domenica 5 febbraio 2012

Jean Soldini, "Frontiera e vita in comune"




La riflessione intorno al concetto di territorio, di identità (identità una e insieme molteplice, nel continuo, impercettibile ma assiduo, mutare della storia, nell'assiduo e silenzioso screziarsi e creolizzarsi dell'umano), e dunque di frontiera, limite, margine, che circoscrivono, avvolgono, definiscono e insieme suggeriscono la possibilità del superamento (che sono fatti, forse, proprio per essere un giorno oltrepassati), è centrale, fin dall'inizio, per il discorso culturale che si intende condurre in questo spazio.
Terminus, il Confine che gli antichi personificavano, e addirittura divinizzavano e veneravano, è insieme linea e spazio, concreto e astratto: riunisce in sé, per così dire, l'assoluta astrazione geometrica e geopolitica, cartografica, e lo “spazio vissuto” degli scambi, dei passaggi, degli incontri, delle contaminazioni, delle “traduzioni” libere o forzate, coinvolgenti, letteralmente, le parole e le idee come i soldati e i prigionieri, aggiogati gli uni e gli altri, ugualmente, alla forza feroce (per parafrasare l'Adelchi) che possiede il mondo e prende il nome (Nomen-Nomos) di Legge: spazio, dunque, a volte, la frontiera, anche come teatro di guerra, come luogo di contesa, di disputa, di scontro, siano essi storici, religiosi, militari o anche semplicemente intellettuali (de-finire, affermare e delimitare un concetto, un'idea, una visione del mondo, ha a che vedere anche con i fines, con il finis: confine, territorio, e insieme frontiera, limite, orizzonte che si chiude – finis ultima, infine, ovvero morte). La frontiera è passaggio, ma anche negazione, come l'esistenza. Omnis determinatio est negatio.
Nell'elaborazione manoscritta dell'Infinito di Leopardi, “celeste confine” diviene poi “ultimo orizzonte”. Se il confine è celeste – se il limite anela al cielo –, dall'altro lato l'orizzonte, l'apertura irraggiungibile ed incolmable, è ultimo, attributivamente e predicativamente – il confine ultimo, oltre il quale non c'è nulla, o c'è, precisamente, il Nulla – e l'ultima frontiera, l'ultimo lato o l'estrema piega del confine – come il margine curvilineo, impercorribile, quasi-immaginario, dell'universo einsteiniano, finito ma illimitato, e sul cui limite estremo, se potessimo osservarlo, vedremmo la nostra nuca.
Dove un tempo passava la cortina di ferro, fra Gorizia e Nova Goriza, ora c'è una piazza in cui non si sa dove finisca l'Italia e dove inizi la Slovenia, dove finisca l'Occidente e dove inizi l'Oriente. Luogo emblematicamente postmoderno. Sta a noi far sì che quello spazio, quella frontiera, quella linea (non solo immaginaria, e anzi segnata un tempo dal sangue) slabbratasi e dilatatasi fino a divenire agorà, non sia la terra di nessuno di un arbitrio senza regole, ma un effettivo luogo di incontro, di scambio, di vivificante, memorabile e memore, transito.
Incontro, dice Soldini in queste pagine, anche e soprattutto di solitudini che in parte restano tali; sovrapposizione o parallelismo o intersezione di rette incorporee, forse puramente pensate; dialogo di silenzi, dialogo che è, invero, un tacere-insieme, come fra antichi amici.
Si tratta di far sì che l'individualità non divenga individualismo; che non si smarrisca e non si dissolva, indistintamente, in un'alterità anonima ed incolore, ma che, al contrario, nell'incontro con l'altro-da-sé conservi, e anzi arricchisca, il Sé, fino a farne un'entità sovraindividuale, intersoggettiva, eppure sostanziale e consistente. “Solo gli isolati parlano”, scriveva Montale, il personnaliste convainçu che proprio in Svizzera trovò, come tanti altri, un'isola di libertà d'espressione.
Pagine, queste, vorrei dire, che rispecchiano appunto un tipico risvolto dell'esprit helvétique: la Svizzera come piccola Europa all'interno dell'Europa, come sorta di forma a priori, pur nella sua neutralità, o forse proprio in virtù di essa, dell'identità europea; specchio o riflesso, riduzione solo in senso spaziale, quasi per una sorta di mise en abyme, dell'Europa come mosaico o concerto di voci e di identità; identità, quella elvetica, particolare e molteplice, che riflette, proprio nelle sue interne divisioni, nelle sue pluralità dialettiche e silenziose, nella raggiera ripartita delle valli, dei cantoni, delle realtà linguistiche e religiose particolari, l'essenza di uno spirito unico e polifonico, idealmente pacifico eppure strenuamente difeso, nitido e insieme policromo.

(M. V.)



