giovedì 28 luglio 2011
UN'INTERVISTA A JEAN SOLDINI
Talora i poeti, fuori dai versi, non dicono nulla, le loro filosofie (ovvero le loro visioni del mondo, dunque in definitiva le loro poetiche, giacché Poesia, e coscienza della poesia nel suo essere poesia, è Mondo e Pensiero riflessi nella Parola, nel Logos) sono pretestuose, fumose, inconsistenti.
Invece, Soldini dice (ad esempio sullo spazio che torna allo spazio, non nel senso autoreferenziale e illusorio del non-luogo, e nemmeno in quello, pur fondamentale per la modernità letteraria, del mallarmaeno "Rien n'aura eu lieu que le Lieu", lo Spazio assoluto del Testo, ma al contrario nella direzione di uno scambio e di un dialogo - e sulla fictio non come astrazione, evasione, narcosi, ma come concreto ed operativo dar-forma-all'informe, significato al caos) cose essenziali, originali, da vero poeta-pensatore.
E si ha, infine, la malinconica sensazione che la stampa elvetica dia alla cultura uno spazio che in Italia le è da decenni precluso. (M. V.)
Dallo spazio allo spazio
A colloquio con Jean Soldini, autore del libro di poesie Bivacchi (intervista di Paola Pettinati in “La Regione Ticino”, 23 marzo 2010).
Uno sguardo alle vittime della guerra, ai dimenticati, agli oppressi, ai diseredati. È quello che Jean Soldini rivolge nel suo ultimo libro di poesie Bivacchi pubblicato recentemente dalle Edizioni Ulivo di Balerna. Il volume contiene anche alcune illustrazioni realizzate da studenti del CSIA: Enea Arienti, Yanica Gisler, Tanja Jovanovitch, Rachele Monti, Bianca Sassi, Amanda Stöckli, Valentina Vitali. Come mai un pensiero alla guerra? «Bivacchi – spiega Jean Soldini – è un libro, almeno in parte, influenzato dall’invasione dell’Iraq e dal secondo mandato di George W. Bush a partire dal 2004. È stato un periodo che ha provocato in me una tristezza sorda e persistente. È ciò che si esprime per esempio con Imperi, La vedi ora, Fuori dell’accampamento, Ombrellone, Neppure un merlo».
Che visione della storia emerge? «Mi riconosco molto in questa affermazione di Elisabeth Costello, la scrittrice uscita dalla penna di J. M. Coetzee e protagonista dell’omonimo romanzo. Lei afferma a un certo punto che il futuro è solo nella mente e non ha una sua realtà. Lo stesso rimprovero potrebbe essere mosso al passato, ma aggiunge che “c’è qualcosa di miracoloso che il passato ha e che manca al futuro. Quello che è miracoloso del passato è che siamo riusciti – Dio sa come – a far sì che migliaia e milioni di finzioni personali, finzioni create dai singoli esseri umani, si incastrassero l’una nell’altra fino a darci quello che sembra un passato comune, una storia condivisa”. Finzioni. Il verbo latino fingere indica ‘modellare’, ‘dare forma’. Penso che positive siano le storie, vale a dire quanto formiamo con l’esistente. Poi c’è la Storia che è la moltitudine di storie assorbite dalla violenza del più forte, dalla prepotenza che precipita subito ogni cosa nella più radicale insensatezza. Ho però fiducia nel singolo uomo e anche nelle cose. Fiducia, speranza «senza incauti incantamenti» come nella poesia che parla del monumento di Peter Eisenman alla memoria delle vittime della Shoah. Ho fiducia nel fatto che siamo tutti meticci (Dallo spazio allo spazio). In alcuni lo si vede di più. Sono i sopravvissuti alla violenza e al razzismo, hanno imparato quello che può servire per vivere, per sopravvivere. Lo hanno imparato con una sapienza immediata. Meticci, perseguitati, profughi umiliati infinite volte in un giorno tornano dallo spazio allo spazio, si spostano, sono costretti a farlo. Dallo spazio tornano allo spazio perché c’è un solo spazio. Tanti luoghi, ma un solo spazio. Lo spazio accarezza la ferocia, non la placa. Non contiene, ma accarezza. A contenere sono le nazioni, i luoghi resi inospitali, che sono generati da chi dice: più di questo non può essere contenuto. Gli altri sono troppi».
Quali altri temi e scenari sono presenti in Bivacchi? «In questa raccolta c’è anche la follia improvvisa, quella che è sempre in agguato alle spalle di ognuno di noi (Un angelo), la marginalità (Un quarto d’ora fa), la spiritualità ipocrita col suo mito dell’interiorità (Non distrarsi, Sarebbe stato meglio). C’è pure un’altra America come in Tronchi dedicata a Ansel Adams, un fotografo di paesaggi statunitense, come in Casa nel Queens o in quella poesia che parla di un artigiano di Bowery che è una via e un distretto di New York».
Diceva del mito dell’interiorità. «Sì. Trovo deprimente l’interesse per il nostro piccolo “mondo interiore”, mentre ciò che è altro da noi è molto più affascinante e arricchente perché ci obbliga continuamente a esporci. L’altro ci offre un orizzonte che può essere pura apertura, libertà e non «meta al pensiero che si accinge a pensare» (sono gli ultimi versi della poesia Orizzonte). È quanto si esprime anche ne La riga gialla che ha come sfondo una fila alla cassa di un supermercato».
Come si pone la parola in rapporto alla poesia? «La parola è tentata dal possesso implicito nel nominare. Le parole danno un nome e nel contempo chiamano; e se è vero che chiamano, allora qualcosa in esse deve rispondere. Noi nella parola dobbiamo cercare di ascoltare ciò che in essa risponde. Nel De Magistro di Sant’Agostino c’è un dialogo sulla preghiera. Nella preghiera parliamo e nello stesso tempo questo parlare è ascoltare Dio, ricordarsi di lui. La parola, se badiamo a questa indicazione, dovrebbe essere preghiera in senso laico, dovrebbe portarci ad ascoltare la risposta dell’esistente, a ricordarci di quest’ultimo. La parola la vedo come una cosa che dice cose e che vive sempre in un’oscillazione tra incantamento positivo e incantamento negativo. Nella poesia questo diventa fortissimo. La poesia è sempre sul crinale tra mitezza e arroganza della parola. Crea apparizioni di realtà attraverso il miracolo di una parola che s’impone col suo fascino, ma si deve anche ritirare».
