sabato 26 settembre 2009

"L'inadempienza" di Gianfranco Franchi - recensione di Patrizia Garofalo

il dolore è una torre
di pietre
levigate dal ghiaccio.
Nelle segrete della torre
si nascondono i poeti.
Amiamo nutrirci di riflessi di luce (p. 37)

L’indicazione, come una strada, invita dove trovare la “voce”. In alto, nelle segrete di una torre, pietre levigate riflettono luce ma non consentono di scendere e allontanarsi dal male , semmai di precipitare per inabissarsi fino a tornare tra i vivi, per una “incoronata” morte fino all’alba, quando inizierà di nuovo, il tormento di sé.

“Insofferente gigante di carta e fantasia” (p. 85), Gianfranco Franchi scandaglia la sua fragilità e forza, nascita e morte in versi dove la dolorosa coscienza dell’insufficienza della parola è gridata, sofferta, dicotomica, spezzata davanti alla vita che mai potrebbe essere “adempienza”, pena la sua morte.

”dalla poesia corrotto/rovesciai l’innocenza e mi parve rinnovato/il canto degli antichi, la prosa dei presenti” (incisivo l’enjambement che vede insieme l’innocenza del poeta e il canto degli antichi, e colora di nostalgie un passato nel quale Gianfranco trova momentanea identità al suo essere “barbaro”).

Roma e Trieste si conciliano nello slancio che lo vede cercare, nell’annullamento dei confini, una patria ideale che è la parola poetica di cui si ciba e che scorre da sempre nelle sue vene; prima di una nuova e dolorosa coscienza di sé e del vuoto, della desolazione, dell’abbandono, nelle notti prima dell’alba. Si offrirà cantore mendico di una Roma fatiscente , sentirà il sangue della materna Trieste , ormai musa delusa, pulsare nelle vene e scorrere di ricordi.

Il poeta deve naufragare , penetrare, perdersi prima di poter riaffermare la sua voce: “la mia terra m’ha inghiottito e adesso la posso raccontare”, “pagano” (p. 86), consapevole che è insito nella vita il vero insulto alla parola dell’anima , a questo si offre morendo “in vita” per rinascere dagli abissi e dall’Ade da cui risale, angelo-demonio, inviso agli uomini e orrendo essere per un Dio che ha osato sfidare.

L’hybris minaccia il poeta che invece la accetta, la accoglie, la sfida e, ad oscure notti, alterna arriva anche la percezione della vita: “camminammo nella vasca dei cristalli / nella notte dal confine sottile; / allora le onde ci assediavano/ fredde/ inconsistenti,/ e nessuno sembrava avere sguardo./ Ad un tratto pensammo/ di sfiorare/la vita” (p. 56), e poi “ammutinato disertai la rotta/ nella galleria viola nascosto/ artefatto e gracile” (p. 57.

Nella parola “cristallo” e “gracile”, i poeti riguardano da torri di cristallo che facilmente si rompono, si infrangono in silenzi rumorosi , in muscoli contratti dal resistere nonostante la fragilità della coscienza e della consapevolezza dell’essere “fingitori”, intrisi d’arte, letteratura che, nel mentre li definisce poeti, chiede l’odioso patto di un’arte consapevole dell’inadempienza.

La dedizione alla parola, sempre sentita dall’autore (“la radio spenta sembra/ trasmettere voci conosciute”) e l’arte come sublimazione dolorosa dell’essere mi rimandano al patto con il demone (in questo caso angelo precipitato nella ricerca) del Doctor Faustus; le Muse sono spesso invocate nel cammino del viandante, del nomade , del poeta, di Adrian Leverkuhn, quasi supporto alla difficoltà di salire e accettare poi la caduta nella voragine; il sentimento che potrebbe trovare la morte nella sua espansione e coscienza tende ad essere ridimensionato nella razionalità e quasi emarginato, il dolore individuale anche nel Nostro si presta ad ampiezze riflessive sulla storia di popoli, genti, dolori, incontri, nella configurazione di un mondo suicida di sé dopo omicidi consumati di bellezze e antichi splendori.

Il patto sarà violato, la follia condurrà Adrian traditore all’incoscienza di un infanzia e la ricchezza del sentire si moltiplicherà nel poeta dell’inadempienza, in una sfida a resistere anche nella nostalgia, altro grande filo conduttore di queste liriche. Essa invade e si estende nella percezione consapevole, ma non per questo meno dolorosa, di un tempo che non fluisce ma rimanda voci, amori, desideri, passioni che si stampano nella scrittura che li imprigiona e li contiene insieme; non concede dimenticanza , ritorno, memoria d’accompagno proprio per la pagina scritta, che tesse intorno tela di ragno insufficiente all’espansione d’amore, spesso ricacciata ed obliata per non soffrire.

“La nostalgia è nel pianto / d’una madre trascurata /spenta e sofferente /esule eremita/dalla terra dei ricordi". ”Ti ho conosciuta, terra. / Ti ho pianto mare / Sono sceso per la scogliera / Raggiante di speranze -/ Le onde bagnavano i miei piedi. / Nella spiaggia trovai una conchiglia. / Quella morte risuonò a lungo. (p. 42).

Questa ultima lirica, composta di tutte maiuscole a capoverso come se si dovesse prendere fiato più volte e dove l’aggettivo”raggiante”, unico della composizione, è stoppato da un segno orizzontale, viene a significare un fermo volontario all’espansione del sentimento scolpito nella geografia dell’anima dell’autore che prosegue nell’opera in un continuo spartito musicale della coscienza alla quale talvolta concede lacrime e sorrisi in una mancata esecuzione della prossima nota. ”isolato nel mutuo frastuono / Respiro/ fuori tempo…/ la marea cadeva nel cielo /e niente aveva più sfumature / ho assunto /domani uno sguardo nuovo" (p. 74).

Se la poesia è ”Illegittima pretesa d’immortalità” (p. 123), capita che ”la parola ritorna come un torrente di tuoni / ascolto adesso / e finalmente piango” (p. 127).



Patrizia Garofalo 20 novembre 2008

sabato 19 settembre 2009

"Un libro per analessi: note su 'Una terribile eredità' di Gordiano Lupi", di Patrizia Garofalo

Inutile sarebbe indagare e inoltrarsi nella logica di qualsivoglia guerra, salvo rintracciarla nella follia di chi stabilisce le sorti di individui destinati a precipitare nell’instabilità storica, fisica e coscienziale, a partire senza una motivazione plausibile e a nulla anelare tranne che a cercare la propria salvezza a qualsiasi costo. Ma alla guerra non c’è fine: devasta la normalità, le emozioni e i sentimenti, trasmuta ogni vincolo spirituale, sancisce il trionfo della disumanità, sventra ogni tentativo di ricostruirsi con fantasmi che inutilmente tentano di svanire, di rimuoversi, si appropria per sempre del corpo, è un attraversamento di dolore che assiste all’annientamento della vita insieme al sovvertimento dei valori.