Nell’atto unico intitolato Stranieri, opera del drammaturgo Antonio Tarantino, un uomo anziano è barricato in casa ossessionato dalla minaccia degli stranieri. Progressivamente esce tutto lo squallore della sua relazione con la moglie e col figlio morti che, venuti dall’aldilà per portarlo via, bussano con ostinazione alla sua porta (1). Il testo si conclude coi pesci lasciati morire nell’acquario in quattro dita di melma e col rimprovero del figlio al padre: «E questo significa che per molto tempo tu li hai fatti vivere nei loro stessi rifiuti» (2). Il finale è quanto mai felice perché non aggiunge un “e come se non bastasse hai pure fatto morire quei poveri pesci”. L’apologo si chiude aprendo lo sguardo sull’insieme dell’esistente e sulla sua fragilità, sul suo esistere e resistere. Ora, la riflessione filosofica privilegia in genere l’uomo, quando tutto l’esistente andrebbe considerato. Anzi, tutti i corpi perché solo il corpo turba e può essere tenuto a distanza fino a essere fisicamente soppresso. Nella sua apparente venialità il tenere a distanza può finire per coincidere col cannibalismo mentale, innestandosi con ferocia sull’annullamento ordinario dell’alterità, sull’inevitabile, generica cancellazione dell’altro, di ogni altro e non solo dell’uomo. La coscienza è fatalmente taglio nell’essere-insieme della moltitudine, nella trama dell’essere-con, della circolazione e della relazione tra enti in un pullulare e moltiplicarsi di enti-con-enti. Avvolge col suo fascio di luce ciò che in esso entra ed esce. È così immediata privatizzazione stabilizzante. Produce un possesso dell’altro nella privatizzazione che dà vita al mio palcoscenico, benché l’impressione sia quella di una coscienza-finestra che si muove nell’aperto su cui è schiusa. L’altro a cui faccio riferimento è l’Altro-con-Altro tolto di mezzo come Altro dalla privatizzazione che accompagna il prodursi come senso, che va insieme alla fenomenizzazione dell’apparire per cui, con Fernando Pessoa-Bernardo Soares, si potrebbe dire: «Il mondo esterno esiste come un attore sul palco: è lì, ma è un’altra cosa» (3). La coscienza nel suo illuminare privatizzante mette in atto una sorta di diritto di visita, termine che riprendo dal lessico kantiano di Per la pace perpetua (4). Parlo qui di un ontologico diritto e stato di visita, di un’ospitalità generica e inconsapevole che stempera l’Altro come straniero e ospite assoluto, ma può ugualmente dar luogo a un esercizio d’ospitalità (5).
L’esercizio d’ospitalità – che non è ancora esercizio dell’ospitalità – è prima di tutto realismo da cui emerge il tipo d’interdipendenza esistente tra sé e sé, tra sé e l’altro uomo, tra sé e tutto ciò che esiste. L’esercizio d’ospitalità è riconoscimento di sé con l’altro, dell’interdipendenza tra ospiti-stranieri evitando di andare subito al senso come valore, di cadere troppo presto nel dispositivo privatizzazione-valore. Non che tutto si equivalga; ogni cosa viene giustamente caricata di un valore. Il problema è la supremazia assoluta di questa operazione e la fretta con cui ha luogo. L’esercizio d’ospitalità è realismo del pensiero che parte per combattere, per resistere, per remare controcorrente e, quindi, anche contro l’illusione che basti combattere, resistere, remare controcorrente in nome di un nobile ideale. Opporsi significa coltivare la resistenza in sé esprimendoci con Thomas Hirschhorn a proposito dell’arte e del suo Crystal of Resistance presentato alla Biennale di Venezia nel 2011 (6): «L’arte […] non è resistenza contro qualcosa, bensì resistenza in sé». La resistenza in sé e non la resistenza contro. Per questo non basta guardare alla storia e cercare di modificarla. Non basta, benché non sia certo inutile e ogni sforzo in vista di un pur impercettibile miglioramento abbia la sua rilevanza (prima di tutto sul piano di una chiara formulazione dei problemi di fondo dell’attuale, epocale crisi economica, finanziaria e politica). Resta il fatto che l’unico senso ravvisabile nella storia è il potere. La storia è quella dominante che in parte piega e in parte annulla un’infinità di storie di ogni genere entro un flusso prevalente. Alcune di queste storie si sono raggruppate in modo egemone come non è accaduto ad altre, dando luogo a variazioni di potere più positive o negative. Nondimeno senza deviazioni dalla storia, e non esclusivamente della storia, rimane sempre e solo il potere. Occorrono pertanto micronavigazioni, microdiversità, microsorgenti di disorganicità anarchica rispetto alla storia e alla sua imprescindibile violenza per rientrare a tratti nell’essere-insieme della moltitudine, nel pullulare e moltiplicarsi di enti-con-enti-con-enti.
L’esercizio d’ospitalità è messa a fuoco dell’interdipendenza esistente tra sé e sé, nonché tra sé e tutto ciò che esiste. Siamo stranieri e ospiti in senso radicale. L’altro rispetto a noi – così come ognuno di noi rispetto a sé – è ospite, cioè ospitato e ospitante, nonché straniero. Straniero in senso radicale è l’altro assoluto, il barbaro escluso come nell’antica Atene dalle prerogative concesse allo straniero in senso relativo vii. È quanto si ricava dall’Apologia di Socrate (8). Socrate afferma che se fosse uno straniero, se parlasse un’altra lingua sarebbe compatito. Ma nel suo caso, a settant’anni, si trova per la prima volta in un tribunale, non è pratico del linguaggio di quel luogo; chiede che si faccia attenzione non al suo modo di parlare, ma a ciò che dice. Si trova, insomma, in uno stato d’inferiorità rispetto allo straniero di diritto. L’ospite radicale – ospitato e ospitante – è inafferrabile, è straniero come nella Trilogia di Agota Kristof, in ciò che la scrittrice chiama menzogna; attraversa in modo esplicito tutto il romanzo Le troisième mensonge. Particolarmente alla fine quando a Klaus T. viene annunciato che il suo presunto fratello gemello Claus T. (Lucas), che a quindici anni aveva varcato la frontiera per un lungo esilio, si è ucciso gettandosi sotto un treno nel momento in cui avrebbe dovuto essere rimpatriato nel suo Paese. L’uomo dell’ambasciata gli consegna una busta sulla quale sta scritto: «All’attenzione di Klaus T.». All’interno la richiesta, firmata Lucas, di «essere seppellito accanto ai nostri genitori». Ma quello era veramente suo fratello? Klaus T., pur rispondendo negativamente, aggiunge: «ci credeva così tanto che non posso rifiutarglielo». Due giorni prima, alla domanda se avesse ritrovato qualcuno della famiglia, Claus T. aveva risposto di no. Eppure, aveva già incontrato Klaus T. Quest’ultimo dà l’autorizzazione a seppellirlo accanto al padre, «l’unico morto della mia famiglia», precisa. «Accanto alla tomba di mio padre, si scava una nuova tomba. Vi si cala la bara di mio fratello, vi si pianta la croce che porta il mio nome con un’ortografia diversa. Torno al cimitero ogni giorno. Guardo la croce su cui è inscritto il nome di Claus, e penso che dovrei farla sostituire con un’altra che porti il nome di Lucas» (9).
Questa è resistenza in sé e non contro. La resistenza in sé è resistenza con altro e la resistenza con altro è frontiera. Non confine tra cosa e cosa, ma facoltà di darsi il cambio. Non di confondersi, di perdersi nell’indistinto, ma possibilità di uno scambio reale e transitorio: “io sono chi ti ospita mentre tu mi ospiti”. Qui può manifestarsi quel tacevamo di cui parla Charles Péguy: «Felici due amici che si vogliono abbastanza bene per (saper) tacere insieme. In un paese che sa tacere. Tacevamo. Salivamo. Da tanto, tacevamo» (10). “Tacevamo” al plurale, perché nel silenzio solitario può non avvenire alcunché. Può essere la conferma di tutto quanto vogliamo sia confermato. Il silenzio come vuoto sa riempirsi in fretta delle nostre allucinazioni, delle immagini derivanti dal nostro copione, delle immagini più sensibili o ideali, poco importa, dove ci preoccupiamo soprattutto di organizzare il gioco e controllarlo secondo una sceneggiatura già data. Il silenzio solitario rientra in un agire concorrenziale, contro ogni piacere in comune, contro la forza positiva, affermativa che oltrepassa il singolo individuo, il singolo attore e che non ha niente a che vedere con l’edonismo mercantile diventato espediente indispensabile alla sopportazione di una vita comune, quella che si dà oggi nella forma della subdola brutalità del tardocapitalismo inconciliabile con ogni aspirazione a una vita in comune, a un piacere in comune come approssimazione alla saggezza di cui parla Pessoa-Soares, sempre in Il libro dell’inquietudine: «Un uomo, se possiede la vera sapienza,

 sa godere dell’intero spettacolo del mondo da una sedia,

 senza saper leggere, senza parlare con nessuno,

 solo con l’uso dei sensi e con l’anima

 incapace di essere triste» (11). “Tacevamo” al plurale (Péguy) allargato alla moltitudine degli enti, con un’attivazione senza riserve dei sensi rispetto alla seduzione, al tirarci in disparte (seducĕre) di ciò che è. Condurci via dalla tristezza verso una sapienza, un sapore che sia incitamento dell’intendimento.
Vita e piacere in comune che significano anche rientrare in quel grande atelier della natura a cui pensa Jean Arp. Rientrarvi per essere anonimi «come le nuvole, le montagne, i mari, gli animali» xii, non insistendo quindi solo sull’aspetto personale dell’uomo, ma anche sulla sua dimensione a-personale, sulla libertà a-personale oltreché sulla libertà personale che è quanto chiamiamo abitualmente libero arbitrio. La libertà a-personale è l’uomo, è acqua senza vaso. Acqua che ha bisogno di un vaso, ma che deve sempre poter rompere i vasi che diventano prigioni. Penso qui a una forzatura dell’idea di assenza di impedimenti al moto di cui parla Hobbes il quale – nell’ambito di un diritto di natura (ius naturale) distinto da una legge di natura (lex naturalis) – intende per libertà l’assenza di costrizioni legate al corpo: «così l’acqua chiusa in un vaso non è libera, perché il vaso le impedisce di spandersi; e rotto il vaso, è libera» (13). Libertà a-personale e non solo libero arbitrio che appartiene al volere. Nietzsche aveva colto qualcosa di centrale per il tramite dell’immagine del fanciullo che dice di sì alla vita, libero dalla volontà di un io già costituito e volente: «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo» (14). Si tratta di libertà in quanto forza, potenza che genera libertà per una nuova creazione. Una «ruota ruotante da sola», che si alimenta da sola e che è possibile pensare di sviluppare dalla parte del rincorrersi-con-altro di un io che si sfugge di mano (che sfugge al suo stesso dire “io”) e di un io-protagonista-persona disponibile a farsi decostruire, a lasciarsi lacerare dall’interno della libertà di movimento per riconquistarsi, riunificarsi senza sosta e provvisoriamente nella responsabilità-con-altri, nella facoltà-accadimento di un esercizio di risposta-con-altri. Io-protagonista, io-persona disponibile a essere trascinato in prossimità della dimensione pubblica dell’essere-insieme della moltitudine, a essere condotto in prossimità della nostra frontiera, della facoltà di scambiare la nostra individualità personale con la nostra dimensione umanamente anonima.