La parola si ritira? «La poesia desidera dire, ma desidera anche quella fodera del dire che è il tacere perché solo quest’ultimo può lasciar posto al farsi vivo dell’esistente nella parola stessa. Tacere per sentire una voce che non sia solo la nostra. E per questo è importante che ci sia sempre la singolarità col suo corpo nel corpo della parola. Non so se la mia poesia ha una qualche universalità. Sta di fatto che non può esserci universalità se non affondando nella singolarità. Il vetro rotto di cui parlo in Nel foro lucente è quel singolo vetro. Come dice il drammaturgo e regista Marco Baliani, “La parola albero è una forma che contiene tutti gli alberi del mondo. Il lavoro in tutti questi anni è stato cercare sempre quell’albero lì, particolare e unico, quello di cui fare l’esperienza in un bosco, su un marciapiede, dentro un giardino”. Forse è per questo che, come diceva Vladimir Nabokov (era anche stato esperto di lepidotteri e ricercatore al Museo di Zoologia comparata dell’Università di Harvard), in un’opera d’arte avviene “una fusione tra la precisione della poesia e l’ebbrezza della scienza”. Affermava anche il contrario. Erano affermazioni ambivalenti per lui. Penso si possa dire che ci vogliono precisione ed ebbrezza insieme. Ci vuole la precisione che onori la singolarità contro la genericità e ci vuole l’ebbrezza che la salvi dalla noia della genericità. Ebbrezza e precisione per raggiungere quell’albero o quel vetro in mezzo al pullulare di ciò che esiste».
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L'ESSERE E LA MASCHERA. DIALOGO INTORNO A UN VIDEO DI PASOLINI
MATTEO VERONESI
Qui Pasolini sembra professare una forma di esistenzialismo con venature addiritture mistiche, metastoriche; lui che più volte si pronunciò contro l'esistenzialismo. Nel contempo, si avvicina all'assurdismo dell'esistenzialismo ateo (ma anche al credo quia absurdum della mistica eterodossa, non canonica).
In due minuti di oralità, nella banalità effimera ed episodica di un'intervista televisiva, si può trovare, senza eccessivo sforzo, tutto questo, condensato in poche parole-luce, come le chiamava Ungaretti.
Non è forse possibile che proprio l'oralità televisiva, pur da lui tanto aborrita, fosse in realtà, per Pasolini, il luogo desolato e nudo e disincantato e indifeso della sincerità, della verità, dell'autotrasparenza - mentre la scrittura, più meditata, era invece artificio e stilizzazione, consapevoli (il suo "alessandrinismo", la sua "estetica passione")? Quello che vediamo e ascoltiamo è spesso un Pasolini grigio, spento, vuoto - quasi un doppio, un simulacro, un àgalma, un revenant.
O forse, al contrario, in televisione Pasolini dice che essere scrittore non ha alcun senso proprio perché la televisione, il mezzo (che è il messaggio), sono per lui privi di senso - mentre non direbbe, e non potrebbe dire, la stessa cosa scrivendo, perché proprio e solamente sulla pagina la letteratura trova la sua sostanzialità, il suo senso? E non potrebbe valere, con le debite distinzioni, un discorso analogo per Carmelo Bene - anche e soprattutto scrittore?
Il poeta sullo schermo: argomento interessante. "Schermo" come rivelazione, trasparenza, epifania - ma anche, letteralmente, come barriera, nascondimento, finzione, depistaggio - "la donna dello schermo", "poi come su uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto......".
NEIL NOVELLO
Non è lo scrittore a non aver senso, è lo scrivere. Chi ha affidato la propria vita alla scrittura sa cosa voglia dire l'insensatezza dello scrivere. E si continua a scrivere non per lo scrivere in sé, ma appunto perché si è scrittori: l'a-chi dello scrivere vale meno del chi dello scrittore. Se leggi La meglio gioventù e poi La nuova gioventù comprendi cos'è scrivere ed al contempo cancellare, o meglio scrivere cancellando: ma in questo paradosso, ciò che non si cancella è proprio lui, lo scrittore, che pur scrivendo-cancellando crea.
ELISABETTA BRIZIO
Anche nel web ci si scherma con pseudonimi vari, ed è forse nel rendersi irriconoscibili che riveliamo veramente noi stessi. Al contrario, spesso si finge proprio quando ci si firma, nel gesto deliberatamente enunciativo, ora glissando ora oscillando tra menzogna e omissis. Del resto, anche nelle arti figurative il tema della maschera altro non è stato che un tragico o giocoso intrattenersi con l'io. In latino maschera è persona, forse dall'etrusco Phersu. Le persone della Trinità sono, in greco, pròsopa, dunque, anche maschera, le maschere di Dio. E la liturgia è paragonata dai Padri a una rappresentazione teatrale (in origine il teatro era rito sacro, e tale è ancora nelle culture animistiche e sciamaniche).
Oscar Wilde diceva che gli uomini perlopiù mentono, ma se assumono una maschera emerge tutta la loro verità. Quella maschera che nell'arte degli antichi talora era paradigma di nascondimento in alcuni contemporanei diverrà deformazione grottesca che mima l'inautenticità, l'ipocrisia. Ovvero, ossimoricamente, la coesistenza di ipocrisia e verità, di distanza e prossimità a una così detta condizione autentica. In fondo, anche i versi di Gozzano sono costellati di mascheramenti, anche da donna se vogliamo, ma nel travestimento finiva per enfatizzarsi la sua verità, o la sua cattiva coscienza ("Vile", gli disse la pattinatrice, per fare un esempio). O in Pascoli, là dove a ben vedere tutto il debordare dell'analogismo, della ambivalenza, dell'emblematismo sottesi a una così tanto proclamata e altrettanto praticata poetica della determinazione o della determinatezza non fanno che veicolare ulteriori supplementi di verità, serie di inferenze e rivelazioni non più delegate all’io, il quale si para con gli strumenti di quella che è stata definita "retorica dell’allusione", nonché nelle strutture del silenzio. Ma non era Clawdia Chauchat la sola a non indossare la maschera nella festa di carnevale, in quella stessa la notte della dichiarazione di Hans? Evidentemente, siamo di fronte a un'altra prospettiva.
Sul fatto di scrivere non ti so rispondere. Ma sono convinta del fatto che, perlomeno sotto innumerevoli aspetti, si scriva solo per sé stessi. Per soddisfare quale esigenza ognuno lo sa.
MASSIMO SANNELLI
grigio - chissà, forse no. ha il giubbotto di pelle, si è (voluto e) rappresentato non professionale, non vecchio - pensa alle interviste orribili e davvero 'svantaggiate' a Calvino o a Sciascia, con il completo da impiegato, con l'orrenda sigaretta accesa davanti alla telecamera...
Lo schermo è spietato con chi non ha/è una singolarità furiosa. foto di Avedon a Pound
e PPP: chissà se è sincero quando appare, cioè *sempre*. è il trionfo della sineciosi, parola orribile che a lui piaceva. e PPP appare perché - finché - c'è la mamma. io non *so*, ma sono certo, che morta la mamma si sarebbe isolato: anzi lo dice in Coccodrillo o Poeta delle Ceneri, isolarsi per fare musica - arte non verbale, appunto. [e stava ritornando alla pittura, anche]
e sarebbe stato sincero nel momento del ritiro - il suo tacere. ma la magia della parola uccide, se è usata perfettamente: impeccabile come il Don Juan di Castaneda. impeccabile: quasi 'imperdonabile di CC.
bisogna stare molto attenti a ciò che si scrive: si avvera (e lo ricordò Pasternak al giovane Entusenko: "non presagisca mai una morte tragica in versi, perché si avvererà, io sono vissuto solo perché non l'ho fatto..."). *quindi* è morto, non poteva non morire, l'abbandono della parola era tardivo. e lui era Pietro II, il papa apocalittico di Malachia - autoproclamato già in Poesia in forma di rosa.