Una terribile eredità di Gordiano Lupi (Perdisa 2009) si sgrana pagina per pagina sia in immagini dure e distaccate, in una impartecipazione quasi da terza dimensione, sia in aperture a grandangolo nel cui alternarsi assiduo risiede l’originalità dell’autore.Ogni parola rimanda al cuore la sofferenza del protagonista nel perdurare dell’orrore, lacerante, senza rimedio e senza respiro. L’animo e lo sguardo dello scrittore sono al di qua di qualsiasi giudizio o interpretazione; mai omologazione dunque, ma identità precise e irripetibili, sofferte, “persona” nella sua unicità è il protagonista, delineato attraverso un realismo forte a tratti da reportage giornalistico, e al contempo accompagnato da uno scrivere riscaldato dalla pietas. L’esperienza reale trasmuta in quella scritturale, luogo d’elezione in vista della memorabilità degli eventi.

Lo stile del romanzo, simbiotico al contenuto, è controllato da una sapiente paratassi e da una punteggiatura che si sgretola mimando, reificando quasi, i ritmi dell’orrore e del dolore; arrivano al lettore input parossistici nella forza espressiva delle immagini che sempre più intensamente comunicano l’avvertimento della catastrofe. “La terra non ce la faceva più a sopportare il peso dei suoi morti e quasi rifiutava di ingoiarli e di dargli sepoltura”.

Mi sovviene Ungaretti in Non gridate più; ma nella guerra di questo racconto, dove il protagonista resta fermo alla fase della pena, mancano la fede e la tensione a un altrove mistico, il riscatto, la pace, la possibilità di sollevarsi da un’esistenza stagnante nel tragico: “Dove esiste la fame non esiste la vita”; “Qualcuno comprenda che non c’è fine all’orrore”.

Mi sembra che ciò voglia dirci questo avvincente libro. Trovare come unico sfogo la soppressione di innocenti vite per cibarsi della loro carne altro non è che lo stigma enfatizzato di una guerra che segnerà un ritorno nella propria terra con un’eredità raccapricciante: “Per tutti sono un povero pazzo e posso dire quello che voglio”. La pazzia quindi, l’insania come unica libertà anche se si sta marcendo dietro alle sbarre. L’antropofagia, paradossalmente, nell’introiezione dell’altro potrebbe essere letta come atto di amore e di lutto (cos’altro è l’elaborazione del lutto se non l’introiezione del soggetto dell’abbandono?). E in sequenza partono le immagini che scandiscono la storia del protagonista, stringono l’animo e ci fanno partecipi di quel dolore presente e della retrospezione.

L’irreversibile itinerario verso la follia nella disseminazione della propria individualità-identità indurrà il protagonista a coniugare insania e pena, capacità di uccidere e al contempo di continuare ad amare, e in tal senso Gordiano Lupi finisce per addentrarsi negli interstizi dell’umana psicologia quale buio perenne: come altrimenti coniugare amore e morte visto che sono isolatamente irriconoscibili? Nel protagonista più che a un inaridimento spirituale si assiste al pronunciamento della sovrana indissolubilità di amore e morte. E il suo responso di reduce finirà per vaticinare tale verità-enigma, in una visione tutt’altro che contemplativa del vero.
Le onde del mare si frangevano sul muro in granito, screpolato e distrutto in più punti… dove si faceva più forte il sapore del mare, i palazzi colorati di rosa e di giallo mostravano alla forza del vento un antico splendore… di quella regione ricordo solo un deserto infinito…
Le scimmie ci fanno troppa pena… gridano come bambini disperati… Un pianto stridulo. Terrorizzante. Muoiono per il dolore… il passato tornava come una scure selvaggia a decapitare i sogni… compresi presto che con quell’incubo avrei dovuto convivere per tutta la vita… bevo quel sangue a lungo poi stacco le labbra ho paura che i ragazzi comprendano quello che mi sta accadendo… io non sono un vigliacco, scappo per amore… dal deserto dell’Angola si torna, non si torna da quello dell’anima. È anche questo la guerra; non poter disinnescare una bomba che si ha dentro.

Il figlio dagli occhi come quelli di Clara c’è, lasciato, ritrovato, lasciato di nuovo… gli vuole bene, lo va a trovare e rende più accettabile la follia. L’eredità è lì, in un pacchetto ben legato con le ultime notizie di un articolista del Granma, un pezzo di carne ben salato dal profumo dolciastro”. Emblematica oblazione: paradigma e lascito di dannazione o di reciprocità d’amore.

Patrizia Garofalo

settembre 2009

La presentazione del libro di Gordiano Lupi avverrà il 9 dicembre 2009 (ore 16.30) presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara con presentazione di Patrizia Garofalo. Sarà presente l’autore.

sabato 12 settembre 2009

UNA POESIA DI LUCA CANALI NELLA LETTURA DI ELISABETTA BRIZIO

All'interno della vasta opera letteraria di Luca Canali (uno dei massimi latinisti contemporanei, autore, fra l'altro, di una acclamata traduzione di Lucrezio), la figura del poeta può apparire quella meno rilevante. Una lettura come quella di Elisabetta Brizio ne evidenzia, invece, l'assoluto valore, e l'organico, necessario rapporto con l'insieme dell'attività dell'autore.

Era, del resto, un lettore d'eccezione - anch'egli, come Canali, sapiente navigatore degli abissi verbali e musicali, pullulanti di gorghi, allucinazioni, giochi d'eco, inganni rivelatori, abbacinanti morgane – quale Andrea Zanzotto a sottolineare, recensendo La deriva, che «non si passa impunemente attraverso quell'oceanico incastro di contraddizioni che è la Roma antica, in cui un ostinato tentativo di prassi “logica” resta travolto e fratto nella più surreale delle putrefazioni di palazzo e di massa, nella frizione continua fra un teatro della ragione e un teatro della follia».
Il mondo antico, con le sue rovine, i suoi frantumi, la sua «catena di fantasmi», guidava, e insieme vincolava, «il movimento dell'io verso i forni crematori della depersonalizzazione». Canali stesso, in una poesia del Naufragio, diceva di aver gettato la propria vita «tra pietre ed erbe di un antico impero / di violenza placato tra rovine».

