E' per me un onore poter ripubblicare questa intervista a Jean Soldini, poeta e filosofo svizzero formatosi all'all'Université de Paris-VIII: poeta-filosofo, poeta pensatore, poeta pensante e pensatore poetante, nel senso più pieno, heideggeriano della parola: uomo che abita la casa dell'Essere, che "poeticamente abita" il mondo.
Talora i poeti, fuori dai versi, non dicono nulla, le loro filosofie (ovvero le loro visioni del mondo, dunque in definitiva le loro poetiche, giacché Poesia, e coscienza della poesia nel suo essere poesia, è Mondo e Pensiero riflessi nella Parola, nel Logos) sono pretestuose, fumose, inconsistenti.
Invece, Soldini dice (ad esempio sullo spazio che torna allo spazio, non nel senso autoreferenziale e illusorio del non-luogo, e nemmeno in quello, pur fondamentale per la modernità letteraria, del mallarmaeno "Rien n'aura eu lieu que le Lieu", lo Spazio assoluto del Testo, ma al contrario nella direzione di uno scambio e di un dialogo - e sulla fictio non come astrazione, evasione, narcosi, ma come concreto ed operativo dar-forma-all'informe, significato al caos) cose essenziali, originali, da vero poeta-pensatore.
E si ha, infine, la malinconica sensazione che la stampa elvetica dia alla cultura uno spazio che in Italia le è da decenni precluso. (M. V.)
Dallo spazio allo spazio
A colloquio con Jean Soldini, autore del libro di poesie Bivacchi (intervista di Paola Pettinati in “La Regione Ticino”, 23 marzo 2010).
Uno sguardo alle vittime della guerra, ai dimenticati, agli oppressi, ai diseredati. È quello che Jean Soldini rivolge nel suo ultimo libro di poesie Bivacchi pubblicato recentemente dalle Edizioni Ulivo di Balerna. Il volume contiene anche alcune illustrazioni realizzate da studenti del CSIA: Enea Arienti, Yanica Gisler, Tanja Jovanovitch, Rachele Monti, Bianca Sassi, Amanda Stöckli, Valentina Vitali. Come mai un pensiero alla guerra? «Bivacchi – spiega Jean Soldini – è un libro, almeno in parte, influenzato dall’invasione dell’Iraq e dal secondo mandato di George W. Bush a partire dal 2004. È stato un periodo che ha provocato in me una tristezza sorda e persistente. È ciò che si esprime per esempio con Imperi, La vedi ora, Fuori dell’accampamento, Ombrellone, Neppure un merlo».
Che visione della storia emerge? «Mi riconosco molto in questa affermazione di Elisabeth Costello, la scrittrice uscita dalla penna di J. M. Coetzee e protagonista dell’omonimo romanzo. Lei afferma a un certo punto che il futuro è solo nella mente e non ha una sua realtà. Lo stesso rimprovero potrebbe essere mosso al passato, ma aggiunge che “c’è qualcosa di miracoloso che il passato ha e che manca al futuro. Quello che è miracoloso del passato è che siamo riusciti – Dio sa come – a far sì che migliaia e milioni di finzioni personali, finzioni create dai singoli esseri umani, si incastrassero l’una nell’altra fino a darci quello che sembra un passato comune, una storia condivisa”. Finzioni. Il verbo latino fingere indica ‘modellare’, ‘dare forma’. Penso che positive siano le storie, vale a dire quanto formiamo con l’esistente. Poi c’è la Storia che è la moltitudine di storie assorbite dalla violenza del più forte, dalla prepotenza che precipita subito ogni cosa nella più radicale insensatezza. Ho però fiducia nel singolo uomo e anche nelle cose. Fiducia, speranza «senza incauti incantamenti» come nella poesia che parla del monumento di Peter Eisenman alla memoria delle vittime della Shoah. Ho fiducia nel fatto che siamo tutti meticci (Dallo spazio allo spazio). In alcuni lo si vede di più. Sono i sopravvissuti alla violenza e al razzismo, hanno imparato quello che può servire per vivere, per sopravvivere. Lo hanno imparato con una sapienza immediata. Meticci, perseguitati, profughi umiliati infinite volte in un giorno tornano dallo spazio allo spazio, si spostano, sono costretti a farlo. Dallo spazio tornano allo spazio perché c’è un solo spazio. Tanti luoghi, ma un solo spazio. Lo spazio accarezza la ferocia, non la placa. Non contiene, ma accarezza. A contenere sono le nazioni, i luoghi resi inospitali, che sono generati da chi dice: più di questo non può essere contenuto. Gli altri sono troppi».