è questo che mi ha sempre colpito in lui: il suo arcaismo *praticato*
E l'andare in macchina sportiva e al Piper e in vacanza con la Callas - la ricerca di soldi soldi soldi (anche per far piacere alla mamma, e per starne lontano, col motivo del lavoro) e la sua mentalità segreta da mago e monaco
non ho mai creduto alla differenza tra essere e apparire. soprattutto quando si tratta di questi spiriti magni... tanto meno nella magia
martedì 21 giugno 2011
L'identità letteraria della Svizzera italiana. Un dialogo con Fabiano Alborghetti
Pubblico questo breve dialogo con Fabiano Alborghetti (una delle più significative e riconoscibili voci della poesia svizzera contemporanea: poeta di confini e passaggi, di esodi ed agnizioni, di transizioni e aperture di senso).
Non ho la pretesa di mettere in discussione uno sguardo così partecipe, informato, acceso dal di dentro della realtà che contempla e in cui si specchia, e capace di dar forma a giudizi e definizioni di una meravigliosa concisione e di una straordinaria incisività, che fanno pensare quasi, senza esagerazioni, al Serra delle Lettere.
Eppure, io mi ostino a credere che anche un'identità letteraria e culturale come quella elvetica, unica al mondo proprio per il suo carattere multiforme, plurilinguistico, polifonico, possa essere in qualche modo definita (per ora sul versante italiano, peraltro aperto, come le annotazioni stesse di Alborghetti evidenziano, al dialogo con le identità germanica e francese).
Il fatto che la scuola filologica di Pavia abbia rappresentato (unitamente al magistero friburghese di Contini) un saldo punto di riferimento in termini di italianità e di rigore filologico, non stempera, mi pare, l'identità letteraria svizzero-italiana, ma semmai ne sottolinea un aspetto saliente, ovvero quello del legame tra poesia e filologia, tra creazione poetica e coscienza critica, da Orelli a Fasani a Pusterla, da De Marchi alla Berra (due autori, questi ultimi, che non mi pare sarebbero immaginabili al di fuori di un paesaggio come quello svizzero, punteggiato di confini, limiti, conche, avvallamenti, barriere, e insieme di aperture, spiragli, illuminazioni, fughe); e la Jurissevich, splendida poetessa che ho scoperto in questa occasione, dimostra come la matrice cristiana, nella fattispecie calvinista (ma uno degli autori a cui la poetessa guarda è certamente Agostino, mentre il suo paesaggio esistenziale e visivo, immoto e niveo, è chiaramente alpino), resti sorprendentemente, miracolosamente viva a distanza di secoli: leggendo i suoi versi ("Da questo ghiaccio liberami, o Signore...") ci si ricorda di Théodore de Bèze, delle sue tragiche psicomachie. (M. V.)
Attualmente – ma è un punto di vista personale – non c’è grande legame. Resiste certo la tradizione svizzera, ma è lì, parcheggiata. Più memoria o spazio sullo scaffale che non vero e proprio punto di partenza o reinvenzione.
Pusterla, ad esempio, è post-Montaliano. Giorgio Orelli si rifà più al Pascoli che non ad altri. Giovanni Orelli è stato influenzato molto più da Fritsch e Durrenmatt che non da scrittori di lingua italiana.
Direi che ora come ora ci si rivolge – parlando di poesia - più all’Italia che non alla tradizione ticinese (o svizzera di lingua italiana, come è più corretto dire)
Esiste un esprit helvétique, quale quello teorizzato da Gonzague de Reynold e anche, alla vigilia della prima guerra mondiale, dal grande ed inesplicabilmente dimenticato Carl Spitteler, che pure sdegnava la definizione di svizzero, e si considerava araldo di una sorta di germanicità trascendentale? Per la loro vicinanza linguistica, geografica, culturale, all'Italia (Milano centro di attrazione per i ticinesi, come Parigi per i romandi), in che modo gli svizzero-italiani interpretano l'esprit helvétique? Spitteler mostra una svizzera che osserva, immota ed apprentemente impassibile, le tragedie della storia restando chiusa nelle sue frontiere, e partecipandone silenziosamente. Mi pare che questo accada emblematicamente in certi tuoi testi.
Posso citare una frase di Ramuz: «L’unica cosa che unisce gli svizzeri è l’uniforme dei postini».
Esiste un'identità culturale lombardo-ticinese? E' giusto, com'è stato fatto, additarne uno dei tratti distintivi nella "reticenza", nell'ellissi, nel sottinteso, nel rifiuto di ogni barocco eccesso e nella ricerca di una pulizia, una nettezza, un'esattezza della parola? Eppure, mi sembra che nella poesia svizzero-italiana, già a partire da Chiesa, vi sia anche una concomitante, e apparentemente antitetica, linea di ascendenza simbolista ed ermetica, fatta di analogie, evocazioni, sinestesie, che non escludono ma integrano l'esattezza "oggettiva" della rappresentazione. Questo mi pare evidente anche nel modo di rapportarsi al testo da tradurre e da ricreare, ad esempio nel caso di Pusterla traduttore di Jaccottet: difficile e cangiante equilibrio tra fedeltà ed invenzione, adesione e ricreazione. L'identificazione tout court, senza ulteriori distinzioni, della "linea lombarda" con la cosiddetta "poetica dell'oggetto" pare riduttiva, almeno se quest'ultima viene intesa nel senso di una riproduzione impersonale, mimetica, neutra.
Molti poeti – Pusterla in testa, ma prima anche Giovanni Orelli - vengono “associati” alla linea lombarda. Nulla di più sbagliato o fuorviante.
Alberto Nessi rappresenta sin dagli esordi, forse, quello più vicino alla linea lombarda.
Pusterla, ad esempio, ha studiato a Pavia con Maria Corti e si è confrontato da subito con la massima italianità possibile, non con una parte, la Lombardia, né col Ticino. Erano aree di appartenza vivendole, ma certo non linee guida. Erano appartenenza più geografica che non stilistica.
E così anche per i poeti successivi: Gilberto Isella si rifà ai francesi; Pietro De Marchi a Giorgio Orelli; Aurelio Buletti è quasi una cosa a sé stante, forse influenzato (anche lui, come Giovanni Orelli) da Durrenmatt o Walser (e quindi in parte proiettati verso la germanicità, non come geografismo ma come corrente di pensiero: acume e critica e la capacità di usarne, più che stile da copiare o dal quale prendere esempio). Donata Berra (italiana ma da sempre in Svizzera) addirittura si rifà, da musicologa, più alla musica che a poeti o letterati. Federico Hindermann è forse il più vicino al Chiesa, anche se vivendo ad Andermatt da decenni è ormai tutt’altro, indefinibile: forse l’ultimo dei poeti romantici.