Una disperazione, quella del poeta, aggiungeva Zanzotto (sintetizzando una condizione che potrebbe valere per tutti gli scrittori che hanno accettato di immergersi nella Palus Putredinis della contemporaneità, e tentare di attraversarla), che sottintendeva però l'«attesa di un ethos rinnovato», di un vivere autentico ritrovato attraverso la catarsi della sofferenza.

«Scrivo sentendomi male, dice Ottiero Ottieri in Campo di concentrazione, con sforzo, superando a denti stretti l'angoscia diffusa, la noia, la lieve paura che si diffonde». Il male e la terapia finiscono, nell'atto della scrittura, per convergere e fondersi. Il nesso di letteratura e vita non si stringe e non si attorce più nella gioia della pura bellezza, ma, piuttosto, nel travaglio di un'autocoscienza tormentosa, che pure rende l'esistenza più consapevole, più profonda e più autentica (o forse ne dà solo l'amara illusione?).

venerdì 11 settembre 2009

MARGHERITA GADENZ, "UN ANDITO"

Di fronte a questi versi di Margherita Gadenz si sarebbe tentati, a prima vista, di parlare – ricorrendo ad una definizione di comodo, e spesso ipostizzata o strumentalizzata - di “poesia femminile”. Tipica di quest'ultima parrebbe la sensualità accesa ed intensa, tradotta e rispecchiata in una materia verbale agitata da palpiti, spasmi, fremiti (si vedano le vibranti allitterazioni di tre versi mirabili: “a sagomarci il sesso a labbra strette / pieni di umida paura nella Venezia / senza sole”).

Eppure, l'autrice si discosta dalle semplificazioni e dalle degenerazioni che questa poetica sensualistica (si pensi all'erotica dell'arte teorizzata da Susan Sontag in opposizione, peraltro legittima, ad ogni tecnicismo ermeneutico e ad ogni monopolio ideologico, metodologico, interpretativo) può produrre nella poesia femminile meno misurata e meno avveduta.

In lei, semmai (come nella Plath o nella Bachmann, nella Lasker-Schüler o nella Rosselli, insomma in autrici dal respiro moderno ed internazionale), la sensualità trova il suo controcanto esistenziale complesso, problematico, per certi aspetti nobilmente tragico, in una assidua e convulsa vigilanza intellettuale, razionale, che si traduce in coscienza stilistica e in lavorio formale. È nel pensiero, nella parola, nello stile che la carne viva, il corpo estatico o sofferente trovano il proprio silenzio e la propria espressione più veri, la propria forma scolpita e il proprio segreto moto, il proprio venire alla luce ed inabissarsi in se stessi, nel proprio oscuro gorgo – il pieno e il vuoto, la memoria e l'assenza, la soddisfazione e la mancanza, il baciare chi non c'è - infine, la propria discreta celebrazione, in un andito, e il proprio martirio glorioso.

Del resto, ciò che l'immagine, la parola, la voce evocano e ridestano - come un fascio di luce intermesso e sfrangiato da un trilite – è proprio e sempre una presenza-assenza, un segno-ferita - l'essere e la sua latitanza, il suo iato, la sua - direbbe Lacan – béance. (M. V.)


Un andito, un piccolo pertugio
dove tu ed io ci siamo spinti fino a toccarci il petto
notturni in pieno giorno
a sagomarci il sesso a labbra strette
pieni di umida paura nella Venezia
senza sole

di sopra tua madre con l’aria da zingara
nerastra cucinava un minestrone
a mille foglie

Non ricordo nemmeno se ho mangiato

ti ho baciato tutto il viaggio di ritorno
anche se non c’eri

16 maggio 2009

Margherita Gadenz

venerdì 14 agosto 2009

Felix Luís Viera e la poesia cubana in esilio




Poco conosco (e temo che, in generale, poco, troppo poco, o in ogni caso meno di quanto sarebbe opportuno, si conosca in Occidente) della letteratura cubana.

Ma non posso, da lettore di poesia interessato ad uno sguardo comparatistico, che restare affascinato da questo testo di Felix Luis Viera, che - con il suo immaginare e vagheggiare, pur se con lucida e asciutta nettezza di contorni, una sorta di casa interiore, di gnostica "casa dell'anima" e della memoria, quasi come la montaliana casa dei doganieri o la "casa abbandonata" di Neruda (immerse entrambe in un tempo senza tempo, in una sorta di passato senza memoria o di memoria senza tempo e senza passato) - trasporta il lettore in un platonico regno di possibilita' individuali e insieme storiche, di potenzialita' e virtualita' esistenziali, immuni dalle contrarieta' e dalle oppressioni di una contingenza spesso disumana e alienante.

E verrebbe in mente, pur nella sostanziale diversita' delle poetiche e delle scelte espressive, "La morte di Narciso" di Lezama Lima, altro splendido e contrastato poeta cubano, che analogamente reagiva all'oppressione in modo simbolico, velato, indiretto, senza neppure degnarla di un richiamo diretto ed aperto, ma trascendendola in una sfera di valori superiori e piu' puri, anche se destinati, forse proprio per questo, a restare confinati nel limbo dell'incompiuto, del virtuale, del solo sognato, del mai-nato - ma non per questo meno vero e vivo, anzi vivo e vero, forse, di una verita' e di una vita piu' libere e pure.


(M. V.)





Nell’ultimo numero (n.30/aprile-giugno/2009) di Arique, ottima rivista di poesia diretta da Raúl Tápanes López, scrittore cubano residente a Santiago del Cile, tra la tanta buona poesia in lingua spagnola che viene sempre pubblicata spicca una lunga intervista al poeta cubano in esilio Felix Luís Viera. Lo scrittore definisce la poesia come un morbo che ti ossessiona fino a cercare di possedere una sensazione producendo un verso. Aggiunge che ha revisionato la raccolta La patria è un’arancia - della quale ho tradotto in passato alcune liriche davvero struggenti - e che presto potrà pubblicarla, ma teme che il suo sesto libro di versi possa essere l’ultimo, il definitivo. In realtà, dalle liriche che ho avuto modo di leggere Viera esprime la grande nostalgia dell’esiliato nei confronti di una terra che ama e che da quattordici anni non può rivedere. Eppure Viera era un poeta stimato a Cuba, aveva ottenuto un premio nel 1976 - in pieno quinquennio grigio - con la sua prima raccolta poetica e numerosi riconoscimenti con i romanzi Sarai comunista, però ti amo (inedito in Italia) e Il lavoro vi farà uomini (edito in Italia da L’ancora del Mediteraneo - titolo originale Un ciervo herido).