Quali altri temi e scenari sono presenti in Bivacchi? «In questa raccolta c’è anche la follia improvvisa, quella che è sempre in agguato alle spalle di ognuno di noi (Un angelo), la marginalità (Un quarto d’ora fa), la spiritualità ipocrita col suo mito dell’interiorità (Non distrarsi, Sarebbe stato meglio). C’è pure un’altra America come in Tronchi dedicata a Ansel Adams, un fotografo di paesaggi statunitense, come in Casa nel Queens o in quella poesia che parla di un artigiano di Bowery che è una via e un distretto di New York».
Diceva del mito dell’interiorità. «Sì. Trovo deprimente l’interesse per il nostro piccolo “mondo interiore”, mentre ciò che è altro da noi è molto più affascinante e arricchente perché ci obbliga continuamente a esporci. L’altro ci offre un orizzonte che può essere pura apertura, libertà e non «meta al pensiero che si accinge a pensare» (sono gli ultimi versi della poesia Orizzonte). È quanto si esprime anche ne La riga gialla che ha come sfondo una fila alla cassa di un supermercato».
Come si pone la parola in rapporto alla poesia? «La parola è tentata dal possesso implicito nel nominare. Le parole danno un nome e nel contempo chiamano; e se è vero che chiamano, allora qualcosa in esse deve rispondere. Noi nella parola dobbiamo cercare di ascoltare ciò che in essa risponde. Nel De Magistro di Sant’Agostino c’è un dialogo sulla preghiera. Nella preghiera parliamo e nello stesso tempo questo parlare è ascoltare Dio, ricordarsi di lui. La parola, se badiamo a questa indicazione, dovrebbe essere preghiera in senso laico, dovrebbe portarci ad ascoltare la risposta dell’esistente, a ricordarci di quest’ultimo. La parola la vedo come una cosa che dice cose e che vive sempre in un’oscillazione tra incantamento positivo e incantamento negativo. Nella poesia questo diventa fortissimo. La poesia è sempre sul crinale tra mitezza e arroganza della parola. Crea apparizioni di realtà attraverso il miracolo di una parola che s’impone col suo fascino, ma si deve anche ritirare».
La parola si ritira? «La poesia desidera dire, ma desidera anche quella fodera del dire che è il tacere perché solo quest’ultimo può lasciar posto al farsi vivo dell’esistente nella parola stessa. Tacere per sentire una voce che non sia solo la nostra. E per questo è importante che ci sia sempre la singolarità col suo corpo nel corpo della parola. Non so se la mia poesia ha una qualche universalità. Sta di fatto che non può esserci universalità se non affondando nella singolarità. Il vetro rotto di cui parlo in Nel foro lucente è quel singolo vetro. Come dice il drammaturgo e regista Marco Baliani, “La parola albero è una forma che contiene tutti gli alberi del mondo. Il lavoro in tutti questi anni è stato cercare sempre quell’albero lì, particolare e unico, quello di cui fare l’esperienza in un bosco, su un marciapiede, dentro un giardino”. Forse è per questo che, come diceva Vladimir Nabokov (era anche stato esperto di lepidotteri e ricercatore al Museo di Zoologia comparata dell’Università di Harvard), in un’opera d’arte avviene “una fusione tra la precisione della poesia e l’ebbrezza della scienza”. Affermava anche il contrario. Erano affermazioni ambivalenti per lui. Penso si possa dire che ci vogliono precisione ed ebbrezza insieme. Ci vuole la precisione che onori la singolarità contro la genericità e ci vuole l’ebbrezza che la salvi dalla noia della genericità. Ebbrezza e precisione per raggiungere quell’albero o quel vetro in mezzo al pullulare di ciò che esiste».
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giovedì 28 luglio 2011
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