Altro discorso, ma non dissimile, per le nuove leve: Vanni Bianconi è vicino a Walcott ed alla poesia di Shelley, Eliott, io alla poesia di Pagliarani ma soprattutto di qualche decina di poeti americani, tedeschi, o dell’australiana Dorothy Porter. Tommaso Soldini è vicino anch’egli ad una lirica americana contemporanea. Flavio Stroppini proviene dal teatro e dalla drammaturgia, accostata al racconto (è prosatore, drammaturgo, regista…). Elena Jurissevich è prossima ad una poesia ermetica francese con echi religiosi; Pierre Lepori è indefinibile ma certamente “soffre” in positivo il bilinguismo (vive da decenni a Ginevra ed è traduttore, oltre che narratore e poeta). Prisca Agustoni è ermetica ma al contempo è immersa nella lirica sudamericana (vive in Brasile).
Credo che, dal secondo Novecento in poi, la linee guida si siano dissolte.
Un caso a sé stante sono forse i poeti dei grigioni: schiacciati tra l'identità locale (dialetto), l'italianità (per vicinanza di confine) e il peso di una germanicità che li opprime.
Onestamente, non credo esista una identità letteraria della Svizzera italiana. Ma l’interrogativo resta aperto e irrisolto.
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venerdì 10 giugno 2011
Elisabetta Brizio - “E non è ancora finita…”. Giovanni Lindo Ferretti, A Cuor Contento Tour
affiora al mio sguardo una volta ancora... l'aurora
mercoledì 8 giugno 2011
Ludovico Parenti, STRIPSODIA PER UN’OPERA POETICA DI NEIL NOVELLO

Se paradisi esistono mia madre ne avrà (tutto per sé) uno.
E.E.Cummings
Studioso non solo di Pier Paolo Pasolini, cui ha dedicato tra molti scritti un ponderoso volume (Il sangue del re), ma anche di Jean Genet, sul quale è di prossima pubblicazione un rilevante studio (Epopea di bassavita), di Machiavelli, Gadda etc., nonché curatore di diversi volumi sulla letteratura, le arti e il cinema, il quarantaduenne Neil Novello, origini calabresi, residente a Bologna, da tempo ormai si profila come uno dei più appartati, originali e geniali giovani studiosi che si calano nel proprio lavoro come in un mare inesplorato per riemergere con impreveduti tesori grazie a una capacità di prospezione che ha fatto dell’implacabilità linguistica e del rigore della conoscenza la sua regola.
Che fosse poi anche poeta, considerando l’appena edito Falò de’ rosarî, nella elegante collana poetica di Nino Aragno, non stupisce se si ha presente la precedente raccolta, Rosa meridiana (2004), in dialetto calabrese. A dettar legge poetica è un lutto incancellabile, la scomparsa della Madre, da Neil Novello immensamente amata, disperatamente cercata e omaggiata con un trittico dal momento che, tra Rosa meridiana e Falò de’ rosarî , si colloca Mutterland (2006), mediometraggio di poetica suggestione, memore del “cinema di poesia” pasoliniano.
Falò de’ rosarî (titolo bellissimo che sembra orecchiare la pur diversissima opera poetica di Carmelo Bene, ‘l mal de’ fiori) si articola in novantasei composizioni distribuite in nove sequenze che strutturano il tutto (fra le quali “Lager rosario”, “Celù”, “Parallaxis”, che a loro volta affondano e riaffiorano nell’architettura del libro), con l’eccezione di una poesia (“Stasimo in petalo verde giallo”) dalla palese ascendenza ‘sperimentale’, in evidente dissonanza, se non scarto violentemente radicale, dal rimanente corpus poetico; ed è opera, Falò de’ rosarî, che, per entrare nel Mistero, per misteri (come nel rosario) si esprime, agglutinandosi in una scrittura sapienziale misterica e allucinata: pagine e versi da toccare con devozione, sapendo quanto rischioso e arduo sia il tema affrontato/patito: la morte della Madre. Ed è, l’opera, una discesa insieme nella morte della Madre (del poeta) e nella morte delle Madri. Perché, quando muore una madre, è come se morisse ogni madre.
In Falò de’ rosarî l’immagine si fa incandescente nella sua distaccata freddezza. Sodezza, volumetria e scabrezza espressiva riflettono dolorose piaghe dell’animo. Il verso, dal lessico sovente prezioso e insueto, ha sapore di iscrizione sepolcrale, Nessuna linea a guidare, ad alludere a una sia pur approssimativa mappa di un cimitero che divenga emblema di tutti i cimiteri: dove le “urne confortate di pianto” svettino nella loro scenografia lamentevolmente petrarchesca: qui c’è una parola minerale, un’immagine insieme nota e misteriosa strappata alla cenere delle esistenze per farla rilucere nel suo timbro e nella sua forma.
“Il sambuco non sa / il croco è già fiore / nostri occhi volati / in violati ossarî di madri // Col tempo tu albore, / sta a te ancora, a nessuno.” La cadenza, spesso monotona, scopre l’insistere e il persistere di un sentimento in sostanza ascensionale, benché spesso stornato, nel crepitìo del “falò” delle metafore, da un pudore che non riesce sempre a prevalere, tanto intuitivo e condivisibilmente afflitto è il groviglio dei sentimenti e dei sensi che, sia pure nella sostanziale ossificazione della tessitura poematica, del ductus oracolare ed evocativo, deflagrano in quasi lussureggianti sequenze, in paradossalmente barocchi prosciugamenti, taglienti e implacabili come certe fioriture figurali negli ‘impronunciabili’ versi di Celan.
Qui non c’è il barthesiano “piacere del testo”, ma il dolore del testo. Limpidamente oscuro (“Il sole rotola su me/ e io bevo luce,/ a testa in giù/ segreto pulviscolo.// Non da così lontano, da così”): bubbone nell’iter ossessivo del poeta – che sembra volercisi sempre più sprofondare per assaporarne l’intimo incomunicabile e straziante dolore, privatissimo e ‘sacro’ – e che spetterà al lettore far scoppiare a sua volta per verificare la vertiginosa fossa, la verticalità della morte della madre del poeta e di tutte le madri. A sua, e a loro gloria.
Ludovico Parenti
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lunedì 25 aprile 2011
TRE DOMANDE A PAOLO RUFFILLI
Perché un poeta essenziale, melodioso, dalla cantabilità mozartiana, come te si occupa di uno scrittore per più risvolti ponderoso, greve e talora enfatico come Nievo, e in generale della letteratura garibaldina, tanto spesso retorica e stereotipata?
R-Perché Nievo è uno scrittore denso, stratificato, profondo e, nello stesso tempo, limpido, lineare (nei romanzi non è mai enfatico). Perché Nievo pratica consapevolmente il romanzo-saggio, unica vera possibilità per la narrativa moderna. Perché, come gli altri scrittori garibaldini, è stato costretto dalle scelte ideali all’aria aperta, all’incrocio dei linguaggi (l’Italia paese di molte culture e di molte lingue), all’antipurismo, all’uso dei cinque sensi in letteratura, ecc. ecc. Ma le mie fonti sono sempre molto più ampie, anche in questo caso particolare, dal Gattopardo a Guerra e Pace ai Demoni…
Uno dei tuoi punti di riferimento, come poeta, è certamente Sereni, che fuse con tanta efficacia lirismo e narrazione. Quanto c’è di poetico nella tua narrativa, e quanto di narrativo nella tua poesia?