1) Antonio Tarantino, Stranieri è pubblicato in La casa di Ramallah e altre conversazioni, Ubulibri, Milano 2006, pp. 11-61. Nel 2008 il regista e drammaturgo Marco Martinelli (Teatro delle Albe) ha messo in scena questo testo con l’interpretazione di Luigi Dadina, Ermanna Montanari e Alessandro Renda. Lo spettacolo teatrale è stato poi elaborato filmicamente nel 2010 da Aqua-Micans Group.
2) Stranieri, cit., p. 61.
3)Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine [Livro do Desassosego], a cura di Piero Ceccucci, traduzione di P. Ceccucci e Orietta Abbati, Newton Compton, Roma 2006, p. 258.
4) Cfr. Immanuel Kant, Per la pace perpetua [Zum ewigen Frieden], testo tedesco a fronte, introduzione, note e apparati di Massimo Roncoroni, traduzione di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1997, terzo articolo definitivo per la pace perpetua, p. 91.
5) Diritto di visita, esercizio d’ospitalità, privatizzazione-valore, aspirazione a una vita in comune insistendo sul rapporto tra dimensione personale e dimensione umanamente anonima sono temi sviluppati in un saggio filosofico di prossima pubblicazione: A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune, prefazione di René Schérer, Edizioni Mimesis, Milano 2012.
6) Cfr. il flyer in http://www.crystalofresistance.com/.
7) Cfr. Émile Benveniste, L’ospitalità, in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, a cura di Mariantonia Liborio, Einaudi, Torino 1981, vol. I, pp. 64-75 (2a edizione; 1a edizione: 1976. Tit. orig.: Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Les Éditions de Minuit, Paris 1969, 2 tomes).
8) Cfr. Platone, Apologia di Socrate, in Dialoghi filosofici, a cura di Giuseppe Cambiano, UTET, Torino 1970, vol. II, I, 17 c-d, p. 52.
9) Agota Kristof, Le troisième mensonge, Seuil, Paris 1991, pp. 185-187.
10) Ch. Péguy, Victor-Marie, comte Hugo, in Œuvres en prose complètes, edizione presentata, stabilita e annotata da Robert Burac, Gallimard, Paris 1992, vol. III, pp. 164-165.
11) F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 128.
12) Jean Arp, Art concret, in catalogo Konkrete Kunst, Kunsthalle, Basel, 1944.
13) Thomas Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino [Elementa philosophica de cive], a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1979, ix, 9, p. 163.
14) Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra [Also sprach Zarathustra], versione di Mazzino Montinari, in Opere, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, t. I, 69-77, p. 25.

lunedì 23 gennaio 2012

Giselda Pontesilli, “Tre poesie”


Ho il piacere di presentare questi tre testi di Giselda Pontesilli, queste tre nitide e lungamente elaborate e meditate tracce dell'attuale stagione della sua vena: una Musa, la sua, che si muove verso una sempre maggiore limpidezza, verso una cantabilità, una melodiosità sabiane o caproniane (ma vicine anche ai modi espressivi della “scuola romana” di Beppe Salvia e di Claudio Damiani), ma che pure ha, dell'acqua tersa e trascorrente, anche e proprio la profondità, la trasparenza di un fondo essenziale, di una substantia, in senso etimologico, che lo sguardo intellettuale può scorgere, senza toccarlo sensibilmente, attraverso l'armonia traslucida e fluente della parola.
Parola come venire-alla-luce (fari, parlare, come phos e fatum, come luce e destino) dell'Essere che è e non può non essere, ma che non resta chiuso in quella che Luzi chiamava «la sfera angosciosa di Parmenide», bensì si declina, cola e fluisce nel succedersi degli accadimenti, delle percezioni, delle occasioni; parola come spazio, dunque, in cui l'istante si fa eterno, e la contemplazione della natura e dell'arte, e il contatto con il mondo molteplice e amato dell'umano si presentificano, nella loro assolutezza, attraverso la concretezza dell'accadere.
La perennis humanitas del Petrarca latino, ripresa poi dai vociani, rivive nell'utopia (ma utopia non astratta, non dottrinaria, bensì intensamente vissuta in una sorta di militanza esistenziale, non ideologica) di un «nuovo umanesimo italiano»: non l'humanisme esistenzialista, intriso di nichilismo, di vuoto, d'angoscia, segnato dall'abbandono, dalla gettatezza, dalla deiezione, né il neo-umanesimo filologico, venato dal rischio della retorica, animato dall'impulso ad un'oggettività normativa; ma proprio una nuova humanitas, che riscopra l'anima dei luoghi, il messaggio profondo dei testi, delle voci, dei testimoni, e sappia vedere negli uomini, nei volti, negli incontri i riverberi molteplici e autentici di un'unica, lontana ormai, ma inestinguibile, luce.
Le «edere», dapprima còlte nel testo poetico, attraverso la parola che le nomina, poi viste e vissute nella realtà fenomenica, ma sempre attraverso la loro sostanza verbale, la loro emblematicità quasi mitica, sono «arcane»: arché, archàios, ma anche arca: il principio, ciò che è originario, ma anche antico, e remoto, e insieme ciò che è nascosto, celato, custodito nello scrigno del tesoro o per sempre inghiottito da un sepolcro che può essere, però, apportatore di vita, soglia di risurrezione. Natura e Storia, qui, si fondono: la physis, nella sua vitalità mobile, diveniente, avvolgente (l'edera), è depositaria dell'arché, del principio e dell'essere, che tornano alla luce, e riprendono forma, grazie alla parola, e nella parola.
E la verità ‒ si potrebbe dire parafrasando Nietzsche ‒ si trasfonde, variopinta, nella levità gioiosa di un pensiero danzante, nel giro iridato ed esatto delle sillabe; consistente, tangibile, vissuta, ma non greve: temporale ed eterna insieme.

(M. V.)




I

Quando io penso, giorno dopo giorno,
che non può andare avanti
un attimo di più
questo sconforto –sordo, epocale
e so però che non c’è alcun conforto

grande
costante
forte

che lo possa fermare,

io penso
che un aiuto, un soccorso
dovrà presto arrivare,

perché –è tutto pronto

tutto pronto
per iniziare

perché basterà poco
solo un soffio
di vento primaverile
autunnale

un soffio di pietà per farci stare
di nuovo insieme –a pensare,
di nuovo, fino in fondo
ma a rincuorarci -prima- a darci
un soffio di vigore,
e quindi, con ardore,
un pensiero profondo.

Oh il mio desiderio
inarrestabile, immenso
degli amici, con cui poter pensare.
Oh il conforto
di vederli amici
gli amici miei!
uniti! di vedere che vogliono
sopra ogni cosa “questo”
che sanno
che senza questo non faranno niente
di ciò che a tutti preme veramente
e che è vivo,
che serve
urgentemente
e che è bello,
che è bene.

Solo un aiuto solo
una grazia lo potrà realizzare.
Ma è tutto pronto
tutto pronto, in fondo, per poter ripensare.

