venerdì 10 giugno 2011

Elisabetta Brizio - “E non è ancora finita…”. Giovanni Lindo Ferretti, A Cuor Contento Tour







affiora al mio sguardo una volta ancora... l'aurora


È tra il tragico e la meraviglia
che muove l’esistenza degli uomini

FLG

Sono sorprendentemente diverse le generazioni che si ritrovano ad assistere a “A Cuor Contento Tour”, l’ultima performance che Giovanni Lindo Ferretti sta portando sui palcoscenici italiani. In varie città il cantore si è esibito e si sta esibendo insieme agli ex Üstmamò Ezio Bonicelli (al violino e alla chitarra acustica), e Luca Alfonso Rossi (alla chitarra elettrica e al basso), diluendo la propria vocalità con una sonorità accuratamente minimale e rifinita con il ricorso all’elettronica. Sull’austera sobrietas di uno sfondo spoglio, in vesti che vagamente evocano l’aria del montanaro, mani rigorosamente in tasca, in veste “a cuor contento” Ferretti sceglie di non proferir verbo fuori contesto, solo nei brevissimi interludi tra un brano e l’altro dispensa agli astanti un sorriso sereno.
Ferretti Lindo Giovanni torna dunque in pianura – ma non più come negli ultimi anni in qualità di voce pressoché esclusivamente narrante–recitante in spazi defilati – e si volge a un pubblico più vasto, riportando sulla scena la rivisitazione di un repertorio quasi trentennale e alternativamente trascorrente dal punk ortodosso ai suoni e ai testi occasionati dall’esperienza della conversione–ritorno alla fede e dalla sua riflessione sul tempo: sul passato, sull’ora e sul futuro che nel presente si percepisce; sul tempo proprio, liturgico, storico. Così avveniva in Reduce, la lirica autobiografia di Ferretti uscita nel 2006.
Nell’alchemica combinazione verbale di propri arcaismi e di designazioni più recenti Ferretti si riappropria dello spessore delle proprie parole sentite e pronunciate nel tempo (“campo di parole”, ha più volte dichiarato, e sappiamo di che pregnanza le sue parole siano fatte, e la musica stessa sembra talora volerle integrare, enfatizzare il loro senso e la loro scansione, rendendole più luminose) e ne pondera oggi la fondatezza referenziale. Scartate quelle non più nominabili e che ormai da anni si astiene dal pronunciare, egli sottopone trent’anni di risonanze verbali al vaglio del tempo attraverso un anacronico e ondivago attingere a testi dell’intera sua produzione, apportandovi minimi ma necessari emendamenti. E il riscontro risulta positivo: le ferrettiane espressioni delle origini paiono ancora assolvere alla loro funzione, seppure in una configurazione interiore, e magari anche estrinseca, profondamente mutata. Assumono nuova legittimità perché “diverso è il modo di intenderle”, precisava Ferretti nella nota intervista di Giorgio Tonelli. Dove tra le altre cose Tonelli ricordava come fatto non casuale che in questi ultimi tempi fossero uscite diverse biografie sull’artista (tra le quali: Matteo Remitti–Stefano Fiz Bottura, Giovanni Lindo Ferretti. Canzoni preghiere parole opere omissioni, Arcana Edizioni, Roma 2010; Luca Negri, Giovanni Lindo Ferretti. Partigiano dell’infinito da Togliatti a Benedetto XVI, Vallecchi, Firenze 2010).
Questi alcuni dei brani che sfilano nell’esemplare florilegio che Ferretti sta proponendo sui vari palcoscenici (ma la scaletta è variabile), brani la cui esecuzione vanifica lo iato inerente alla lontananza dei tempi della loro composizione: Depressione caspica (“la libertà una forma di disciplina / assomiglia all’ingenuità la saggezza”), Annarella (scritto per il padre che Ferretti mai conobbe, poi per una serie di circostanze il testo venne dedicato alla Annarella dei CCCP: un eterno ritorno dei medesimi suoni in riverberante costruzione verbale, una elegia circulata di perpetuazione malinconicamente e nostalgicamente introflessiva, Lebenspathos attenuato e tuttavia confidente in un avvenire di parche essenzialità, quasi incertamente prefigurate seppure emozionalmente reiterate), Narko’$ (superbamente rivisitata con il preponderare di logorate nomenclature e formazioni aggettivali per enumerazione intensiva, le quali per la scarsità di forme verbali non coinvolgono il tempo, dunque paradossalmente alludenti a un contesto non di perennità quanto di decadimento, di stagnazione: in scansione rapsodica si accumulano il disarmonico, l’immorale, l’inestetico “stupefacente” esistere), Radio Kabul, A tratti, Del mondo, Paxo de Jerusalem, Occidente, le spiritualissime e mai esibite live Cronaca