R-Trasferisco le tonalità della poesia nelle modalità della narrativa. Anche raccontando, nella misura breve o lunga, per me trainante è la musica. Mi lascio trascinare dal ritmo. La mia “prosa” è poesia…
Il problema dell’identità linguistica e letteraria italiana è sempre vivo, a maggior ragione nell’odierno contesto, tanto spesso cerimonioso e roboante, delle celebrazioni dell’unità. Cosa significa, per te, essere un poeta e uno scrittore italiano, nell’odierno mondo postmoderno e globalizzato, che sembra aver fagocitato, confuso e annullato tutte le identità? Che senso può ancora avere, in quest’ottica, una letteratura tanto lontana dal nostro gusto e dalla nostra sensibilità come quella garibaldina? Avevano forse ragione i simbolisti a dire che la letteratura italiana sarà davvero tale proprio in quanto saprà essere europea, perché l’Italia stessa, pur con il suo cronico e proverbiale ritardo culturale, rispecchia a suo modo i tratti e i valori di una identità europea, se non universale? Del resto, anche il risorgimento italiano si collocava nell’alveo della “primavera dei popoli”, dello spirito quarantottesco, che abbracciava tutta l’Europa. E quali implicazioni può avere tutto ciò sul piano politico odierno, vista l’innegabile “anomalia italiana”?
R-Per uno come me, per il quale tutto è simbolo (si dice una cosa per intenderne un’altra), la letteratura garibaldina ha costituito un “correttivo” in presa diretta, poi rimeditata e universalizzata (le stesure prime dei garibaldini vengono poi riprese e riscritte infinite volte –proprio come faccio io per le mie cose-). Io faccio riferimento anche ai miei “luoghi” e “tempi”, culturali e storici, proprio perché tendo a traslitterare nell’universale. Scrivo “favole”, sempre, in versi e in prosa. E lo faccio da italiano che viene fuori da una dinamica intellettuale che passa attraverso ideali e utopie di unificazione culturale e linguistica, di ricerca di radici per non averne o per non esserne comunque condizionato. Indipendentemente dalle nostre anomalie attuali (politiche, culturali, sociali).
Elisabetta Brizio, "'L’isola e il sogno' di Paolo Ruffilli"

L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli
L’immaginazione del sogno, la falsariga del ricordo, la trazione della memoria, il “galleggiamento” come sola condizione che ci è data, il riflettersi nel mutevole specchio di acque, l’eros come definizione di sé: alcuni titoli possibili per una lettura, inevitabilmente parzialissima, del recente romanzo di Paolo Ruffilli, L’isola e il sogno (Fazi 2011). Un’opera altamente complessa che eccede sia dal canone del romanzo storico che da quello della biografia (quest’ultimo, peraltro, già visitato dall’autore in Vita di Ippolito Nievo, del 1991) e che ci dà un problematico resoconto (scandito in tre lunghissimi capitoli: «In mare, sulla nave in rotta verso l’isola», «Tra le braccia della città felice», «Di nuovo in mare, verso l’ignoto») del viaggio estremo di Ippolito Nievo, un resoconto che si snoda tra le frequentissime escursioni temporali di una narrazione in cui, scrive l’autore nella nota editoriale, «tutto è rigorosamente autentico, tutto è rigorosamente immaginato».
Fermiamoci un attimo qui, sulla reciproca implicazione dei termini “vero” e “immaginato” e sulle facoltà e le funzioni dell’immaginazione: asserire che qualcosa è autentico in quanto immaginato non è antinomico se ci rimettiamo alla nozione ruffilliana di immaginazione, la quale, come è stato detto e riaffermato dalla critica, è al servizio di un pensiero che superi la sembianza ingannatrice della realtà. Ora, per Ruffilli la vera realtà è quella immaginata, quella al di là del visibile – dal quale si faccia preliminarmente astrazione per cogliere e restituire, osservava Pier Vincenzo Mengaldo, «le essenze e i destini dei fenomeni» –, perché ciò che chiamiamo “realtà” non è che un equivoco dei sensi, una nostra alterazione, essendo essa intrinsecamente opaca e inscrutabile nella sua ermeticità alla ragione. Reali, e come tali abilitate a partecipare dell’arte, sono le connessioni del pensiero. In questa misura anche scrivere equivale ad attraversare ogni presunta evidenza per tramite dell’immaginazione, un allontanarsi dalla realtà pur restando realistiche le ragioni di ogni espressione scritturale. Ruffilli, poeta (penso soprattutto a La gioia e il lutto e a Le stanze del cielo) o romanziere che sia, arriva – notava Alfredo Giuliani – «a calarsi nella soggettività degli altri», ed è esattamente quello che avviene in L’isola e il sogno, dove l’immaginazione, per usare una lontana formulazione ruffilliana, è «l’unica via per saperne di più».
La facoltà ruffilliana di imaginatio è metafisicamente fondata e nondimeno immersa nella corposità delle sensazioni e delle percezioni. Essa è attitudine a immaginare alla stessa stregua di Einstein, in tendenza dunque tutt’altro che campata in aria e priva di fondamenti e di appigli nel mondo reale, avendo il coefficiente fantastico che restituisce all’evidenza intimamente a che fare con il fondale dalle insospettabili stratificazioni e sovrammissioni nel quale egli sta fattivamente scandagliando. Attraverso la relatività einsteiniana e l’indeterminazione di Heisenberg, Ruffilli immagina in una intersezione, in un equilibrio attimale tra inconscio e stato cosciente. Le parole, e con esse le sensazioni e le reminiscenze da esse veicolate, si muovono, fluttuano, reagiscono le une con le altre, si attraggono e si respingono come elettroni nello spazio probabilistico dell’orbitale. Ma al caos avanguardistico, al colpo vitale di una sfrenata e azzardosa sperimentazione, si sostituiscono, insieme a priori e a posteriori, fin dal momento della concezione e insieme in quello della resa e della rielaborazione sulla pagina, una razionalità cristallina e mai cristallizzata, quasi settecentesca, una musica lievissima e calcolata senza essere leziosa. Niente di più lontano dalla fantasticheria e dalla immaginosità gratuite e svincolate.
Se la poetica dell’immaginazione vale per la poesia, è altrettanto pertinente se riferita al romanzo, perché per Ruffilli la forma narrativa non differisce da quella poetica se non per una disposizione addizionante verso una più espansa diffusione spaziale. In L’isola e il sogno l’immaginazione opera lungo due versanti che tendono a incrociarsi: quello dell’autore, il quale immagina la vita interiore di Ippolito, quella che non è documentata, e quello del protagonista che si fa sismografo delle proprie emozioni alla ricerca di un nesso tra sogno e passato.