Il lavoro edito in Italia è importante perché affronta il tema delle UMAP e accusa il governo castrista di non aver mai chiesto scusa a nessuno per un’esperienza così frustrante e per un periodo così buio della storia cubana. Viera ammette di avere nostalgia di Cuba, ma sa che potrà tornare solo se potranno cambiare le circostanze e teme di non avere molti anni da vivere perché questo possa accadere. In ogni caso è vero che i poeti ritornano sempre, in carne e ossa o con le pagine dei loro libri. Accadrà anche a Cabrera Infante, prima o poi. Accadrà anche a Reinaldo Arenas. Per Félix Luis Viera la speranza è che succeda molto prima, che possa tornare a Cuba per rivedere la sua famiglia e la sua casa idealizzata nel ricordo. Magari ci torneremo insieme, Félix…

Per il momento ho tradotto un’altra lirica stupenda di un artista geniale che la Rivoluzione Cubana ha confinato in Messico. Ve la regalo.


Gordiano Lupi



Casa


de Felix Luis Viera



Esta es la casa donde no habitamos.

Esta es la casa con su jardín elemental,

aquí el librero, la lámpara

a la medida de inmensas jornadas de lectura,

aquí los muebles; en el centro –o ya

no sé si en una esquina, no recuerdo--

un haz de flores (naturales, claro)

Esta es la casa donde no habitamos,

discreta y honda hacia la sangre como un verso,

la casa

donde dos –o tres, ya no recuerdo—niños

ensayan sus colores.

Esta es la casa donde no hay un gesto

que no haya partido del amor.

Aquí su dormitorio, sus sábanas azules –o

blancas, no recuerdo—

donde no nos acostamos.

Esta es la casa que dibujamos de memoria,

la que hoy apenas podríamos (tú o yo) describir,

la que ha quedado

como una semilla rota al borde del camino.

Suerte

que la vida

se hace también de las cosas que no fueron.


De: La que se fue



Casa


di Felix Luis Viera



Questa è la casa dove non abitiamo.

Questa è la casa con il suo semplice giardino,

qui la libreria, la lampada

idonea a immense giornate di lettura,

qui i mobili; nel centro - adesso

non so se in un angolo, non ricordo -

un mazzo di fiori (naturali, chiaro).

Questa è la casa dove non abitiamo,

discreta e profonda verso il sangue come un verso,

la casa

dove due - o tre, ora non ricordo - bambini

provano i loro colori.

Questa è la casa dove non esiste un gesto

che non derivi dall’amore.

Qui la sua camera, le sue lenzuola azzurre - o

bianche, non ricordo -

dove non abbiamo dormito.

Questa è la casa che disegniamo a memoria,

quella che oggi appena potremmo (tu o io) descrivere,

quella che è rimasta

come un seme perduto al margine della strada.

Per fortuna

che la vita

è fatta anche delle cose che non furono.


Tratto da: Quella che se n’è andata


Traduzione di Gordiano Lupi


www.infol.it/lupi




Félix Luis Viera è nato a Santa Clara nel 1945, vive in Messico da quattordici anni. Ha pubblicatole raccolte di racconti: Las llamas en el cielo (1983) e En el nombre del hijo (1983), i romanzi: Con tu vestido blanco (1987), Serás comunista, pero te quiero (1995), Inglaterra Hernández (1997) e Un ciervo herido (2003), le raccolte di poesia: Una melodía sin ton ni son bajo la lluvia (1976), Poemas de amor y de olvido (1994) e l’antologia La que se fue (2008). In Italia è uscito Un ciervo herido e sta per uscire Inglaterra Hernández. Ancora inedito il romanzo El corazón del rey. Attualmente lavora alla raccolta di poesie La patria es una naranja, ispirato alla nostalgia della sua terra.

giovedì 6 agosto 2009

UN APPUNTO SU LEOPARDI (FRA PLATONISMO, TRAGEDIA E CRISTIANESIMO)

Quanto ai rapporti (assai dibattuti e problematici) fra Leopardi e il cristianesimo, c'è un pensiero dello Zibaldone che vedo raramente citato, ma con cui ci si dovrebbe più attentamente confrontare.

"Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo pur troppo vero che come l’individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine (e l’individuo in essa) è malvagia e infelice".

Evidentemente, in Leopardi c'è tutto il "pessimismo biblico", il "pessimismo cristiano" (anche il libro di Giobbe è stato letto come una sorta di cripto-tragedia, fondata su una teodicea assurda, occulta e inesplicabile, quasi come la anànke tragica), la coscienza della vanitas vanitatum, senza, però, la rassicurante certezza di una vita e una giustizia ultraterrene.

Il che non portava con sé, automaticamente, il rigetto di ogni possibile sfera metafisica, fosse pure completamente estetizzata (altrimenti non si spiegherebbe "Alla sua donna", con la venerazione dell'archetipo, dell'eidos inafferrabile, dell'alta imago).

Il pathei mathos, la conoscenza attraverso la sofferenza, e viceversa, e la coscienza della condizione umana, della distanza dalla felicità originaria, della "gettatezza" che è propria dell'essere-nel-mondo, accomunano una visione tragico-cristiana (penso al Christus patiens, al motivo anche tragico dell'uomo-dio sofferente, come al Deus absconditus di Pascal e Racine) allo sguardo leopardiano.

Ho la sensazione che la Ginestra, tanto spesso letta in chiave forse troppo ideologica, rappresenti, per parafrasare Pirandello, una sorta di paradossale, antinomico e dialettico superamento (una sorta di Aufhebung) della visione platonico-cristiana attraverso il Cristianesimo e il Platonismo stessi: in sintesi estrema, la luce del pensiero, della verità, della pietas, della agàpe (luce che gli uomini non hanno accolto) contro la malvagità della natura, della materia e della creazione (concetto, questo, tipicamente platonico-cristano, con una venatura gnostica).

Io credo che il senso e il valore essenziali della "social catena", degli uomini "confederati insieme" siano da ricercare nel Platone del Politico come nella visione plotiniana della "grande catena degli esseri" (Moreschini, se non sbaglio, la riconduceva addirittura alla "catena aurea" della Patristica e della Scolastica).

Peraltro, senza richiamarsi alle letture giovanili delle Disputationes di Francisco Suarez, e dunque allo studio della metafisica scolastica, poco si capisce dell'Infinito - di quella interiore "fictio" ("io nel pensier mi fingo") dell'infinito nel pensiero e nell'anima - "fictio", in quel tempo giovanile fertile di illusioni, sottratta al tempo, immersa nell'immobile fluire dell'eterno, dunque ancora priva di implicazioni storiche e sociali, ancorché utopiche.


