essenza estetica ed
intellettuale per ritradurla, o sublimarla, o fosse pure distorcerla,
nel linguaggio delle linee, degli spazi e dei colori, delle tinte e
dei chiaroscuri, Margotti coglie e porta alla luce, in tutte le forme
della natura, del paesaggio, del lavoro agreste (come osserverà, da
pittore-poeta capace di dipingere anche la parola, Ardengo Soffici),
«il mistero del loro
prototipo».
Sulla scia di
Cézanne, e prima ancora della pittura italiana del Rinascimento,
estaticamente ammirata al Louvre durante il soggiorno parigino,
Margotti immerge le figure e il movimento entro un sistema,
implicito, di forme geometriche, di rigori prospettici, di
parallelismi e rispondenze ed echi visivi che paiono già presenti, e
come dimenticati, nella realtà, nella natura, nella physis,
avvolti nel manto della materia, e in attesa di essere rivelati,
anche attraverso impercettibili correzioni del dato visivo, dallo
sguardo pittorico che si protrae e si trasfonde, per così dire, nel
gesto e nel colore.
Così, i buoi e gli
uomini sono avvolti dallo stesso fascio di linee che ne sottolinea lo
sforzo, e che si prolunga, idealmente, immaterialmente, al di fuori
dei limiti del quadro; le vanghe e i cappelli dei braccianti
descrivono tre linee rivolte verso l'alto, verso un cielo invisibile;
un solenne ed austero schema triadico, da pala d'altare, sembra
discendere sugli uomini e le donne intenti ad ammassare i covoni di
fieno.
L'uomo che
attraversò due guerre, esasperato, come egli stesso scrisse, dalle
«prevedibili
contraddizioni», tragiche
quanto paradossalmente banali, della storia, e che fissò in nervosi
schizzi espressionistici i soprassalti, i traumi e gli stenti della
Linea Gotica, forse trovava nella fervente immobilità nella natura,
nell'animoso ripetersi dei cicli del lavoro agreste, quell'armonia e
quella pace che il divenire della storia infrangeva.
E le donne
lavoratrici di Margotti, che siano contadine o segretarie, hanno nei
volti un'austerità, una solennità quasi monumentale di linee che
fanno quasi pensare (senza averne la compostezza) all'arcaismo di un
Manzù o di un Casorati (e rimandano, prima ancora, forse
inconsciamente, all'archetipo della Grande Madre, matriarcale,
possente, feconda, che dalle Veneri paleolitiche arriva, in certa
misura, a quelle di Giorgione e di Tiziano); vi è, certo, qualcosa
di bucolico e di georgico, di carducciano e di pascoliano (il «divino
del pian silenzio verde»,
l'aratro abbandonato «in
mezzo alla maggese»,
emblema della solitudine e dell'attesa vana, le bestie virgiliane
«sospese in lontananza
sulle rupi»...), ma anche
queste atmosfere sembrano sempre rinviare, pur se senza risposta, ad
una sfera superiore, o forse ad un'interiorità ulteriore e più
profonda.
Vita d'arte,
il libro autobiografico, descrive quasi sempre il gesto della
creazione come preceduto e covato da un'attenta osservazione
(protrattasi addirittura, nel caso del ritratto della madre, per
decenni), ma realizzato e risolto come sotto la spinta di un fervore
e di un entusiasmo repentini, quasi divini, che fissano e fermano per
sempre l'istante nella mobile immobilità dell'eterno.
«Eternare
ciò che vi è di così portentosamente poetico nella fugacità»
era per lui il fine dell'arte. In un'epoca fugace come la nostra,
anche e proprio quell'eternità trovata nella natura, nel lavoro,
nell'epifania di un bagliore, di una penombra, di uno sguardo, può
trovare esistenza ed ascolto rinnovati. «Si
può ancora e sempre attingere alle fonti della provincia per
alimentare energie innovatrici»,
scriveva l'artista accompagnando la donazione alla città delle sue
opere.
M. V.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.