L’assunzione della forma del romanzo storico e di una estetica del vero come vesti esterne costituisce il tratto più vistoso del libro, novel dunque più che romance, eminentemente romanzo psicologico, pur nella consistenza della fabula, in virtù della incessante analisi che insegue l’ondivagare del protagonista verso l’autocoscienza, là dove anima e destino paiono situarsi in rapporto paritario. Se infatti l’autore indugia prevalentemente sulla definizione – rapsodica, e con acrobatici scarti temporali, nondimeno diluiti nella interazione tra presente e presentificazioni, ovvero tra il fluire della narrazione e le incarnazioni simboliche che la popolano – della scissura dell’anima di Ippolito, è la fatalità che nell’epilogo svolge la sua funzione inappellabile. Quasi manzonianamente, perlomeno con riferimento a un Manzoni anteriore al Discorso del romanzo storico, la trama oscilla in una connivenza di storia e di invenzione, attraverso la combinazione dell’obiettività dei fatti e del coefficiente di umanità che dal di dentro ne illumina le determinazioni.
Ruffilli opera una mise en abîme del livello psicologico, una integrazione delle omissioni della storia senza separarsi dal vero. Sotto questo profilo, ancora manzonianamente, Ruffilli raggiunge il suo intento di riabilitare la parte dispersa della storia. Ma lo fa a prescindere da intenzioni valutative, evitando di prevaricare i moti del protagonista: semmai, non esita a oggettivarsi, immaginando, nelle descrizioni paesaggistiche, che non di rado costituiscono drastiche spezzature del racconto, sezioni contrappuntistiche dello sguardo e del rimemorare – nelle loro vibrazioni cromatiche e luministiche, là dove la luce come onda, e inoltre come campo di energia corpuscolare che favorisce la rêverie del pensiero e della visione, diviene vibrazione luminosa del pensiero – di condizioni vaghe, di incerte caratterizzazioni sentimentali, o discriminanti il passaggio dal fatto esterno e periferico a quello intermittente, profondo e inconfessato, della coscienza di Ippolito, l’unica figura alla quale Ruffilli sembrerebbe estendere, se così è possibile dire, il metodo manzoniano del riempimento psicologico dei fatti. Un paesaggismo, tra geografia e geroglifico, massimamente evocativo e dislocato nei tratti dei luoghi dell’odissea nieviana, assunto sì, come equivalente interiore, ma soprattutto quale fondale che emette segni da decriptare ed evoca lineamenti e screziature di un passato distrattamente vissuto, che l’io ignora benché a lui intimamente familiari. Ippolito si interroga sui paesaggi fin dalle pagine d’esordio: «Perché mai gli piaceva vegliare le ore cristalline dell’alba?». Forse, si domanda ancora, «per il sorriso che gli sembrava aleggiasse come un resto di gioia perduta o solo scordata nella notte del tempo?».
Il rientro di Ippolito Nievo in Sicilia per una missione speciale da svolgere presso l’Intendenza di Palermo viene differito, rallentato attraverso una analessi che misconosce vincoli temporali, in una cronologia tuttavia mai abolita nel procedimento narrativo dove l’accaduto è comunque temporalizzabile e non compromesso in una configurazione incantatoria. Il ritorno a Palermo è ritmato dal libero scorrimento della memoria di esperienze sedimentate, di considerazioni retrospettive del protagonista appoggiato alla balaustra della nave in un interludio dove le tonalità del paesaggio e il trascorrere sull’elemento liquido – superficie speculare e variabile che promuove il diffrangersi dei punti di vista – inducono una risemantizzazione di rimemorazioni disparate. Per rimanere in area ruffilliana, lo specchio, già protagonista di una foto in versi di Camera oscura, sembra talora possedere facoltà disvelatrici, mentre, per contro, se lascia balenare una traccia, una scia vagamente rivelatoria, essa è solo segno di quello che resta a certificare una condizione estinta, o che permane dell’esistenza comunque trascorsa. E perlopiù è indizio di qualcosa di asintotico come il senso della vita, in una poesia, quella di Ruffilli, tutt’altro che dell’assenza. Allora, ciò che lo specchio riflette non può che configurare solo sé stesso, vale a dire ciò che è anteriore a ogni prospettiva illusoria o allegorica, congetturante o valutativa. Come dire: così è il presente, così stanno le cose.
Lo status del protagonista di questa storia è, come detto dall’autore, «un galleggiamento», una fluttuazione, una emersione, un lasciarsi andare al trascinamento del ricordo. Trascorrono e si perdono nella mente di Nievo evocazioni del suo primo soggiorno palermitano, vengono annoverati gli amori compiacenti e prevedibili nella irremissibile condizione inerziale della realtà isolana e nella sua tangibile e indolente voluttà, si commisurano al vivido ricordo della bellezza sensualmente pallida e quieta, quasi verginale, della lontana, malinconica (anche perché minata dalla tisi) e ombrosa Bice, con la quale condivide una intensa – peraltro non segretissima – affinità spirituale che si traduce in congiungimento platonico, e nella localizzazione del flash-back scopre nella donna una somiglianza con sua madre: forse, dice Ippolito, è questa la ragione profonda che lo ha spinto verso di lei. Del resto, confermerà qualche tempo dopo a Palmira, «è un modo di prolungare la nostra infanzia quello che chiamiamo amore». Ed è la stessa ragione che da Bice tiene prudentemente lontane pulsioni che risulterebbero incestuose. Ma Bice aveva un’altra vita. Ora egli è un eroe garibaldino costretto ad assistere alla ambigua doppiezza delle manovre dei politicanti di una città che ha appena assistito alla successione del governo sabaudo all’amministrazione rivoluzionaria: questa è l’inquadratura storica di una Palermo che tuttavia non è solo la città dell’inganno e della corruzione. Essa – scriveva Alexandre Dumas nelle sue Impressions de Voyage, una delle fonti di Ruffilli – è la città del mondo più in grado di adunare e alchemicamente coniugare le proprietà e gli attributi della felicità. Città incantata, intrisa di Zauber, di magia, e con forte tendenza a sciroccare.
La chiave di lettura del libro è sintetizzata nella saldatura delle parole del titolo – in parte irrelate con l’immagine di copertina, che raffigura un giovane garibaldino in divisa: l’“isola” e il “sogno”, giacché il sogno sembrerebbe inverarsi (in tutta la precarietà, come si vedrà, del suo inveramento) nell’isola, realtà vacillante e labile per definizione. Tuttavia, il sogno si declina variamente in Ruffilli. Non ha più di tanto a che fare con le rappresentazioni inconsce espresse in termini non razionali, con una materia sognata, pregnante e simbolica, da interpretare, né con l’idea di una evasione verso universi fittizi. Sogno è condizione appagante da sembrare infattibile (tale sarà il rapporto con Palmira), è inoltre qualcosa cui propendiamo, qualcosa che fortemente si persegue. In particolare, è l’accesso privilegiato al farsi altro dell’apparenza. Ippolito soprammette ricordi, sogna il proprio passato, esibisce il decorso dello stream della propria coscienza perché sa che ciò che è passato è esperienza stratificata, concrezione di frazioni incancellabili di noi.
