martedì 10 gennaio 2012

UN INTERVENTO DI GIUSEPPE FEOLA SU POESIA E CONOSCENZA

Molte delle voci più significative della giovane poesia italiana scaturiscono - fatto che mi sembra degno di nota - da ambienti accademici legati all'àmbito logico-matematico: penso a Lorenzo Carlucci, ad Alessandra Palmigiano. Anche la poesia ha una sua logica (la "logica poeziei" teorizzata nell'Ottocento da Alexandru Macedonski), che non si identifica certo con la logica ordinaria, né con le logiche formali, né con alcuno dei modelli di logica elaborati a livello scientifico ‒ ma che non si risolve, o dissolve, neppure nel pulviscolìo indistinto, nell'atomismo informe dell'espressione caotica, casuale, non motivata. La poesia è anche una forma di conoscenza, e come tale presuppone e sottende modelli gnoseologici, modalità di percezione e rappresentazione del mondo, del pensiero, dell'Erlebnis. Di ciò è testimonianza anche questo intervento di Giuseppe Feola, del quale ho proposto precedentemente alcuni testi poetici di prossima pubblicazione in volume. (M. V.)


Mi è stato chiesto se vi fosse coerenza tra le mie teorie esposte in "Linguaggio, poesia, conoscenza" e la mia pratica poetica, e se le mie teorie potrebbero aiutare "a porre fine a tanti
vaniloqui, siano essi minimalistici o neo-sperimentali".

Va detto, innanzitutto, che il saggio è stato scritto in un momento in cui avevo cessato di scrivere poesie da circa dieci anni, e in cui una ripresa dell'attività poetica sembrava lontanissima. Il saggio è stato costruito seguendo una prassi combinatoria, da 'catena di montaggio'. Ho preso come punto di partenza la teoria che mi sembrava più promettente (nel caso specifico, quella di Frege sulla significazione linguistica), e ho cercato di costruire una estensione della teoria preesistente che rendesse ragione dello specifico dell'espressione poetica. Ovviamente, è un test fondamentale per qualunque teoria il vedere se poi riesca effettivamente a dar ragione dei fenomeni che intende spiegare. E il fenomeno che la mia teoria intendeva spiegare era quel non so che mi incanta nelle mie letture preferite dal punto di vista estetico.

Nello scrivere, cerco di riprodurre, a modo mio, quel medesimo non so che. Quindi un legame tra la mia teoria e la mia prassi teorica sicuramente c'è. Non però nel senso che la seconda provi a tradurre in pratica la prima. Bensì nel senso che sia l'una che l'altra traggono ispirazione da ciò che mi piace e che vorrei trovare ogni volta che leggo poesia.

Quando dico che la mia prassi poetica non prova a tradurre in pratica la teoria, intendo dire che, quando scrivo, non c'è alcunché che mi guidi, oltre alla mia immaginazione e al mio
senso del suono, del ritmo, dell'appropriatezza linguistica. Non ho mai provato a esaminare se le mie poesie siano coerenti con le mie teorie.

Quanto alla polemica contro il minimalismo e il neo-sperimentalismo, io effettivamente ho gusti
fortemente classici (come si evince anche dagli esempi che ho scelto nel saggio). Credo inoltre che la febbre di voler sempre e per forza fare qualcosa di nuovo, o (in un'altra versione) di adeguarsi ai tempi, abbia rovinato la poesia del Novecento, spingendo tutti verso la credenza che basti stupire, "épater le bourgeois", per fare poesia.

Il senso di robustezza, flessibilità, tensione verso il perenne, e forse persino di impersonalità , che mi danno l'esametro lucreziano o la prosa di Eraclito (per menzionare due autori che presi a esempio nel saggio), è per me un vero e proprio conforto alla vita. Ciò vale anche per autori lirici, il cui scopo apparente è parlare di sé. Due esempi per tutti: Saffo e Leopardi. Per me la prassi poetica è, anzitutto, disciplina mentale, anche solo a mio esclusivo beneficio.

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