lunedì 9 gennaio 2012

Antonio Castronuovo, "A che ora si alza lo scrittore"

Articolo apparentemente leggero e svagato, ma su cui riflettere. Al genio che creava - e ancor oggi, rarissimamente, crea - "per intervalla insaniae", "noctes vigilans serenas", come dice Lucrezio, strappando al giorno, alla notte, ai ritmi ossessivi ed alienanti della vita reale gli spazi e gli istanti della conoscenza, dell'illuminazione e dell'espressione, la modernità e l'"industria culturale" hanno sostituito (almeno a partire da Balzac, ma forse già con Defoe o con Swift o con Walter Scott) la figura di un produttore di letteratura paragonabile - almeno nei casi migliori - ad un operaio di alta specializzazione o ad un impiegato aspirante alla condizione borghese. Una monotonia, una routine produttiva a cui si oppone il pensiero, fra notturno, aurorale ed albale, opaco eppure folgorante, di Valéry, chino sui "Cahiers" nel cuore della notte, quando il mondo è avvolto nell'incoscienza greve del sonno. (M V.)


Emozionato, se non turbato, il turista letterario s’appressa alle case degli scrittori: c’è fila a Recanati davanti al palazzo di Monaldo, c’è meno fila a Lecco al botteghino di villa Manzoni. Solo qualche raro curioso fa pausa sotto le abitazioni di Moravia o Vittorini, e ciò dovrebbe già far pensare. Pochissimi coloro che, uscendo dalla stazione di Torino, sanno che l’albergo davanti a cui si passa fu abitato da Pavese, che in una camera vi attuò l’estremo gesto. Se poi meditiamo sulle celebrità di una settimana (i campielli che imbroccano un solo libro) il turista letterario neppure ne ricorda il nome.

Leopardi – che pure è il più glorioso – lo aveva annotato due secoli fa nel brogliaccio zibaldone: «Molti libri oggi durano meno del tempo che è bisognato a raccoglierne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli». E la certezza di non giungere alla fama è già un segno della grama vita che mena lo scrittore, che alla popolarità mira, o per vanità o per ossessione. Sa che non avrà fama, e tuttavia si dispone a conquistarla, dandosi regole di vita.

Essendo necessaria alla scrittura una punta di acuta asprezza, diremmo che lo scrittore è uno che si fa beffe delle regole, anzi: è uno che sfida la biologia come una volta facevano i poeti maledetti, che non scrivevano senz’oppio e senza notti bianche. Nient’affatto: guardando alle regole di vita oggi assunte dagli scrittori rileviamo una tenace apoteosi dell’abitudine, proprio là dove ci attenderemmo un pizzico di passione e d’incoerenza. E lo veniamo a sapere col fiorire d’interviste a prosatori (i poeti fanno razza a parte), invitati a rispondere alla seguente domanda: In quali momenti della giornata lei scrive e come organizza il suo tempo?

Interviste davvero spassose, dato che se ne ricava una sola impressione: che tutti seguono le stesse identiche regole. Eccole: mi alzo alle 7, faccio la pipì, prendo un caffellatte, poi mi metto a scrivere per tutta la mattina, quattro o cinque ore di lavoro; dopo mangio qualcosa e il pomeriggio lo dedico alla lettura e allo jogging; la sera è tutta per la comunicazione (mail e cena fuori con amici), oppure vado a letto presto.

Bella vita, non c’è che dire.

La sola regola variabile è l’ora in cui gli scrittori si alzano, su cui appunto si gioca la loro differenza. Certo, alzarsi alle 7 è la situazione più comune; ed è anche gesto simbolico, dato che le 7 sono il momento canonico del lavoratore, che un’ora dopo deve timbrare in fabbrica il cartellino (proprio come i presidenti lavoratori, anche loro in piedi alle 7, se non prima). Alzarsi a quell’ora addita la regolarità di un lavoro che si ambisce a compiere – come si suol dire – a regola d’arte. Il bravo scrittore si alza alle 7, e chi si alza alle 7 produce in genere romanzi e saggi misurati, di nitido stile.

Ma non sempre l’ora è quella. Ci sono infatti scrittori che si alzano alle 6. Non è cosa facile; in genere vi si avvezza chi ha origini contadine. Non lo dico per sfottere: io ho quelle origini (mio nonno aveva l’asino) e me ne vanto. È un’ora che torna buona per il romanzo realista, possibilmente a risvolto sociale; ora ottima per narrare le albe del duro lavoro e delle dure rivendicazioni. Alzandosi alle 6, poi, è certo che si andrà a nanna massimo alle 23: realismo vuole che non si contesti l’orologio biologico e sette ore di sonno costituiscono, per il riposo, il minimo sindacale.