Seppure nel diffuso intrattenimento sulla ricognizione anche geografica delle varie fasi della vita del protagonista, la tecnica narrativa di Ruffilli appare una progressione volta alla eliminazione del superfluo, nel senso che i grandi ideali risorgimentali e il loro scadimento nel declassamento morale dei politicanti e dei malavitosi sembrano alla fine sfumare alla stregua di diversioni e farsi vaghi rispetto al preponderare del tema, centrale, percettivamente più invadente, del fatto passionale, il quale, per riduzione, si riversa e si circoscrive alle due figure, antitetiche e complementari, di Bice e di Palmira, entrambe altrimenti inafferrabili. Degnissimi di attenzione e ben documentati, gli inserti dietro le quinte delle manovre politiche preunitarie paiono assumere minore rilevanza soprattutto nei confronti della delineazione della scissura che mina l’esistenza del protagonista – e l’illuminante colloquio con la madre ne sottolinea la natura profonda piuttosto che le inadempienze e l’irrealizzazione: «Non ci si può impedire già in partenza una continuazione. Le tue speranze sono simili a rimpianti», dice al figlio.
Con la magnetica Palmira l’educazione sentimentale di Ippolito progredisce promuovendo l’affrancamento dal dilettantismo erotico e da quel senso di estraneità che ineriva la dimensione che egli aveva definito – in termini di una indefinibile ossessione – «fisiologica» del fatto sentimentale, condizione deficitaria che in lui aveva finora ostacolato ogni possibilità di trasformazione interiore. L’eros ci dice ciò che siamo, ciò che è a noi connaturato, e in quanto tale condiziona il nostro agire. Ippolito è succube di una sfasatura che lo ossessiona. Viceversa, Palmira è dispensatrice di sicurezza, di pienezza, è figura solare, esige da lui l’amore nella seduttività diurna del mattino, nel «trionfo del risveglio» preferibile all’«anticamera del sonno». Finora lo stato amoroso era stato vissuto da Ippolito ogni volta unilateralmente, nello slegamento dell’energia pulsionale dalla sfera spirituale, due elementi che mai aveva esperito riunificati in un unico essere. Intravede nell’incondizionato rapporto con Palmira, e nell’affastellato contesto dell’isola, questa eventualità: esiste dunque la possibilità del sogno, della felicità della compiutezza, vale a dire di una agglutinazione dei due ambiti, sembrerebbe chiedersi l’autore?
Rispetto a Un’altra vita, L’isola e il sogno è un romanzo e non una successione di racconti, benché geometricamente inquadrati entro una cornice e argomentanti sullo stesso tema dell’insoddisfazione e della ricerca d’altro, strutturati come una polifonia che nebularmente si effonde e al contempo ripiega nella rigorosa veste strutturale del libro – la forma chiusa cara a Ruffilli. In Un’altra vita veniva lasciato un margine di possibilità al mutamento, a un nuovo orientamento da destinare alle esperienze sentimentali dei protagonisti delle sue storie. Qui Ruffilli immaginava l’indole dei tanti lui e delle tante lei attraverso il loro modo di commisurarsi all’eros in un lirico inventario di gradazioni dell’amore, intrinsecamente ineguale in ciascuno e ogni volta occasione della riemersione e della riconsiderazione del rimosso. Mai oggetto di piena felicità, benché talora essa fosse momentaneamente adombrata, ovvero, montalianamente, cioè a dire labilissimamente, raggiunta nella dialettica intimità-estraneità che si istituisce con l’altro. Ma una vita senza amore è asfittica e schiava, seppure l’amore possa diventare ragione di infelicità. La prosa a tratti ritmata, allitterata, assonanzata e poetica dei racconti, che molto ricalca le cadenze della versificazione ruffilliana, diviene estremamente fluida nel romanzo. E nel romanzo non sembra darsi la possibilità di un’altra vita per l’acquisita cognizione dell’insussistenza di una alterità ideale, che risponda alle nostre aspirazioni, circostanza che finisce per dar luogo a uno sdoppiamento: le caratteristiche dell’altro, assunto come idealizzata icona mentale, vengono riversate, e separatamente sperimentate, su due figure totalmente differenti. Ippolito mostra di patire l’inattitudine a «stringere il sogno dentro il cerchio della perfezione. Ecco il punto. Perché tutto, calato dentro la realtà, diventava fragile e veniva insidiato dal precario». Un difetto di immaginazione, nel senso ruffilliano del termine.
Alla precarietà in amore (nella prospettiva della diade isola-sogno) si connette trasversalmente la condizione così detta insulare: una realtà che posa sulla volubilità, a parte dal mondo, con le sue contaminazioni e stratificazioni di razze, fedi, tradizioni e abitudini incorporate nel corso dei secoli, crocevia infinito di segni o segnali di cose accadute, benché l’instabilità estrema della dimensione insulare non avesse impedito la formazione di una realtà autonoma con le sue altrove irripetibili peculiarità, affermava anche Dumas. Isola è vaticinio e prossimità alla sparizione, e inoltre allegorizzazione dell’instabilità come emblema di pertinenza umana. La permanenza nella straniante realtà isolana è una condizione essa stessa provvisoria, si illudeva il protagonista, come non potrebbe che esserlo il rapporto assoluto con Palmira; una caducità, quella così delineata, che tuttavia innesca un desiderio di totalità e di perfezione, la cui realizzazione alla fine disorienta, perturba: «il potere destabilizzante dell’amore è pari solo a quello della fantasia», pensa tra sé Ippolito. Corrispettivo di questa dimensione è l’elemento immobilizzante proprio dell’isola, lo scirocco. Esso avvia la legittimazione dell’astensione dal fare, ingenera l’ottundimento della ragione e l’esaltazione dei sensi, l’impaludamento in una ambiguità in cui la vita cessa di scorrere. Un po’ alla maniera del sole di Arles di Van Gogh, trasferito con opulenza coloristica oltremodo straniante su tele arse dal sole e spezzate dal vento. Scirocco è atmosfera pesante e vischiosa che in forma di allegoria fa da controcanto al depensamento del protagonista, anch’egli altamente sciroccato. Nietzsche stesso per metafora invocava la tempesta come accentuazione delle differenze e come ingiunzione a un aut aut rispetto allo stagnare nell’indecidibilità dei venti del Sud.