M. V.

mercoledì 5 agosto 2009

ELISABETTA BRIZIO, "LA 'CONDIZIONE LILIALE' DEL MAETERLINCK DI 'SERRES CHAUDES'"

Ad Alvaro Valentini


Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

Maurice Maeterlinck



Letterarietà décadente, volendo adattare alla poesia una riflessione di Nietzsche sulla musica wagneriana, è eccedenza della parola rispetto alla frase, frase che a sua volta diventa straripante oscurando il senso della pagina, la quale esiste autonomamente facendo astrazione dall’insieme. È la celebre descrizione dello style de décadence che Nietzsche enunciava nel Caso Wagner (e sarebbe interessante notare che, sebbene dapprima Nietzsche vedesse proprio in Wagner un possibile antidoto alla décadence e al nichilismo, l’”opera d’arte totale”, che fonde Wort, Ton e Drama - i tre elementi che Wagner voleva sinesteticamente fondere nel dramma lirico - è molto prossima alle poetiche delle analogie e delle corrispondenze - e non è certo casuale l’interesse di Baudelaire e di Mallarmé per Wagner) e mutuava da Paul Bourget, uno stile che con la sua frammentazione rispecchiava “l’anarchia atomistica, la disgregazione del volere”. Il pensiero di Nietzsche era entropico, anticipava con la preveggenza del genio, colossale e ribelle, del dio sofferente, del poeta deriso, l’entropia, l’indeterminazione, il principio di Heisenberg, che postula l’inesistenza della conoscenza oggettiva, giacché si potrebbe osservare la materia solo alterandola. Ma certo l’idea della morte, del disfacimento morale e intellettuale come disgregazione di atomi gli derivava dalla frequentazione del pensiero greco, degli atomisti, ma anche degli stoici, per lo spettro di una ekpyrosis, di una universale conflagrazione che metteva capo, a sua volta, a una nuova rinascita, in un ciclo incessante, in un eterno ritorno che guarda oltre la siepe dell’infinito.
La décadence è disgregazione, tramonto, inabissamento, eppure, dato l’influsso che ha esercitato su tante correnti successive, dati i tanti fermenti, i tanti autori capitali che a essa si sono rifatti (l’avvicendarsi degli stili, delle correnti soggiace a una logica di eterno ritorno, di perpetuo rinnovamento, pressappoco nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, morivano per poi rinascere, per poi tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Giuseppe Antonio Borgese, inaugurando con la metafora del crepuscolo la definizione stessa di poesia crepuscolare, non sarebbe seguita la notte) finirà per introdurre una maniera aurorale di esprimere l’universo sommerso degli inesprimibili stati dell’essere.
Lo stile del decadentismo è l’esito di una mozione a oggettivare l’invisibile, indotta anche dalla scoperta dell’inconscio quale inesplorato universo dello spirito. Traendo l’inconscio dalla sua destinazione freudiana di traducibilità in linguaggio e in descrizione cosciente veniva restituita al contenuto latente la valenza di enigma e di territorio insondabile, da cui traggono origine sia la sfera della consapevolezza che i contenuti e le rivendicazioni dell’Es. Nuovi saranno allora gli strumenti conoscitivi per una nominazione dell’inconoscibile, nuovo il procedere linguistico per evocazioni. Allo scopo di esplicitare l’arcano cosmico e quotidiano si verifica un dirottamento del linguaggio da ogni configurazione logico-razionale in direzione della modalità analogica e degli aspetti fonico-cromatici della lingua; la percezione della contiguità tra le differenti sfere sensoriali sorge e si avvale dell’analogia quale espressione delle tonalità del mistero, del simbolo, di metafore sinestetiche, di rimandi sonori e delle armonie imitative. Questo perché la nuova poesia è intuizione di uno jenseits der Dinge, di un eidos celato, sotteso alla superficie che è tragicamente avvertita come increspatura. Enunciare equivale a descrivere l’increspatura, conoscere è rivelazione dell’incognito che si manifesta in forme ctonie e oscure, la cui intrasparenza permarrebbe - e Proust soltanto basterebbe a confermarlo - qualora fossero interpretati per via razionale. In Proust l’effabilià del ricordo ha a che fare con l’attitudine assimilatrice dell’analogismo. In fondo la Recherche, come scrisse Walter Benjamin, è la ridescrizione del “mondo nello stato dell’analogia”, laddove le baudelairiane correspondances vengono associate alla vita vissuta.
“Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli d’un traduttore”, diceva Proust sulla scorta di Baudelaire. La componente metafisica che illumina ogni parvenza trascorre in un fiat e come tale è inafferrabile. Essa non è il luogo dell’irrazionale, ma è il transito stesso, che, secondo Baudelaire, va enfatizzato e al contempo preservato attraverso l’ebbrezza. E l’ebbrezza costituisce, per così dire, il metodo baudelairiano per intercettare le intermittences e le impressione fuggevoli nella loro centralità sfuggente ed evasiva - o altrimenti detta marginalità significante - e fissarle con la forza evocatoria e medianica del pathos della parola: l’anima décadente apre un varco verso una verbalizzazione dell’insondabile. Diversamente che nell’analogia, dove salta ogni legame logico o di affinità con l’ordine originario delle cose, con il simbolo un oggetto viene assunto per significare un suo aspetto dominante (ad esempio, in Maeterlinck, l’acqua simboleggia la purificazione, il giglio la purezza, il ghiaccio l’indifferenza e la morte). Verificata l’insufficienza dell’uso convenzionale della lingua, non rimane che risolversi per la sua inusabilità: la parola pregnante e omnicomprensiva che infrange le norme della verosimiglianza diviene lo strumento conoscitivo che dissolve la dicotomia tra l’essere e il dire; le ombre e gli inafferrabili segni dell’ignoto vengono ontologizzati e ricondotti al noto attraverso vertiginose analogie in una sintassi illogica dell’inverificabile, in perpetua violazione dei codici linguistici tradizionali e delle gerarchie sintattiche, talora al limite della intelligibilità anche per l’incessante transcodificare da parte dello scriba della décadence. Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius, come dicevano gli antichi alchimisti. L’alchimia della parola e la proverbiale oscurità della poesia moderna e contemporanea (a partire da questa sua matrice simbolista) si spiegano in questi termini.