C’è anche chi si alza alle 5. Il nobel García Márquez, ad esempio, salta dal letto a quell’ora. Lo ha dichiarato in un’intervista, aggiungendo che legge fino alle 8, poi un’ora di tennis «perché altrimenti passerei la giornata seduto», poi comincia a scrivere fino alle 14,30 e dopo c’è la numerosa famiglia da accudire. Ma García Márquez è pacioso, si vede che è uno che si corica presto e dunque non fa testo. Di norma, alzarsi alle 5 testimonia di un certo spirito sedizioso. All’alba il cervello è anfetaminico e scattante, come ben sapeva Valéry che si alzava in piena notte per riempire i suoi cahiers di una massa di pensieri che traboccano di lucidità, e poi semmai tornava a coricarsi e se la dormiva alla grande.

Confesso che capita anche a me, e mai volontariamente: se la sera vado a letto troppo presto, mi ritrovo prima dell’alba con gli occhi sbarrati nell’oscurità. Devo alzarmi, vago per casa, mangio un biscotto e – invece di riempire quaderni di genialità – finisco per leggere rovinandomi la vista, e dopo mezz’ora crollo: un sonno greve m’attanaglia fino al fatale istante della sveglia che trilla. Ma torniamo a noi: dicevo che alzarsi alle 5 testimonia di uno spirito sedizioso. Vero: lo scrittore delle 5 produce opere taglienti, condite di una dose di politically uncorrect; è uno che attacca e colpisce. A quell’ora sovvengono ai giallisti le scene omicide; i finali, invece, pare sovvengano a stomaco pieno, quando l’ispirazione è grassa.

Non è finita: c’è chi si alza alle 8 e si tratta di un’alzata bastarda, né zuppa né pan bagnato: è l’ora buona per combinare qualcosa, ma è anche un po’ tardino per avere la calma necessaria. E chi si alza alle 9 o alle 10? E chi poi non si alza nemmeno alle 10? Beh, questi neppure si alzano, tanto la mattina è persa. Sono tutti coloro che, certo, possono fare gli scrittori, ma solo in maniera anticonformista, tornando ad assaggiare la notte come i maledetti dell’oppio.

Ma se questa è l’ora, che ne è del luogo? Lo studiolo in cui lo scrittore opera è quanto di più insulso e ordinario si possa dare: c’è il piano di lavoro (ingombro di libri e carte), c’è la seggiola (dotata, se non è poltroncina, di cuscino per glutei), c’è lo strumento di scrittura (il computer, che tutti dicono di detestare, ma è lì), c’è la lampada a paralume (i postmoderni hanno quella col braccio snodato), ci sono gli scaffali in sottofondo (quelli a portata di mano reggono dizionari e garzantine: di wikipedia non ci si può fidare). Coglie un senso d’umana pietà a guardare le foto degli scrittori con l’immancabile libreria alle spalle; ma diventa pena se si scorge, ben ripiegata, la coperta a quadroni per coprire le gambe d’inverno o, peggio ancora, il poggiapiedi per le caviglie gonfie.

Quali che siano le abitudini e i luoghi d’azione, la pratica della scrittura deforma il corpo. Riduce miopi e, da quando c’è il videoterminale, accelera la cataratta; produce una gobba sagomata e riduce la lordosi lombare, con l’inevitabile ernia discale; impigrisce l’intestino (e si fa necessario lo yogurth ai fermenti): ai più nervosi fa ingoiare ansiosamente l’aria – e possiamo sospettarne gli spiacevoli effetti.

La prevedibile esistenza dello scrittore e la dozzinale ovvietà del suo posto di lavoro sono avvilenti; dovrebbero essere condizioni umilianti, e invece egli sembra orgoglioso di avere alle spalle le enciclopedie comperate in edicola. È proprio vero che ci si piega a tutto.
Riconosco tuttavia che scrivere è doveroso. Come enunciò un saggio orientale (appartengo alla generazione che affidò al buddhismo le proprie emozioni; non peggio dei creduloni odierni) per conseguire il Nirvana bisogna nella vita fare un figlio, scrivere un libro e piantare un albero. Alzi la mano chi non ha fatto un figlio. Ora alzi la mano chi non ha scritto un libro. E ora alzi la mano chi non ha piantato un albero.

Troppi, siete in troppi a non aver piantato un albero. Vi manca proprio qualcosa. E allora mettete da parte la penna, mettete a riposo i genitali riproduttori e comperatevi una vanga. Per piantare un albero non ci vogliono tante regole, basta solo la forza delle braccia. E poi vangare è gradevole, e fa scordare la meschinità di chi scrive soltanto. E semmai rinuncia stoltamente a interrare un alberello.

Antonio Castronuovo

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