Questo sconforto sordo
non è dovuto a niente!
di sostanziale.



II

Vengo ad Arquà per la seconda volta:
la prima
non avevo voglia
neppure di camminare.
Oggi invece, vado ferma! decisa! a casa
di Petrarca.

E vedo
che posso camminare
solo qui veramente
anche se non c’è gente
con cui poter parlare
è vitale questo borgo che sale

E’ isolato, lo so, è immoto
ma andare da Petrarca è uno scopo
che lo fa vivo, profondo

Quest’olmo che ora tocco, con le foglie
fresche, bagnate
e questi giuggioli sparsi
di edere arcane, abbandonate:
sono reali, reali finalmente!
qui da Petrarca
ci sono loro! con cui poter parlare.

Ed è un dialogo il nostro,
molto assorto, risorto: con la realtà
così! si può parlare.

La casa è circondata dal giardino
pulito e al suo custode è gradito!
il mio arrivo.

Solo io, oggi, ho avuto l’invito?



III

Nuda maturità spoglia di vana-
gloria di vocazione di bellezza:
chi chiamai non risponde; né qualcuno
m’ha chiamato o mi chiama. Neanch’io
parlo più con me stesso. In silenzio
guardo la mia miseria. Non so più
cucirmi addosso un abito decente.

(-Sauro Albisani-)


Ma io ti chiamo, Sauro: facciamo
il nuovo umanesimo italiano?

martedì 10 gennaio 2012

UN INTERVENTO DI GIUSEPPE FEOLA SU POESIA E CONOSCENZA

Molte delle voci più significative della giovane poesia italiana scaturiscono - fatto che mi sembra degno di nota - da ambienti accademici legati all'àmbito logico-matematico: penso a Lorenzo Carlucci, ad Alessandra Palmigiano. Anche la poesia ha una sua logica (la "logica poeziei" teorizzata nell'Ottocento da Alexandru Macedonski), che non si identifica certo con la logica ordinaria, né con le logiche formali, né con alcuno dei modelli di logica elaborati a livello scientifico ‒ ma che non si risolve, o dissolve, neppure nel pulviscolìo indistinto, nell'atomismo informe dell'espressione caotica, casuale, non motivata. La poesia è anche una forma di conoscenza, e come tale presuppone e sottende modelli gnoseologici, modalità di percezione e rappresentazione del mondo, del pensiero, dell'Erlebnis. Di ciò è testimonianza anche questo intervento di Giuseppe Feola, del quale ho proposto precedentemente alcuni testi poetici di prossima pubblicazione in volume. (M. V.)


Mi è stato chiesto se vi fosse coerenza tra le mie teorie esposte in "Linguaggio, poesia, conoscenza" e la mia pratica poetica, e se le mie teorie potrebbero aiutare "a porre fine a tanti
vaniloqui, siano essi minimalistici o neo-sperimentali".

Va detto, innanzitutto, che il saggio è stato scritto in un momento in cui avevo cessato di scrivere poesie da circa dieci anni, e in cui una ripresa dell'attività poetica sembrava lontanissima. Il saggio è stato costruito seguendo una prassi combinatoria, da 'catena di montaggio'. Ho preso come punto di partenza la teoria che mi sembrava più promettente (nel caso specifico, quella di Frege sulla significazione linguistica), e ho cercato di costruire una estensione della teoria preesistente che rendesse ragione dello specifico dell'espressione poetica. Ovviamente, è un test fondamentale per qualunque teoria il vedere se poi riesca effettivamente a dar ragione dei fenomeni che intende spiegare. E il fenomeno che la mia teoria intendeva spiegare era quel non so che mi incanta nelle mie letture preferite dal punto di vista estetico.

Nello scrivere, cerco di riprodurre, a modo mio, quel medesimo non so che. Quindi un legame tra la mia teoria e la mia prassi teorica sicuramente c'è. Non però nel senso che la seconda provi a tradurre in pratica la prima. Bensì nel senso che sia l'una che l'altra traggono ispirazione da ciò che mi piace e che vorrei trovare ogni volta che leggo poesia.

Quando dico che la mia prassi poetica non prova a tradurre in pratica la teoria, intendo dire che, quando scrivo, non c'è alcunché che mi guidi, oltre alla mia immaginazione e al mio
senso del suono, del ritmo, dell'appropriatezza linguistica. Non ho mai provato a esaminare se le mie poesie siano coerenti con le mie teorie.

Quanto alla polemica contro il minimalismo e il neo-sperimentalismo, io effettivamente ho gusti
fortemente classici (come si evince anche dagli esempi che ho scelto nel saggio). Credo inoltre che la febbre di voler sempre e per forza fare qualcosa di nuovo, o (in un'altra versione) di adeguarsi ai tempi, abbia rovinato la poesia del Novecento, spingendo tutti verso la credenza che basti stupire, "épater le bourgeois", per fare poesia.

Il senso di robustezza, flessibilità, tensione verso il perenne, e forse persino di impersonalità , che mi danno l'esametro lucreziano o la prosa di Eraclito (per menzionare due autori che presi a esempio nel saggio), è per me un vero e proprio conforto alla vita. Ciò vale anche per autori lirici, il cui scopo apparente è parlare di sé. Due esempi per tutti: Saffo e Leopardi. Per me la prassi poetica è, anzitutto, disciplina mentale, anche solo a mio esclusivo beneficio.

lunedì 9 gennaio 2012

Antonio Castronuovo, "A che ora si alza lo scrittore"

Articolo apparentemente leggero e svagato, ma su cui riflettere. Al genio che creava - e ancor oggi, rarissimamente, crea - "per intervalla insaniae", "noctes vigilans serenas", come dice Lucrezio, strappando al giorno, alla notte, ai ritmi ossessivi ed alienanti della vita reale gli spazi e gli istanti della conoscenza, dell'illuminazione e dell'espressione, la modernità e l'"industria culturale" hanno sostituito (almeno a partire da Balzac, ma forse già con Defoe o con Swift o con Walter Scott) la figura di un produttore di letteratura paragonabile - almeno nei casi migliori - ad un operaio di alta specializzazione o ad un impiegato aspirante alla condizione borghese. Una monotonia, una routine produttiva a cui si oppone il pensiero, fra notturno, aurorale ed albale, opaco eppure folgorante, di Valéry, chino sui "Cahiers" nel cuore della notte, quando il mondo è avvolto nell'incoscienza greve del sonno. (M V.)


Emozionato, se non turbato, il turista letterario s’appressa alle case degli scrittori: c’è fila a Recanati davanti al palazzo di Monaldo, c’è meno fila a Lecco al botteghino di villa Manzoni. Solo qualche raro curioso fa pausa sotto le abitazioni di Moravia o Vittorini, e ciò dovrebbe già far pensare. Pochissimi coloro che, uscendo dalla stazione di Torino, sanno che l’albergo davanti a cui si passa fu abitato da Pavese, che in una camera vi attuò l’estremo gesto. Se poi meditiamo sulle celebrità di una settimana (i campielli che imbroccano un solo libro) il turista letterario neppure ne ricorda il nome.

Leopardi – che pure è il più glorioso – lo aveva annotato due secoli fa nel brogliaccio zibaldone: «Molti libri oggi durano meno del tempo che è bisognato a raccoglierne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli». E la certezza di non giungere alla fama è già un segno della grama vita che mena lo scrittore, che alla popolarità mira, o per vanità o per ossessione. Sa che non avrà fama, e tuttavia si dispone a conquistarla, dandosi regole di vita.