Nelle Serres Chaudes (1889) Maurice Maeterlinck tenta di risillabare il mistero che sostanzia e avvolge le cose mediante una lingua affollata di simboli, inequivoco segno di una disposizione sentimentale essa stessa incantata e intraducibile, che oscilla in una pendolarità tra paura e desiderio di affidarsi al divino. Per via di illuminazioni (le quali, se assumono come connotatore un elemento particolare, diversamente che in Pascoli non vi si intrattengono oltremodo), Maeterlinck invoca la fine dell’angoscia del mistero, mentre Pascoli, poeta dell’arcano e dell’ineffabile, indugia sul particolare o lo pone in una sfera di superiore astrazione. Prevale in Pascoli il senso di meraviglia che si traduce in simboli maggiormente riconoscibili, emblemi che senza complicarsi ulteriormente attraversano tutta la sua produzione poetica.
La maeterlinckiana tensione a una condizione liliale, edenica, rarefatta e quasi incorporea, “rapita fuor de’ sensi”, redenta dai loro turbamenti e dalle loro contaminazioni esercitò sul D’Annunzio del Poema Paradisiaco e su Sergio Corazzini una seduzione particolare, seppure con esiti del tutto differenti. La serre chaude, equivalente con riserve (è assente in Pascoli il senso di asfissia che pervade tratti delle Serres) al claustrofilico nido pascoliano, passò nei crepuscolari “giardini abbandonati” (ma il discorso della discendenza crepuscolare dai simbolisti di lingua francese sarebbe quanto mai complesso), nell’hortus conclusus del Paradisiaco, che ripropone il tema dell’esigenza di purificazione successiva all’appagamento sensuale. Nondimeno, la dannunziana aspirazione a una generica bontà e a una regressione verso l’innocenza infantile, verso la madre, la disposizione all’ascolto della sofferenza altrui (tutti atteggiamenti protocrepuscolari) paiono offuscate da una poetica della raffinatezza parnassiana, oltre che vagamente ellenistica, dal culto esasperato della locuzione rara, dove la ritmicità della parola forma un suggestivo analogon con il verso libero che si espande in partiture più ampie. Il senso di stanchezza in cui si dilegua la soddisfazione sensuale (come accadrà anche nella produzione narrativa, nel Piacere in particolare), lo stato d’animo convalescenziale che sa i limiti dei sensi riconfluiscono in D’Annunzio in una sorta di edonistico e narcissico autocompiacimento estetico, che, al di là delle scelte espressive, si intrattiene voluttuosamente in questa sorta di stanchezza malinconica e di volontà d’oblio. Non c’è antitesi dunque tra la vita e la morte nel Paradisiaco, ma solo una equivoca fluttuazione dell’una nell’altra. È lo stesso motivo che separa D’Annunzio dall’anima crepuscolare e, ovviamente, da Maeterlinck, nel quale, perlomeno nelle Serres, è del tutto assente anche la dannunziana tensione a dissolversi nell’incessante fluire della vita della natura e a partecipare intimamente dell’eterno tornare della vita cosmica.
Secondo Milo De Angelis (stando all'introduzione all’edizione italiana del 1989) il Maeterlinck di Serres Chaudes sarebbe prossimo al Verlaine di Sagesse, quel Verlaine illuminato dalla passione cattolica trasmessa a Maeterlinck dalla sua traduzione - e dalla conseguente assimilazione - di Ornamento delle nozze spirituali di Jan van Ruysbroeck. Ma la conversione e il rigetto del suo vivre dans le dérèglement non impedirono a Verlaine, in alcuni testi, la ricaduta nell’intensità della sua vita precedente errante nella corruzione. Analogamente, in Maeterlinck pare dubbia la sincerità del suo pentimento: l’itinerario della sua anima - in costante oscillazione tra l’ascesa e il disastro - nel libro sfuma, attraverso immagini e illuminazioni improvvise e stridenti che interrompono un interludio di apatico e riflessivo silenzio, verso un vago sentimento di colpe non bene identificate, che talora pare configurarsi come autocompiacimento della colpa stessa. Cosicché il progetto spirituale delle Serres - un percorso verso un futuro di possibilità peraltro solo adombrato - si conclude con l’equivoca e tutta décadente intenzione-attesa di una cancellazione della colpa dopo lunghe “orazioni addormentate”, aspettando i “ceri stanchi nell’aurora”. Ma la sensazione in questo libro è di assistere - piuttosto che a un anelito verso desideri duraturi - a una graduale restrizione della vita e dello stile propri dell’identità residuale di un poeta del sepolcro, piuttosto che del sagrato.
Lontano è il tempo e il sapere del tempo nelle Serres, l’atmosfera è archetipicamente surreale come spesso in Maeterlinck (si pensi solo alla Stimmung di Pelléas et Mélisande). Tempo e luogo sono remoti e irriconoscibili. Fantasie esotiche, oscure rêveries, ambienti fantastici, contesti di provenienza, ombre, illuminazioni, silenzi e transustanziazioni mistiche si intersecano a un indefinito rituale del sacro, all’immagine ricorrente del giglio, alle iperoggettivazioni nei multivochi simboli della clausura come estraneità, esclusione dal mondo sensibile, protezione e opportunità di accedere a un altrove mistico, alla noia del recluso, che fin dal testo di apertura assume una configurazione di prolungamento in termini di estenuazione dello spleen baudelairiano, privato tuttavia del suo carattere eminentemente tragico. La condizione maeterlinckiana, non meno egotica rispetto a Baudelaire, è priva di tonalità tragiche e somiglia piuttosto a una forma di passività paga di permanere in “inazioni bianche”, all’inesplicabile perplessità di un’anima “malata di assenze” e di “attese morte”, e lo spleen si definisce come ossessiva decantazione dell’indifferenza e dell’apatia di fronte all’inconsistenza e alla insensatezza di tutte le cose, come magistralmente in Noia:

