domenica 20 novembre 2011

Una nota di Giorgio Linguaglossa sul "Cordone d'argento"

Ho il piacere di pubblicare una nota di Giorgio Linguaglossa, uno dei più significativi critici militanti del panorama attuale, il quale rilegge, a distanza di qualche anno, il mio Cordone d'argento. Il richiamo ai crepuscolari mi fa tornare con la mente agli anni dell'adolescenza, quando proprio la lettura di quei poeti, contaminata con quella di Montale e di Zanzotto (come se io avessi voluto, inconsciamente, rileggere e rivivere a ritroso tutto il Novecento italiano, per me simultaneo e compresente, dagli esiti più maturi fino alle radici), mi offriva gli occhi e le lenti, opache e meditabonde, attraverso cui vedere la mia provincia, quella in cui mi trovavo a vivere – e anche, più minutamente, quella provincia dell'essere e dell'esistente che sono non tanto le “piccole cose”, quanto i minimi dettagli, le minime pieghe ontologiche, i più sottili anfratti percettivi, di ogni realtà, grande o piccola, degli oggetti più minuti come delle più vaste e ardite immaginazioni cosmiche – specie oggi che tutto il mondo è divenuto, o può o potrebbe divenire, insieme centro e provincia, fulcro e margine, identità e alterità, tanto che i massimi poeti d'oggi - un Walcott o un Soyinka, o anche l'europeo Heaney - possono fare di usanze, miti e scenari lontanissimi dal vissuto e dall'immaginario dominanti dell'Occidente il tramite e l'oggetto di immedesimazioni mitopoietiche e di meditazioni sapienziali che travalicano ogni confine.

E, forse, se vogliamo un poco giocare con le formule, il minimalismo della poesia, e spesso della mentalità, di oggi può essere superato proprio fondendo neo-crepuscolarismo e neo-simbolismo, oggettualità ed evocazione, ekphrasis ed allusione; recuperando, in fondo, quella stessa matrice simbolista (Maeterlinck, Rodenbach, Samain: poeti proprio per questo da rileggere) che era alla base del crepuscolarismo.

Poesia neo-crepuscolare, infine, non nel senso in cui Borgese parlava del crepuscolo a cui non sarebbe seguita la notte; ma, al contrario, precisamente nel senso di un crepuscolo come anticamera e annunzio della notte: notte santa e dannata, notte luminosissima e oscura; notte del Divino e dell'Essere, come del Silenzio e del Nulla.

(Matteo Veronesi)


Matteo Veronesi,
Il cordone d’argento

Oggi, dopo l’interminabile foce epigonica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dopo la stagnazione economica e stilistica (e politica) di questi anni Zero, è sempre più chiaro, a chi voglia vedere le cose senza gli occhiali ideologici del minimalismo, che l’epoca dello pseudo-simbolismo delle scritture epigoniche non ha nulla da dire (di comunicabile) alla comunità nazionale, nulla di significativo ai cittadini.

Posta l’impossibilità, certo, oggi, di costruire uno stile simbolistico (ovvero, post-simbolistico), per via della caduta a picco del fondale simbolico, per quella problematicità di porre il simbolico come «simbolico», e per via di quella confusione di porre l’equivalenza: l’immaginario=mito e mito=simbolico, quello che rimane possibile è, per la nuova generazione, un linguaggio poetico che non poggi su alcuna stilizzazione e su alcuno zoccolo stilistico. Lo so, è paradossale e fortemente antinomico, ma così è.

Quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad uno stile mitologicamente sostenuto non ha lasciato traccia significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia.

Adesso, è chiaro che i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata, al meglio, antichizzata e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano, Govoni, Moretti, Vallini) che hanno scoperto la prosa, la natura metaforica del discorso poetico inteso come ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi. Essi chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso laico, borghese e piccolo borghese.

Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda metà del secolo scorso, e precisamente nei decenni che hanno visto l’esaurimento dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno spazio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio incontaminato, direi biologico (con tanto di autobiologia che fa rima con apologia dell’io). Ne derivò qualcosa di assai scomodo: il discorso poetico del secondo Novecento non concede sufficiente spazio a chi voglia accomodarsi, non c’è un atrio per i ricevimenti né un salotto per l’accoglienza, c’è solo un corridoio lastricato di sperimentalismo e di oggettistiche urbane; non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi. Con la conseguenza che il linguaggio poetico del tardo Novecento è rimasto privo di pavimentazione lessicale e stilistica, il che non può che riprodurre le medesime aporie e i medesimi nodi che erano già venuti al pettine negli anni del crepuscolarismo.

«L’uomo non è più padrone a casa sua. Deve vivere ora in una chiesa, ora in un sacro boschetto di druidi, l’occhio padrone dell’uomo non ha dove riposarsi né dove trovare pace. Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire ma chiede per se stessa un significato assoluto (come se bollire non fosse un significato assoluto). Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi. Ma come fare con la adesione della parola al suo significato: forse che si tratta di una dipendenza fortificata? Ma la parola non è una cosa. Il suo significato non è affatto una traduzione di se stessa. Infatti, non è mai accaduto che qualcuno abbia battezzato un oggetto e l’abbia chiamato con un nome inventato. La cosa più conveniente, e nel senso scientifico più esatta, è guardare alla parola come ad una immagine...»: sono parole di Mandel’stam contenute nel saggio Sulla natura della parola, pubblicato nel 3° n. di «Poiesis», nel 1993, da Donata De Bartolomeo.

Se è chiaro, per sommi capi, quanto abbiamo detto in queste righe, ci sarà chiara anche la scelta, da parte di un autore della generazione degli anni Settanta come Matteo Veronesi, di una «poesia povera», una «poesia da scrittoio», che ci parla di cose semplici e antiche come un «ciclamino», di affetti privati e domestici, dell’ombra della morte che si allunga, al tramonto, su tutti le suppellettili del quotidiano.

Il ciclamino, il fiore
che nel suo giro fragile
di colore e profumo chiude il cerchio
delle ere e degli astri, e col suo muto palpito
fa eco al chiaro riso delle stelle
ignaro di mesi e di stagioni
è fiorito ai confini dell’inverno

Ed ecco che ritornano tutti gli stilemi e i topoi del crepuscolarismo: la vita come «pianto», l’alba «grigia», la preghiera sulla «lapide», la presenza pervasiva e costante della «morte», l’ombra della «madre», la «primavera» nebbiosa, etc.

Come l’edera figlia del silenzio
e del buio che avviva le mura
dei cimiteri e reca in quella quiete
il verde riso della primavera
così è questo mio canto che vive
nutrito dalle tenebre e dal nulla

Un discorso poetico emblematico della nostra esperienza, direi.

Giorgio Linguaglossa


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