Essendo necessaria alla scrittura una punta di acuta asprezza, diremmo che lo scrittore è uno che si fa beffe delle regole, anzi: è uno che sfida la biologia come una volta facevano i poeti maledetti, che non scrivevano senz’oppio e senza notti bianche. Nient’affatto: guardando alle regole di vita oggi assunte dagli scrittori rileviamo una tenace apoteosi dell’abitudine, proprio là dove ci attenderemmo un pizzico di passione e d’incoerenza. E lo veniamo a sapere col fiorire d’interviste a prosatori (i poeti fanno razza a parte), invitati a rispondere alla seguente domanda: In quali momenti della giornata lei scrive e come organizza il suo tempo?

Interviste davvero spassose, dato che se ne ricava una sola impressione: che tutti seguono le stesse identiche regole. Eccole: mi alzo alle 7, faccio la pipì, prendo un caffellatte, poi mi metto a scrivere per tutta la mattina, quattro o cinque ore di lavoro; dopo mangio qualcosa e il pomeriggio lo dedico alla lettura e allo jogging; la sera è tutta per la comunicazione (mail e cena fuori con amici), oppure vado a letto presto.

Bella vita, non c’è che dire.

La sola regola variabile è l’ora in cui gli scrittori si alzano, su cui appunto si gioca la loro differenza. Certo, alzarsi alle 7 è la situazione più comune; ed è anche gesto simbolico, dato che le 7 sono il momento canonico del lavoratore, che un’ora dopo deve timbrare in fabbrica il cartellino (proprio come i presidenti lavoratori, anche loro in piedi alle 7, se non prima). Alzarsi a quell’ora addita la regolarità di un lavoro che si ambisce a compiere – come si suol dire – a regola d’arte. Il bravo scrittore si alza alle 7, e chi si alza alle 7 produce in genere romanzi e saggi misurati, di nitido stile.

Ma non sempre l’ora è quella. Ci sono infatti scrittori che si alzano alle 6. Non è cosa facile; in genere vi si avvezza chi ha origini contadine. Non lo dico per sfottere: io ho quelle origini (mio nonno aveva l’asino) e me ne vanto. È un’ora che torna buona per il romanzo realista, possibilmente a risvolto sociale; ora ottima per narrare le albe del duro lavoro e delle dure rivendicazioni. Alzandosi alle 6, poi, è certo che si andrà a nanna massimo alle 23: realismo vuole che non si contesti l’orologio biologico e sette ore di sonno costituiscono, per il riposo, il minimo sindacale.

C’è anche chi si alza alle 5. Il nobel García Márquez, ad esempio, salta dal letto a quell’ora. Lo ha dichiarato in un’intervista, aggiungendo che legge fino alle 8, poi un’ora di tennis «perché altrimenti passerei la giornata seduto», poi comincia a scrivere fino alle 14,30 e dopo c’è la numerosa famiglia da accudire. Ma García Márquez è pacioso, si vede che è uno che si corica presto e dunque non fa testo. Di norma, alzarsi alle 5 testimonia di un certo spirito sedizioso. All’alba il cervello è anfetaminico e scattante, come ben sapeva Valéry che si alzava in piena notte per riempire i suoi cahiers di una massa di pensieri che traboccano di lucidità, e poi semmai tornava a coricarsi e se la dormiva alla grande.

Confesso che capita anche a me, e mai volontariamente: se la sera vado a letto troppo presto, mi ritrovo prima dell’alba con gli occhi sbarrati nell’oscurità. Devo alzarmi, vago per casa, mangio un biscotto e – invece di riempire quaderni di genialità – finisco per leggere rovinandomi la vista, e dopo mezz’ora crollo: un sonno greve m’attanaglia fino al fatale istante della sveglia che trilla. Ma torniamo a noi: dicevo che alzarsi alle 5 testimonia di uno spirito sedizioso. Vero: lo scrittore delle 5 produce opere taglienti, condite di una dose di politically uncorrect; è uno che attacca e colpisce. A quell’ora sovvengono ai giallisti le scene omicide; i finali, invece, pare sovvengano a stomaco pieno, quando l’ispirazione è grassa.

Non è finita: c’è chi si alza alle 8 e si tratta di un’alzata bastarda, né zuppa né pan bagnato: è l’ora buona per combinare qualcosa, ma è anche un po’ tardino per avere la calma necessaria. E chi si alza alle 9 o alle 10? E chi poi non si alza nemmeno alle 10? Beh, questi neppure si alzano, tanto la mattina è persa. Sono tutti coloro che, certo, possono fare gli scrittori, ma solo in maniera anticonformista, tornando ad assaggiare la notte come i maledetti dell’oppio.

Ma se questa è l’ora, che ne è del luogo? Lo studiolo in cui lo scrittore opera è quanto di più insulso e ordinario si possa dare: c’è il piano di lavoro (ingombro di libri e carte), c’è la seggiola (dotata, se non è poltroncina, di cuscino per glutei), c’è lo strumento di scrittura (il computer, che tutti dicono di detestare, ma è lì), c’è la lampada a paralume (i postmoderni hanno quella col braccio snodato), ci sono gli scaffali in sottofondo (quelli a portata di mano reggono dizionari e garzantine: di wikipedia non ci si può fidare). Coglie un senso d’umana pietà a guardare le foto degli scrittori con l’immancabile libreria alle spalle; ma diventa pena se si scorge, ben ripiegata, la coperta a quadroni per coprire le gambe d’inverno o, peggio ancora, il poggiapiedi per le caviglie gonfie.

Quali che siano le abitudini e i luoghi d’azione, la pratica della scrittura deforma il corpo. Riduce miopi e, da quando c’è il videoterminale, accelera la cataratta; produce una gobba sagomata e riduce la lordosi lombare, con l’inevitabile ernia discale; impigrisce l’intestino (e si fa necessario lo yogurth ai fermenti): ai più nervosi fa ingoiare ansiosamente l’aria – e possiamo sospettarne gli spiacevoli effetti.

La prevedibile esistenza dello scrittore e la dozzinale ovvietà del suo posto di lavoro sono avvilenti; dovrebbero essere condizioni umilianti, e invece egli sembra orgoglioso di avere alle spalle le enciclopedie comperate in edicola. È proprio vero che ci si piega a tutto.
Riconosco tuttavia che scrivere è doveroso. Come enunciò un saggio orientale (appartengo alla generazione che affidò al buddhismo le proprie emozioni; non peggio dei creduloni odierni) per conseguire il Nirvana bisogna nella vita fare un figlio, scrivere un libro e piantare un albero. Alzi la mano chi non ha fatto un figlio. Ora alzi la mano chi non ha scritto un libro. E ora alzi la mano chi non ha piantato un albero.

Troppi, siete in troppi a non aver piantato un albero. Vi manca proprio qualcosa. E allora mettete da parte la penna, mettete a riposo i genitali riproduttori e comperatevi una vanga. Per piantare un albero non ci vogliono tante regole, basta solo la forza delle braccia. E poi vangare è gradevole, e fa scordare la meschinità di chi scrive soltanto. E semmai rinuncia stoltamente a interrare un alberello.

Antonio Castronuovo

mercoledì 23 novembre 2011

Silvia Secco, "In morte di Andrea Zanzotto"

Presento questi versi in idioma veneto, scritti da Silvia Secco in occasione della morte di Andrea Zanzotto. La poesia dialettale tende spesso, forse per sua stessa natura, a scadere nel bozzetto mimetico o, viceversa, deformante e caricaturale, ma in ogni caso angusto. Nei suoi esiti più alti (Loi, Baldassari, Bandini, Zanzotto stesso) essa attinge invece, grazie alla musicalità, all'essenzialità, all'ingenuità sapiente ed arcaica, proprie del vernacolo, un lirismo luminoso e assoluto. Bandini e Zanzotto, appunto, ma anche Marin e Pasolini: i poeti veneto-friulani, se è possibile ricorrere a questa generalizzazione, hanno il vantaggio di potersi servire di un dialetto che è in realtà, con le sue sonorità aperte e distese, con i suoi indugi meditativi, con la sua malinconica grazia ariosa e cantata, un vero e proprio idioma romanzo, che ha, rispetto all'italiano con cui istintivamente lo si raffronta a livello di ricezione psicolinguistica, quasi la consistenza ombrosa e remota di un'eco e di un'origine, riverberate e specchiate.