I pavoni indifferenti, i pavoni bianchi sono fuggiti,
I pavoni bianchi sono sfuggiti alla noia del risveglio;
Non vedo i pavoni bianchi, i pavoni di oggi,
I pavoni che passano nel mio sonno,
I pavoni indifferenti, i pavoni di oggi,
Raggiungere svogliati lo stagno senza sole,
Sento i pavoni bianchi, i pavoni della noia,
Attendere svogliati il tempo senza sole.

E sarebbe interessante indagare quanto un testo come quello appena citato, ipnotico nelle sue insistenti cadenze, enigmatico oltremodo, possa avere influito tanto sul surrealismo francese quanto sulla iteratività sospesa, indefinita, allucinata, di certo Palazzeschi e certo Campana - come pure sulla fissazione corazziniana per il bianco, equivalente cromatico della verginità, della purezza ma anche, mallarmeanamente, del dominio del silenzio, del vuoto.
Dell’universo della parola Maeterlinck sceglie voci senza tempo e senza storia che si riducono a invocazioni e a compulsive esclamazioni. C’è una omologia tra sogno e poesia, intesa come svelamento del dileguare della vita nel mistero in cui tutte le cose sono avvolte e svaporano. Malgrado il verbo declinato quasi costantemente al presente ci restituisca l’impressione di un’evidenza - di una parola giunta al possesso della luce -, esso non oltrepassa l’annunciazione di un compimento che nei fatti stenta a verificarsi: il presente viene dunque assunto come stigma della stasi.
Il linguaggio poetico è primordiale, non c’è rimozione né identificazione. La stessa iterazione quasi ossessiva di parole chiave, scandite in un ritmo costante e salmodiante, non fa che confermare la loro valenza archetipale. Ma le recondite figurazioni istituite per via analogica finiscono per complicarsi e implicarsi e la maeterlinckiana “vegetazione di simboli” talora trasmuta e cambia di senso (a titolo di esempio: esempio la campana di vetro - quella stessa, forse, sotto cui Montale confesserà di aver trascorso la sua paralizzata e angosciata giovinezza -, simbolo di imprigionamento e di clausura e al contempo di desiderio di separatezza e di difesa), anche in virtù dei frequentissimi accostamenti sinestetici (talora la noia è “blu”, il singhiozzo è “glauco”). Cambiano di segno, ma senza contraddizione alcuna, perché tutti gli aspetti del nostro io non si possono presentare contemporaneamente, in una simultaneità in grado di compendiarli. Vivere - e per il poeta decadente scrivere - equivale ad avvertire e trasferire sulla pagina le metamorfiche forme della vita, dal momento che, come diceva Proust, quello delle intermittences è il solo carattere di permanenza, di persistenza, e, paradossalmente, di equilibrio che ineriscono all’uomo.
Attingendo all’universo materiale delle parole e delle cose del mondo il poeta esprime realtà immateriali e di pensiero e incoerenti allegorie, performa, in altri termini, l’implausibile credibile. Il simbolo maeterlinckiano resta comunque al di qua del deragliamento dei sensi e secondo De Angelis rifluisce nella cantilena del recitativo. Né trattiene i segni di quell’”infernale” e di quell’“inappellabile” caratteristici di Rimbaud, quel carattere “fisicamente, dantescamente, corporeo”. È il simbolo che da noi sarà il crepuscolarissimo referente malinconico della noia, della preghiera-invocazione, del desiderio, del peccato, dell’aspirazione vaga ad affidarsi a una altrettanto vaga spiritualità, la quale non per questo rinuncia ad accordarsi con il mistero della vita, a esprimere adeguatamente correspondances e sfuggenti risonanze tra le cose.
Nel libro finisce per prevalere l’uso del verso libero (meno frequenti sono i metri regolari): allora l’allegorizzazione diviene dispiegata, il testo più sconnesso, disfatto, il simbolo svela realtà inattese e insospettabili correlazioni che vanno oltre i canonici abbinamenti simbologici. Viceversa, nella prima parte frequentissimi sono gli accostamenti sinestetici che diminuiscono gradualmente nel corso del testo.
Secondo De Angelis Maeterlinck insegue una “verità nascosta” che non coincide con la verità della fede. Un’aura di mistero alona l’oggetto, e il poeta non può far altro che constatare la sua inafferrabilità istituendo altre possibilità linguistiche. Vediamo, attraverso i testi, il mutare di alcuni dei segni-simboli - il loro svolgersi tentacolare - di questa complessa condizione.
Innanzitutto la titolazione: la serra è calda, secondo De Angelis, perché “bruciata dalla fede”. Nondimeno, la serra allude anche e soprattutto a una reclusione intrisa di pentimento, condizione annunciata come predominante sin dal testo di apertura (Serre chaude, per l’appunto) che è disseminato di espressioni che rimandano a una situazione claustrale (“porte chiuse”, “cupola”, “una musica di ottoni alle finestre degli incurabili”, “cortile dell’ospizio”, “sotto quelle campane”). In Serra di noia (“dove si vedono chiuse, / tra le vetrate profonde e verdi, / coperte di luna e di cristallo”), in Tentazioni (le “glauche tentazioni” del poeta “hanno tristemente coperto” con il loro “crescere sacrilego” l’aspirazione a una vita senza colpa, all’approdo a un Dio che disperda “i sogni della terra” e che rischiari la “serra malvagia”). Nei versi di Campane di vetro l’invocazione è rivolta a non sollevare le campane, e ad aver “pietà dell’atmosfera rinchiusa”, quasi fosse una protezione, un desiderio di ibernazione che tuttavia alla fine rivela tutto il suo carattere enigmatico nell’immagine dell’eremita nella cella e del fondo della grotta. In Fogliame del cuore “sotto la campana di cristallo azzurro” trova una tregua la sofferenza malinconica del poeta, e il giglio intona una “bianca, mistica preghiera”. In Anima calda l’ombra, le ciglia che “hanno chiuso le porte / su speranze ormai troncate” e le irraggiungibili “campane verdi della speranza” ci riportano a una condizione di timore e di impotenza. Lo stesso accade nel testo successivo, Anima, dove Maeterlinck introduce il colloquio con l’”anima sorella” (che sarà poi preponderante in Corazzini), nel quale ritornano le immagini della serra, degli ammalati, della sepoltura, della prigione, della torre, delle finestre d’ospedale, del convento. L’esortazione reiterata affinché “le finestre restino chiuse” emblematizza - nei versi di Ospedale - l’idea di protezione come “una serra sulla neve”, e uno “zampillo in mezzo alla stanza” induce a schiudere “appena la porta”, mentre il gigli stessi sono minacciati. In Desideri invernali la soglia dei sogni (e, gozzaniamente, delle ”rose che non colsi”, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato) è chiusa, e l’”anima stanca” del poeta pare estenuarsi nel rimpianto dell’innocenza lontanissima e perduta. In Ronda di noia i “gigli si aprono in strade / senza stelle e senza sole”, segnature di una ancora lontana redenzione. In Scafandro l’acqua diviene il luogo eletto a emblema del palpitare della vita, in opposizione al “palombaro nella sua campana per sempre” (si pensi, qui, all’immagine ungarettiana del poeta che scende nelle profondità delle acque per poi risalirne alla luce con i suoi canti, ma anche al palombaro, peraltro ben più giocoso, scanzonato, grottesco, di una celebre “parolibera” di Corrado Govoni). Riflessi è il testo dove la metafora dell’acqua sembrerebbe custodire l’arcano delle cose che dal di fuori appare solo come increspatura. E indicare una via di salvezza e di rigenerazione dalle imperfezioni della vita. :riflessi sarà, non per nulla, il primo, inquietante romanzo di Palazzeschi, tutto intriso di ambigue atmosfere simboliste, e pervaso da una simbologia floreale legata all’idea del disfacimento e della morte.
Il giglio, simbolo per definizione dell’aspirazione alla purezza spirituale, è insidiato da “uccelli notturni” nel testo di apertura, ritorna nell’immagine dei “gigli ingialliti del domani”, dei “gigli nel fondo di acque lontane”, segno di una innocenza non più perseguibile: il giglio è “fragile” nel suo “rigido pallore”, incapace di contrastare le tentazioni del corpo. Lungo le quartine di Anima calda Maeterlinck anticipa - dopo una serie di ipallagi - un tratto tipico della religiosità decadente, pavida e inerte, intrisa di noia e di solitudine: compare qui la parola “paura”, che tornerà meglio contestualizzata in Orazione (“la mia anima ha paura come una donna”). E in entrambi i casi il giglio costituisce l’oggettivazione di questa aspirazione alla purezza: “seminate gigli lungo le febbri”. Il giglio compare insieme all’immagine salvifica dell’acqua nei concitati versi di Ospedale, mentre in Ronda di noia è simbolo di apertura e di possibilità, nell’indifferenza del mondano senso comune: esiste, dirà poi Corazzini in Per organo di Barberia, l’adombramento di una rinascita “che nessuno raccoglie”, una “Primavera di foglie / in una via diserta”.
Questa sordità alla rinascita viene riconfermata in Acquario; la malattia della volontà è un perpetuo indugiare nella condizione di un desiderio di impossibile purificazione: allora i gigli diventano “di ghiaccio” e “sparsi per sempre / e morti sbocciando”, alla stregua di “fiori assenti”. Analogamente, in Riflessi, si delinea uno dei temi principali dell’opera, che sarà poi eminentemente corazziniano, quello dell’inconsistenza:

Sotto i riflessi profondi delle cose
Gigli, palme e rose,
Piangono ancora sotto le acque.

E ai fiori non avanza che sfogliarsi “a uno a uno”, “nell’acqua del sogno e della luna”. Irraggiungibili, dunque, redenzione e purificazione, nell’immagine intrecciata del giglio e dell’elemento liquido. Sono i “gigli appassiti” di Visioni, laddove l’insistenza sul verbo “passare” evoca lontananze perdute, mentre termini come “stanche”, “pesanti”, “sonno”, “lente”, “svogliate”, “immobile” si ricollegano alla noia di un’anima indolente e accidiosa. In Orazione (due sono i testi così intitolati nelle Serres) l’ennesima invocazione al Signore che sa la miseria del poeta e dei suoi “fiori maligni” (in esplicita opposizione ai gigli), la religiosità è vissuta espressamente come orfanità di un’”anima spossata” e come inaridimento nell’immagine del ghiaccio e nell’ossimorica “tristezza della mia gioia”.
La nota tristezza, nel rallentamento della scansione elencatoria e nel frequentissimo ricorso all’anafora, assume nella visionarietà di Sguardi diverse configurazioni: dal senso di soffocamento di “un pomeriggio d’estate in un museo di cere”, a uno stato d’animo da convalescente, enfatizza una immobilità, quasi da atmosfera cronostatica, un presente immobilizzato per un’analisi del tempo, che pare interdire ogni alternativa e ogni ulteriorità (sguardi “che soffrono di non poter essere altrove”, “sguardi muti”, “sguardi quasi soffocati”), fino alla resa dei “gigli delle guerre”. E ancora, in Attesa, incontriamo “gigli che non sbocciano”, una sospensione (“suonano sempre le stesse ore”) che in Pomeriggio si protrae nella paralisi “dei sogni immobili” e nel desiderio “dell’acqua sull’erba”. Ma l’anima, in Anima di serra, è “rinchiusa nel vetro” mentre la vita vera si schiude “sott’acqua” e i gigli si stagliano “contro i vetri chiusi”, in attesa che la luna “schiuda in silenzio le porte”. I gigli “si muovono sott’acqua / sfiorando gli eterni bagliori” si dice in Intenzioni, rivelazioni che avvengono sotto gli “occhi chiusi” del soggetto lirico, la cui anima “apre al volo dei cigni”, con chiara allusione a una auspicata elevazione morale. Il vetro diventa il diaframma tra il desiderio e la vocazione per “altre speranze”, in Vetro ardente:

Guardo antiche ore,
sotto il vetro ardente dei rimpianti;
E dal fondo blu dei loro segreti
I fiori emergono migliori.

Con la scomposta visionarietà di Contatti Maeterlinck compie una sorta di consuntivo (scandito dal ricorrere dell’invocazione “abbiate pietà!”) della propria esistenza, e affida alle mani il compito di descrivere gli ormai noti e autoindulgenti simboli di reclusione (“un convento senza giardino”, la serra, le - poi corazziniane - porte chiuse, la dimensione sotterranea, la prigione, la grotta) e di aspirazione alla vita (“a spargere un po’ d’acqua sulla soglia”), laddove l’immagine dell’acqua (già introdotta nel testo sotto la veste di “zampilli” e di “fontane”) finalmente “fresca e chiara”, a conclusione del testo, sembrerebbe aprire una possibilità di redenzione e di ritorno a uno stato di innocenza (“attendo che bagnino i miei sguardi, / l’erba morta dei miei sguardi, / dove tanti agnelli sono sparsi”).
Possibilità che si delinea come indugio perpetuo (“attendo sul viso la loro freschezza, / come un tesoro in fondo all’acqua”, “attendo che bagnino i miei sguardi”), variamente simbolizzato in Anima di notte, testo conclusivo del libro, dove il reiterarsi ossessivamente anaforico ed enfatico del termine “attendo” (peraltro debordante lungo tutto il libro) sancisce il senso di una redenzione come eterna vana ricerca e aspettazione – oltre che dell’idea patologica del tempo immobile, bloccato, e dello spazio chiuso, che anela a una impossibile apertura, a una preclusa, e soffocata sul nascere, dilatazione.
Già in Orazione Maeterlinck aveva delineato questo senso di esitazione nelle “ore spente”, nella “pallida indolenza” e nella seduzione per l’astensione dei “gigli ingialliti del domani”:

Abbiate pietà della mia assenza
Alla soglia delle intenzioni!
L’anima è pallida di impotenza
E di inazioni bianche.

Chiusura, clausura, rigetto, aseità, distanza dal mondo, mancanza di rapporto tra il Sé e le cose, secondo la definizione canonica dell’angoscia, della melanconia, del taedium vitae: il tutto però visto non solo come “cella triste” - direbbe Corazzini - della tortura esistenziale, ma anche come difesa, come ripiegamento interiore, protezione dell’io. Come spazio, infine, della creazione poetica e della stessa testualità. Il male e il rimedio coincidono, si incrementano l’un l’altro e si fondono in verbo poetico, perché la poesia si incarica di completare la vita, di darne la propria versione con altre forme:

Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.