Anche il libro di Nievo soggiace al destino di rimanere in sospeso. Ma l’arte, le enunciazioni estetiche, ovvero il romanzo incompiuto di Ippolito, nonché il suo tormento di intellettuale, sono aspetti non prioritari nel periodo che immediatamente precede l’unificazione dell’Italia, tempo in cui egli avverte un vincolo con la storia, una predestinazione verso obiettivi maggiormente incombenti rispetto al fatto estetico. Rifiutate dagli editori (i quali peraltro avevano catalogato il romanzo tra le memorie dei combattenti e reduci) nella misura in cui la mescolanza dei generi veniva recepita come un’effrazione, una opzione trasgressiva (mentre per Ruffilli la contaminazione dei generi costituisce il canone ideale), quello delle Confessioni da portare a termine è un pensiero che assilla l’autore, ma non al punto di vivere drammaticamente questa incompiutezza. Tanto più che nelle intenzioni nieviane l’opera avrebbe dovuto essere la trascrizione di un’esperienza più vasta, redatta non dall’artista da giovane, ma giunto alle soglie del compimento della vita, da «un uomo che prende coscienza di essere quello che è in virtù di quello che è già stato e anche di quello che sono stati altri prima di lui». Circostanza che sarà interdetta a Nievo dall’imprevedibilità di un destino che ha inciso tanto sul raggiungimento di una meta pulsionale assoluta, e non scissa nella bipolarità dei due ambiti della sessualità e della spiritualità, che sulla realizzazione della sua opera, fatalmente affidata alla condizione postuma. Opera che peraltro – come si ricava dall’incipit di Anna Karenina – ispirò Tolstoj, ugualmente incline a una narrazione che si sciolga e si snodi, nel suo divenire, con lo stesso ritmo fluido e naturale, quasi di stagioni e respiri, che scandisce e contrassegna l’esistenza di ciascuno nelle sue – direbbe Svevo – crisi e lisi, nelle sue gioie e nei suoi desideri, nei suoi incontri illuminanti e nei suoi abbandoni.
Come non si dà la possibilità di un’altra vita, così non si dà una seconda occasione per sfuggire alla morte per acqua di eliotiana memoria. Ippolito (e Ruffilli stesso, scampato a una morte per acqua e uscito da una esperienza pre-morte con la sensazione di qualcosa di beatificante, senza desiderare il ritorno alla vita), in uno stato tra l’ipnotico e il cosciente, aveva sperimentato «un senso pieno di qualcosa che lo stava riportando a se stesso». Una morte, quella del trentenne Nievo, che sembra essere indissolubilmente legata alla recente esperienza amorosa con Palmira, alla vaghezza di un annullamento, come nell’amore lasciato qualche ora prima nell’isola.
L’inabissamento dell’Ercole è un fatto storico, ma veicola qualcosa di paradigmatico. L’Ippolito ritornante nella penisola (cioè una quasi-isola, dunque di una stabilità relativissima, anch’essa prospettiva incerta) sceglie l’Ercole anziché il più affidabile Elettrico spinto dalla deliberata volontà di lasciare l’isola il prima possibile. Volere di volere, o desiderare di volere, comunque una autoimposizione, alla maniera in cui Ulisse induce i suoi compagni a farsi legare all’albero maestro della nave per non consentire alla seduzione del canto delle sirene. Perché a questa realtà magica e incoerente egli ha vincolato e fissato l’agnizione per lui più insospettata e inquietante, che aveva avuto a Verona (città rievocata in una delle più significative ricordanze del libro): quella «della natura contraddittoria dell’affettività… del suo risolversi nella duplicità di istinto e di ansia di purezza». Mentre si allontana dall’isola vive una dissociazione tra desideri e visioni incongruenti, ormai consapevole della difficoltà a comporre la sfasatura tra le ragioni profonde delle proprie pulsioni e la realizzazione delle stesse. La figura di Palmira – inafferrabile come lo è il suo passato – costituisce l’immagine della irrealizzabilità del sogno della transazione, ovvero, del segreto timore per la sua realizzabilità.
Nell’imminenza del naufragio (emblematicamente, Ippolito naufraga alla vigilia dell’unificazione), proletticamente alluso da considerazioni sul senso di sospensione della vita nell’elemento liquido solcato dalla nave del ritorno, il protagonista trapassa dolcemente dopo aver fatta esperienza dell’amore pieno – assoluto e insieme destabilizzante –, qualcosa di ulteriore rispetto alla a lungo esperita debolezza dell’invaghimento proprio della gradazione fisiologica, una totalità di voluttà, sofferenza e pensiero, impensabile oltreché impraticabile con la spiritualissima Bice. Il racconto dell’inabissamento dell’Ercole chiude il cerchio – come ha sottolineato lo stesso Ruffilli – e ci riporta all’inizio, nel punto in cui aveva avuto luogo quel differimento dell’evento nel lungo esordio del libro, al «galleggiamento» nel mobile specchio di acque e nei ricordi dove il protagonista, anch’egli immaginando, cercava di saldare l’evocazione all’esperienza. Perché se la struttura del racconto per certi aspetti è dualistica, attraverso il suo dinamismo espansivo, insieme al puntuale, ritmico, interagire di storia e di immaginazione, esso tende a riallinearsi per rientare nella categoria della concordia oppositorum (qui allusa dal nesso indissolubile della diade amore-morte).
Perché si percepisce quasi un presagio di beatitudine, una sensazione di qualcosa oltre la vita nelle righe conclusive del libro? Nella dilatazione dell’istante Ippolito vede scorrere la propria vita e ne avverte il senso compiuto. «Tutto parte già di un’altra vita tenuta e superata senza averla persa. (…). Non avvertiva più il suo corpo, come se fosse ormai solo coscienza. C’era qualcosa che intravedeva: figure e forme note, eppure un mondo sconosciuto che lo attirava facendo concorrenza a tutto quello che si lasciava dietro. E vi si abbandonò, tranquillo». Mondo, sopravvivenza, o «un’altra vita» (nell’essenza ambivalente della formula ruffilliana), o ancora, come detto nel titolo dell’ultimo capitolo, «verso l’ignoto»: indicazioni che paiono conservare tutto il senso dell’aldiqua piuttosto che risolversi in un intenzionare verso il perdurare oltre l’esistenza terrena. Semmai, lo scarto dalla finitudine è possibile in virtù dell’arte, in chi, come in questo caso Ruffilli, si mostra nuovamente atto a riceverne il gesto di significazione, senza per questo delegare all’esperienza estetica il ruolo risolutore della questione esistenziale, ruolo che per lui resta di pertinenza dell’esperienza vissuta, le cui acquisizioni nel tempo hanno indotto a ribaltare quasi le sue priorità tanto di scrittore che di uomo, fino al segno, come ha recentemente dichiarato, di trascendere ogni tentativo di orizzontarsi, e «accettare di vivere senza la pretesa di capire».
Senza forzare eccessivamente i termini, sembra legittimo inquadrare questo romanzo nel “canone” del postmoderno nella accezione che in una illuminante Bustina del 1999 ne dava Umberto Eco relativamente all’arte e alla letteratura, reattive entrambe all’estremizzarsi di una modernità disseminativa e talora distruttiva nei confronti del passato. Questo in virtù della misura in cui la narrativa di Ruffilli si distende nella logica delle idee, coniugando, in una sintesi impervia, storia e mito, referenza e invenzione, e rivisitando il passato, per dirla con Eco, «con gusto e passione, con ironia certo, ma anche con gioia e grande affetto».
Elisabetta Brizio