Nel testo ora presentato, riaffiorano motivi eterni, antichi come moderni (il mondo come libro e come pagina che infine, come nell'Apocalisse,si ravvolgono su se stessi e si dissolvono, forse per schiudere caelum novum et terram novam; il luminoso silenzio della luna che sovrasta la veglia e la creazione), che trovano nel dialetto un ricetto e un'espressione naturali e insieme elaborati.

(Matteo Veronesi)

In morte di A.Z.


Stralocia là ‘na luna pena nata

penapena fata (o pena stria?) e a ti

la t’ha portà via: i fii, tajai nel farse

dea so false quarta, filà dal vento

dala pria del tempo – lima/rima… Mah!


Gnanca sa te fussi ‘ndà co ‘na busia,

n’altra poesia/grafia, ‘na virgola,

na ciglia… Zolà via come ‘na foglia,

un strame astrale fin là insima! Pecà


gnanca t’hai spetà la neve… Saria sta

lieve el passo, el viajo ciaro. Un fojo

novo tuto gualivo tuto par ti. Ah!

Falive de fojo podae sul mondo a far

del mondo un fojo/a mondarlo/ a sorarlo…


E ti là sora a segnarlo, sgrafiando

(corsivo) le norme in orme in nome…

Ah… Come saria sta belo! Ancora un fià

qua zo, un filò (de seta): la A. La Zeta.


Spetaspeta? Gnanca t’avessi tuto

pensà! Come ‘na metrica, un verso

e te fussi corso via a stralunarte

alto là in quela cuna a dindolarte

na scianta prima del sfarse del cielo!


Par vedarlo mejo. E metarlo in rima.





Traduzione)

In morte di A.Z.


Strabica là una luna appena nata

appenappena fatta (o appena strega?) e a te

lei t’ha portato via: i fili tagliati nel farsi

della sua falce quarta, affilata dal vento

dalla pietra del tempo – lima/rima… Mah!



Nemmeno te ne fossi andato con una bugia,

un’altra poesia/grafia, una virgola,

un ciglio… Volato via come una foglia,

un pulviscolo astrale fino a là sopra! Peccato


nemmeno tu abbia aspettato la neve… Sarebbe stato

lieve il passo, il viaggio chiaro. Un foglio

nuovo tutto disteso tutto per te. Ah!

Faville di foglio posate sul mondo a fare

del mondo un foglio/a mondarlo/a calmarlo…



E tu là sopra a segnarlo, graffiando

(corsivo) le norme in orme in nome…

Ah… Come sarebbe stato bello! Ancora un poco

quaggiù, un filò (di seta): la A. La Zeta.



Aspettaspetta? Nemmeno tu avessi tutto

pensato! Come una metrica, un verso

e fossi corso via a stralunarti

alto là in quella culla a dondolarti

appena un attimo prima del disfarsi del cielo!



Per vederlo meglio. E metterlo in rima.

lunedì 21 novembre 2011

Giselda Pontesilli, "Con me e con gli amici"

Ho il piacere di presentare questo poème critique, questa sorta di prosìmetron intriso di afflato lirico e memoriale e coscienza critica, culturale e programmatica, opera di Giselda Pontesilli: un testo che parafrasa, nel titolo, Jahier, scrittore fra i più cari all'autrice, e animato da una volontà di condivisione, di compartecipazione umane, oltre e prima che intellettuali, affini proprio a quelle dei cosiddetti moralisti vociani, cui Jahier è stato accostato: e si potrebbe citare, qui, il brevissimo scambio epistolare che con Jahier intrattenne, proprio nell'immediata vigilia della morte al fronte, Renato Serra, che da Jahier veniva vanamente esortato ad attenuare il remoto, un poco trasognato ed algido, culto della pura Bellezza, per confrontarsi, sulle orme di Claudel, con l'evidenza e l'abbraccio esperienziali dell'umanità e della verità – della verità inverata, incarnata nell'umano, in una parola sentitamente umana, calda di vita e di testimonianza. Questa stessa unanime, condivisa passione, che pervadeva il clima della rivista “Braci”, in ciò simile alla “Voce”, è richiamata e rievocata dall'autrice, che ne auspica – con quell'utopia che è il lievito della realtà - una rinascita nell'attuale, grigio e mistificato e falsato, panorama. Le sottili anomalie linguistiche, i tenui e delicati straniamenti semantici e sintattici (“quella casetta in basso, / quell’ in alto casale, / vogliamo, vi prego, convolare? / Ci vogliamo, vi prego, rivivire?”) che infine increspano ed impennano il testo poetico (per il resto intonato ad una cantabile discorsività, ad una naturalezza e ad una levità che hanno la tersa limpidezza dell'alba e del miracolo) rispondono proprio a questo anelito, a questa volontà quasi dantesca di palingenesi. E, come in Ruskin, la bellezza dell'arte del passato è speranza per una futura riscoperta della bellezza, della dignità e della sacralità del comune lavoro. Ed è significativo, infine, che il testo si chiuda con una citazione (assai cara anche a Beppe Salvia, poeta di Braci) da Sleep and poetry di Keats: un passaggio sommesso, sussurrante, in cui peraltro si auspica, senza clamori, e anzi ai limiti stessi del silenzio, del non-detto, che la voce sapiente, la voce-sapienza, e sapienza della, e nella, voce, insite nella poesia-natura e nella natura-poesia (la sapienza mediata e riflessa del linguaggio umano riconciliata con quella inconscia, ma eterna, racchiusa nelle armonie e nei ritmi della natura), tornino a regnare, a regolare, a scandire i tempi e i modi e le civili, umane misure dell'umana convivenza.

(Matteo Veronesi)


GISELDA PONTESILLI


Con me e con gli amici”


Con Mauro e suo padre, l’architetto,

ho visto

-vedo-

il Duomo di Orvieto.


Ci andammo in gita in tre, lui e il padre

chissà come invitarono me

tutto un giorno.


Partimmo presto, da piazza del Popolo

per tornarvi al tramonto.


Ma poi anche Mauro con me

vide

mio padre, in alto, sul tetto

d’una casetta, che faceva lui stesso

in un lotto di terra – mille metri –

a Valle Martella.


L’architetto Biuzzi con il figlio

stava col Duomo davanti quel giorno

- ricordo il loro sfavillare -

e dopo pranzo andammo

su una vasta collina col casale

che lui

voleva acquistare.


Ma certo anche Mauro con me

stette un giorno in quel lotto, nell’orto

con mio padre davanti sul tetto,

al lavoro, perfetto.


-E avevamo

un altro amico,

Giorgio.


Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’ in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



***



Con me e con gli amici” di G. P. ci parla, come già dice il nome,

di lei e dei suoi amici;

ma solo perché è un appello,

l’appello più urgente, e concreto, a questi concretissimi amici;

- appello diretto:

vi prego” di “con-volare”, “rivivire”,

cioè pensare-insieme-agire-uniti.

Ma chi sono, gli amici? e perché (e per dove)

volare, cioè pensare-agire?

Sì, proprio a loro, eminentemente a loro

compete questo sperato effettuale agire, perché sono stati unanimi

un giorno” nel vedere “tutto”,

unanimi non nichilisti.

Un suo scritto di allora, dice:

Siamo amici; grazie a un riconoscimento reciproco avvenuto, che, per la sua forza difficilmente verrà revocato”.