d’inverno e Cronaca filiale tratte dal lavoro terminale dei PRG, Polvere, Barbaro (forse, il vero climax della performance, se si tiene conto della testamentaria postilla alla versione di Co.dex, con il quale Ferretti uscì da solista, preludio o terminus ad quem dei giorni del suo fertile isolamento), Unità di Produzione, Per me lo so. Ben lungi da ogni conformità filologica, questi e altri brani sono stati preliminarmente escoriati e indotti all’essenziale, e la voce di Ferretti nella sua elegiaca deriva oscilla tra l’evocazione e quel suo peculiarissimo ipnotico salmodiare in cadenza uniforme quale icona del persistere delle cose (vocalità che tende ad alzarsi di tono solo verso la fine delle varie performance). Come per Dante, sulla scorta della medioevale simbiosi di poesia, retorica e musica, il dire poetico è “fictio retorica musicaque poita”, così, analogamente Ferretti, indugia sulla durata reale e coscienziale del suo eloquio, facendone misura e respiro e nervatura profonda della sostanza musicale. “Non sono un poeta, non sono un musico ma per contingenze fortuite ed accadimenti privati campo di musica assemblando parole in forma di canzone. Necessitano di una musica che le stimoli, che le sostenga, le preveda, che sia limite riconosciuto ed apprezzato. Solo in questo limite possono esistere e, a volte, fiorire rigogliose. Non basta, sgorgate dal cuore e scampate al giudizio della mente devono fuoriuscire dalla mia gabbia toracica, riempirmi la bocca, impastate ai sedimenti fisici dei miei anni, traversandone malattie e cicatrici cumulate”, scrive Ferretti in Bella gente d’Appennino, edito nel 2009, inclusivo di significativi stralci già anticipati nel reading omonimo con Bonicelli al violino, e dove il racconto che affabula sulla trama della propria esperienza, rispetto alla indifferibilità di Reduce, sembrerebbe esser maggiormente prorogabile, e conseguentemente tende a farsi più disteso e meno ermetico il periodare.
In tempi paleoferrettiani, quando molti dei presenti all’ultimo tour (come del resto al penultimo, al terzultimo, al quartultimo) non erano neppure nati, i talora dissoni accordi delle ortodossie, vale a dire del punk filosovietico (ma non filorusso) del Ferretti dei CCCP, poi CSI, intenzionavano e interpretavano non tanto una questione privata, bensì l’autentico sperdimento giovanile per tramite di una mimesi musicale autoctona esplicativa del fatto motivazionale, di una reale visione del mondo che veniva altramente significata, non più ispirandosi agli allora in auge canoni anglo–americani. In controcorrente, i conflitti identitari della provincia emiliana venivano eletti a vestigio dell’accordo tra la provincia italiana e le avanguardie europee. L’individualità della realtà emiliana e il radicamento in essa già nei CCCP costituivano un nesso emblematico, poi in Ferretti chiarificatosi nel corso degli anni come divinazione dell’indissolubile legame con il proprio etimo. Ora, constatata un’invarianza ideale nel succedersi delle cose, “generazione su generazione”, e interiorizzati i percorsi, sedimentati e non estinti, di pulsioni, elevazioni, cedimenti e decondizionamenti (“tutto passa e tutto lascia traccia”), oltrepassata la fase della darkness, non resta che seguitare – ovvero, educarsi – a fruire “a cuor contento” della vita e delle sue acquisizioni progressive: “niente di eclatante a parte l’esistere”, leggevamo in Bella gente d’Appennino.
La risonanza dei tempi lenti, l’assoggettarsi al fluire delle stagioni, nonché l’insegnamento tratto dalla “bella gente d’Appennino”, sembrerebbero assumibili come prologo di “A Cuor contento Tour”. Contento di che? Del miracolo quotidiano non predefinibile né codificabile della vita soggiacente al mistero, del suo consistere nell’unicità di un “dono”, grazia e bellezza non ripetibili. Del fare esperienza dell’armonia delle cose senza tentarne una spiegazione razionale che tutto banalizzerebbe, assunto che la complessità del creato e le sue finalità non possano che superarci. In fin dei conti, anche a voler essere pervicaci o sottili, le circostanze quasi mai sono favorevoli, come ricorsivamente enunciato in Cronaca montana: allora, “bisogna quello che è. Bisogna il presente”. Affermazione la quale, se non implica alcuna svalutazione dell’umano, non esime comunque la vita dal canonizzare, con sole invocazione e lode, la propria veritas peremnis.

(E. B.)


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