E, forse, se vogliamo un poco giocare con le formule, il minimalismo della poesia, e spesso della mentalità, di oggi può essere superato proprio fondendo neo-crepuscolarismo e neo-simbolismo, oggettualità ed evocazione, ekphrasis ed allusione; recuperando, in fondo, quella stessa matrice simbolista (Maeterlinck, Rodenbach, Samain: poeti proprio per questo da rileggere) che era alla base del crepuscolarismo.
Poesia neo-crepuscolare, infine, non nel senso in cui Borgese parlava del crepuscolo a cui non sarebbe seguita la notte; ma, al contrario, precisamente nel senso di un crepuscolo come anticamera e annunzio della notte: notte santa e dannata, notte luminosissima e oscura; notte del Divino e dell'Essere, come del Silenzio e del Nulla.
(Matteo Veronesi)
Matteo Veronesi, Il cordone d’argento
Oggi, dopo l’interminabile foce epigonica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dopo la stagnazione economica e stilistica (e politica) di questi anni Zero, è sempre più chiaro, a chi voglia vedere le cose senza gli occhiali ideologici del minimalismo, che l’epoca dello pseudo-simbolismo delle scritture epigoniche non ha nulla da dire (di comunicabile) alla comunità nazionale, nulla di significativo ai cittadini.
Posta l’impossibilità, certo, oggi, di costruire uno stile simbolistico (ovvero, post-simbolistico), per via della caduta a picco del fondale simbolico, per quella problematicità di porre il simbolico come «simbolico», e per via di quella confusione di porre l’equivalenza: l’immaginario=mito e mito=simbolico, quello che rimane possibile è, per la nuova generazione, un linguaggio poetico che non poggi su alcuna stilizzazione e su alcuno zoccolo stilistico. Lo so, è paradossale e fortemente antinomico, ma così è.
Quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad uno stile mitologicamente sostenuto non ha lasciato traccia significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia.
Adesso, è chiaro che i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata, al meglio, antichizzata e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano, Govoni, Moretti, Vallini) che hanno scoperto la prosa, la natura metaforica del discorso poetico inteso come ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi. Essi chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso laico, borghese e piccolo borghese.
Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda metà del secolo scorso, e precisamente nei decenni che hanno visto l’esaurimento dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno spazio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio incontaminato, direi biologico (con tanto di autobiologia che fa rima con apologia dell’io). Ne derivò qualcosa di assai scomodo: il discorso poetico del secondo Novecento non concede sufficiente spazio a chi voglia accomodarsi, non c’è un atrio per i ricevimenti né un salotto per l’accoglienza, c’è solo un corridoio lastricato di sperimentalismo e di oggettistiche urbane; non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi. Con la conseguenza che il linguaggio poetico del tardo Novecento è rimasto privo di pavimentazione lessicale e stilistica, il che non può che riprodurre le medesime aporie e i medesimi nodi che erano già venuti al pettine negli anni del crepuscolarismo.
«L’uomo non è più padrone a casa sua. Deve vivere ora in una chiesa, ora in un sacro boschetto di druidi, l’occhio padrone dell’uomo non ha dove riposarsi né dove trovare pace. Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire ma chiede per se stessa un significato assoluto (come se bollire non fosse un significato assoluto). Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi. Ma come fare con la adesione della parola al suo significato: forse che si tratta di una dipendenza fortificata? Ma la parola non è una cosa. Il suo significato non è affatto una traduzione di se stessa. Infatti, non è mai accaduto che qualcuno abbia battezzato un oggetto e l’abbia chiamato con un nome inventato. La cosa più conveniente, e nel senso scientifico più esatta, è guardare alla parola come ad una immagine...»: sono parole di Mandel’stam contenute nel saggio Sulla natura della parola, pubblicato nel 3° n. di «Poiesis», nel 1993, da Donata De Bartolomeo.
Se è chiaro, per sommi capi, quanto abbiamo detto in queste righe, ci sarà chiara anche la scelta, da parte di un autore della generazione degli anni Settanta come Matteo Veronesi, di una «poesia povera», una «poesia da scrittoio», che ci parla di cose semplici e antiche come un «ciclamino», di affetti privati e domestici, dell’ombra della morte che si allunga, al tramonto, su tutti le suppellettili del quotidiano.
Il ciclamino, il fiore
che nel suo giro fragile
di colore e profumo chiude il cerchio
delle ere e degli astri, e col suo muto palpito
fa eco al chiaro riso delle stelle
ignaro di mesi e di stagioni
è fiorito ai confini dell’inverno
Ed ecco che ritornano tutti gli stilemi e i topoi del crepuscolarismo: la vita come «pianto», l’alba «grigia», la preghiera sulla «lapide», la presenza pervasiva e costante della «morte», l’ombra della «madre», la «primavera» nebbiosa, etc.
Come l’edera figlia del silenzio
e del buio che avviva le mura
dei cimiteri e reca in quella quiete
il verde riso della primavera
così è questo mio canto che vive
nutrito dalle tenebre e dal nulla
Un discorso poetico emblematico della nostra esperienza, direi.
Giorgio Linguaglossa
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