Ecco, si erano riconosciuti:

ciascuno - in un suo proprio modo,

vivificatore, non nichilista.

Quel riconoscimento non è revocato:

oggi: dopo “questi anni di sempre più accentuato isolamento e sempre meno probabile comunione di intenti”;

separati e scomunicati, come tutti,

ma sempre doverosamente non nichilisti;

perché hanno pensato e agito, seppur soli,

come si può da soli;

come si può:

cioè, allegoricamente.

Infatti:

Mauro Biuzzi –Artista:

non hai subìto l’ insignificanza impazzita, l’epifenomeno -senz’arte, né pensiero, né parte –postmodernista; così, hai agito, hai fondato allegoricamente il “partito dell’amore”, dicendo:


Con il nostro antipartito, ci opponiamo al partito dell’alienazione e della simulazione: questo superpartito unico è il vero fantasma che si aggira per l’Italia e per l’Europa e lo si riconosce perché compone il suo linguaggio fantasma con frammenti impazziti di linguaggi ideologici”;

vogliamo “sostituire il linguaggio alienato dei partiti e delle ideologie lasciando emergere la lingua amorosa delle attuali società civili”.


Infatti:

Giorgio Pagano –Artista:

hai còlto subito il crollo dell’ideologia, la crisi del sapere, la fine del marxismo,

e che vi si reagiva

non con migliorato comprendere, non con rinnovata azione creativa e razionale”,

bensì con la rinuncia, l’ “istituzionalizzazione della soggettività”, l’eclettismo, il citazionismo, la superficialità:

così, nel tuo inosservato, isolato saggio Arte e critica dalla crisi del concettualismo alla fondazione della cultura europea, hai disaminato Transavanguardia, Anacronismo, Nuovi-nuovi, e hai concluso con una “dichiarazione”,


un “manifesto” scritto con Gino Scartaghiande, Beppe Salvia, G. P., e letto da Gino a Roma,

l’8 Settembre del 1984 al Festival Internazionale dei Poeti;


una dichiarazione, un “allegorico” agire insieme:


() A noi sembra che l’attuale saccheggio di geometrie storicistiche ed eclettiche filologie sia viziato a tal punto da consentire una fittizia rinascita artistica nello stesso momento in cui la spiritualità che essa dovrebbe testimoniare tocca il suo fondo.

A volte ci si rivolge al passato sperando che esso, nel suo intoccabile splendore, ci accolga e difenda. Ma è più spesso la disillusione delle forme vuote a rimanerci in mano.

E’ dunque necessario per noi prenderci cura della fragile natura del presente, e fondare in esso una tradizione futura, dentro e oltre il riflesso del passato.

E del presente la necessità prima ci sembra essere l’unificazione europea.

Europa come regione dello spirito, come il ritrovato luogo di un lavoro vero, che riguarda tutti.

L’unità “internazionale” del mondo, attraverso l’imperialismo di alcuni popoli sugli altri, è fittizia, è disillusione.

La via da praticare è invece quella dell’unione reale, là dove spirito e corpo coincidono: l’unione europea assume, in tutti i suoi aspetti, la ricerca di un’unione reale.

Si tratta di sostituire un luogo e un lavoro vero alla pratica dell’illusione.

La nascita della cultura europea trova nella definizione di una lingua comune il suo primo fondamentale passo.

()”.


Giorgio, tu come Mauro, pensavi alla lingua:

la lingua amorosa della società civile” –dice Mauro:

una lingua comune della cultura europea” –tu dici.


E i poeti di “Braci”? Anche loro pensavano alla lingua,

ma non si iscrissero al partito dell’amore, Mauro,

né, Giorgio, alla tua associazione esperantista:

- restarono soli poeti, a tutti i costi poeti, così, dopo “Braci”,

fecero un Convegno a Roma sulla poesia: “La parola ritrovata”

(dove Gino parlò de “La gloria della lingua”, Claudio di “Lingua e linguaggio”);

poi, un anno e mezzo dopo, riuscirono a ripubblicare l’Arte poetica di Orazio, con i loro interventi

-e, l’intervento di Gino, era “Orazio (Dialogo)”, quello di Claudio “Arte e natura”, quello di Giuliano Donati, “Crotto Urago. Una nota di poetica”, quello di G.P. “Il custode

incorruttibile”.


E così poi anche loro del resto

furono separati, isolati, privati.


Ma è forse avvenuto qualcos’altro – anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare?


Il 24 Aprile 2007 compare “NUOVE BRACI –giornale di educazione”:

sotto il titolo, la data, poi, c’è scritto: “Editoriale, di Claudio Damiani”, poi

c’è l’immagine azzurrina di Braci 1, poi questo testo:


Se l’attuale dittatura economico-mediatica o dittatura della pubblicità, può, nei confronti

di chi ha qualche attrezzatura culturale, essere tutto sommato limitatamente dannosa, dobbiamo riconoscere che nei confronti degli individui più fragili dal punto di vista culturale, che sono la grande maggioranza, essa ha degli effetti devastanti. Questa è la vera catastrofe, l’emergenza ecologica prima del nostro mondo. Che poi, la limitatezza del danno recato a quei pochi che possono spegnere la televisione, è in effetti molto relativa: perché, se anche questi sono danneggiati solo nel fatto che sono emarginati, e non perseguitati, o sterminati, tuttavia la loro esclusione ha un ritorno devastante sulla società, che diventa come un corpo senza cervello. Se studiassimo la nostra società, vedremmo che il tratto comune a ogni sua singola parte, l’essenza della sua struttura, è la negazione dell’educazione. L’educazione è mostrare un’opera (di pensiero, di arte, di sentimento ecc.), qualcosa che esiste, permettere a un educando di entrare in uno spazio di rigore, di arte, di realtà, di verità, permettergli di godere di quello spazio. ()

Oggi si tende a dire che i cantautori sono i veri poeti, che i giornalisti sono i veri scrittori, che i pubblicitari sono i veri artisti. E’ la dittatura economico-mediatica che spinge a questo, utilizzando anche la devastata e devastante cultura ideologica precedente, che già aveva fatto deserto con storicismo, strutturalismo, fango e ceneri ideologiche sulla brace, sul fuoco vivo dell’opera. La dittatura pubblicitaria utilizza, assolda la vecchia cultura ideologica desertificante (). Ci sono altri, e stanno nella mia generazione, in quelli nati negli anni ’50 e ’60, e oltre, che non sono d’accordo, ma sono stati messi da parte. Si potrebbe dire: è inevitabile, non c’è niente da fare, la dittatura economico-ideologica è troppo potente, stiamocene appartati, coltiviamo i nostri studi nell’ombra ecc. Ma invece, se ragioniamo un attimo, c’è una forma di resistenza semplicissima, che potrebbe cominciare a minare l’intero sistema. Basterebbe cominciare a separare l’opera, la virtù, l’ordine, il bene, dal caos, dalla spazzatura, dall’ideologia, dalla violenza. Basterebbe cominciare, come diceva Confucio, a “raddrizzare i nomi”. Riportare i nomi, le parole, alla loro realtà. ()

(http://nuovebraci.blogspot.com/2007/04/editoriale-di-claudio-damiani.html)



Il 29 luglio 2011 compare -anche,

La competenza dei poeti” di G. P.


Niente di nuovo, in fondo, se non un anello in più, una connessione “logica” “stringente”:

  1. la lingua, usata per le informazioni, le “comunicazioni di massa”, è fondamentale per la società;

  2. ma queste informazioni non informano affatto, anzi umiliano, confondono, perché, sempre più spesso, contrarie al senso della lingua e, sempre, “basate” su una visione sorda, accettata passivamente, inaccettabile, della realtà;

  3. i poeti, in quanto competenti, professionisti della lingua, sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato;

  4. dunque, loro, sono indispensabili alla società e possono agire insieme per studiare, e realizzare un modo, un metodo di informazione televisiva.


Come Petrarca, sollevando –solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.

Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell’informazione di massa, alla “società di massa” infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?”

(http://nuovaprovincia.blogspot.com/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html)


I poeti possono agire, sì, agire, e, anche,

lavorare,

come lavorano i professionisti, gli imprenditori, i lavoratori,

le associazioni di categoria, le parti sociali, gli operai, i consigli comunali, i pensionati, i disoccupati, i giovani, le donne, i magistrati:


-come loro, anche loro possono portare al Governo, all’attenzione del Paese, al Parlamento, alla Scuola, alla Chiesa, all’Europa, al Capo dello Stato,

una piattaforma di base, un piano di intesa, un calendario di lavoro, un pacchetto di misure eccezionali, le loro esigenze reali


-per evitare la bancarotta, la catastrofe umana e culturale.



Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



"O may these joys be ripe before I die".


domenica 20 novembre 2011

Una nota di Giorgio Linguaglossa sul "Cordone d'argento"

Ho il piacere di pubblicare una nota di Giorgio Linguaglossa, uno dei più significativi critici militanti del panorama attuale, il quale rilegge, a distanza di qualche anno, il mio Cordone d'argento. Il richiamo ai crepuscolari mi fa tornare con la mente agli anni dell'adolescenza, quando proprio la lettura di quei poeti, contaminata con quella di Montale e di Zanzotto (come se io avessi voluto, inconsciamente, rileggere e rivivere a ritroso tutto il Novecento italiano, per me simultaneo e compresente, dagli esiti più maturi fino alle radici), mi offriva gli occhi e le lenti, opache e meditabonde, attraverso cui vedere la mia provincia, quella in cui mi trovavo a vivere – e anche, più minutamente, quella provincia dell'essere e dell'esistente che sono non tanto le “piccole cose”, quanto i minimi dettagli, le minime pieghe ontologiche, i più sottili anfratti percettivi, di ogni realtà, grande o piccola, degli oggetti più minuti come delle più vaste e ardite immaginazioni cosmiche – specie oggi che tutto il mondo è divenuto, o può o potrebbe divenire, insieme centro e provincia, fulcro e margine, identità e alterità, tanto che i massimi poeti d'oggi - un Walcott o un Soyinka, o anche l'europeo Heaney - possono fare di usanze, miti e scenari lontanissimi dal vissuto e dall'immaginario dominanti dell'Occidente il tramite e l'oggetto di immedesimazioni mitopoietiche e di meditazioni sapienziali che travalicano ogni confine.

E, forse, se vogliamo un poco giocare con le formule, il minimalismo della poesia, e spesso della mentalità, di oggi può essere superato proprio fondendo neo-crepuscolarismo e neo-simbolismo, oggettualità ed evocazione, ekphrasis ed allusione; recuperando, in fondo, quella stessa matrice simbolista (Maeterlinck, Rodenbach, Samain: poeti proprio per questo da rileggere) che era alla base del crepuscolarismo.

Poesia neo-crepuscolare, infine, non nel senso in cui Borgese parlava del crepuscolo a cui non sarebbe seguita la notte; ma, al contrario, precisamente nel senso di un crepuscolo come anticamera e annunzio della notte: notte santa e dannata, notte luminosissima e oscura; notte del Divino e dell'Essere, come del Silenzio e del Nulla.

(Matteo Veronesi)


Matteo Veronesi,
Il cordone d’argento

Oggi, dopo l’interminabile foce epigonica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dopo la stagnazione economica e stilistica (e politica) di questi anni Zero, è sempre più chiaro, a chi voglia vedere le cose senza gli occhiali ideologici del minimalismo, che l’epoca dello pseudo-simbolismo delle scritture epigoniche non ha nulla da dire (di comunicabile) alla comunità nazionale, nulla di significativo ai cittadini.

Posta l’impossibilità, certo, oggi, di costruire uno stile simbolistico (ovvero, post-simbolistico), per via della caduta a picco del fondale simbolico, per quella problematicità di porre il simbolico come «simbolico», e per via di quella confusione di porre l’equivalenza: l’immaginario=mito e mito=simbolico, quello che rimane possibile è, per la nuova generazione, un linguaggio poetico che non poggi su alcuna stilizzazione e su alcuno zoccolo stilistico. Lo so, è paradossale e fortemente antinomico, ma così è.

Quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad uno stile mitologicamente sostenuto non ha lasciato traccia significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia.

Adesso, è chiaro che i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata, al meglio, antichizzata e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano, Govoni, Moretti, Vallini) che hanno scoperto la prosa, la natura metaforica del discorso poetico inteso come ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi. Essi chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso laico, borghese e piccolo borghese.

Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda metà del secolo scorso, e precisamente nei decenni che hanno visto l’esaurimento dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno spazio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio incontaminato, direi biologico (con tanto di autobiologia che fa rima con apologia dell’io). Ne derivò qualcosa di assai scomodo: il discorso poetico del secondo Novecento non concede sufficiente spazio a chi voglia accomodarsi, non c’è un atrio per i ricevimenti né un salotto per l’accoglienza, c’è solo un corridoio lastricato di sperimentalismo e di oggettistiche urbane; non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi. Con la conseguenza che il linguaggio poetico del tardo Novecento è rimasto privo di pavimentazione lessicale e stilistica, il che non può che riprodurre le medesime aporie e i medesimi nodi che erano già venuti al pettine negli anni del crepuscolarismo.

«L’uomo non è più padrone a casa sua. Deve vivere ora in una chiesa, ora in un sacro boschetto di druidi, l’occhio padrone dell’uomo non ha dove riposarsi né dove trovare pace. Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire ma chiede per se stessa un significato assoluto (come se bollire non fosse un significato assoluto). Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi. Ma come fare con la adesione della parola al suo significato: forse che si tratta di una dipendenza fortificata? Ma la parola non è una cosa. Il suo significato non è affatto una traduzione di se stessa. Infatti, non è mai accaduto che qualcuno abbia battezzato un oggetto e l’abbia chiamato con un nome inventato. La cosa più conveniente, e nel senso scientifico più esatta, è guardare alla parola come ad una immagine...»: sono parole di Mandel’stam contenute nel saggio Sulla natura della parola, pubblicato nel 3° n. di «Poiesis», nel 1993, da Donata De Bartolomeo.

Se è chiaro, per sommi capi, quanto abbiamo detto in queste righe, ci sarà chiara anche la scelta, da parte di un autore della generazione degli anni Settanta come Matteo Veronesi, di una «poesia povera», una «poesia da scrittoio», che ci parla di cose semplici e antiche come un «ciclamino», di affetti privati e domestici, dell’ombra della morte che si allunga, al tramonto, su tutti le suppellettili del quotidiano.

Il ciclamino, il fiore
che nel suo giro fragile
di colore e profumo chiude il cerchio
delle ere e degli astri, e col suo muto palpito
fa eco al chiaro riso delle stelle
ignaro di mesi e di stagioni
è fiorito ai confini dell’inverno

Ed ecco che ritornano tutti gli stilemi e i topoi del crepuscolarismo: la vita come «pianto», l’alba «grigia», la preghiera sulla «lapide», la presenza pervasiva e costante della «morte», l’ombra della «madre», la «primavera» nebbiosa, etc.

Come l’edera figlia del silenzio
e del buio che avviva le mura
dei cimiteri e reca in quella quiete
il verde riso della primavera
così è questo mio canto che vive
nutrito dalle tenebre e dal nulla

Un discorso poetico emblematico della nostra esperienza, direi.

Giorgio Linguaglossa