sabato 12 settembre 2009

UNA POESIA DI LUCA CANALI NELLA LETTURA DI ELISABETTA BRIZIO

All'interno della vasta opera letteraria di Luca Canali (uno dei massimi latinisti contemporanei, autore, fra l'altro, di una acclamata traduzione di Lucrezio), la figura del poeta può apparire quella meno rilevante. Una lettura come quella di Elisabetta Brizio ne evidenzia, invece, l'assoluto valore, e l'organico, necessario rapporto con l'insieme dell'attività dell'autore.

Era, del resto, un lettore d'eccezione - anch'egli, come Canali, sapiente navigatore degli abissi verbali e musicali, pullulanti di gorghi, allucinazioni, giochi d'eco, inganni rivelatori, abbacinanti morgane – quale Andrea Zanzotto a sottolineare, recensendo La deriva, che «non si passa impunemente attraverso quell'oceanico incastro di contraddizioni che è la Roma antica, in cui un ostinato tentativo di prassi “logica” resta travolto e fratto nella più surreale delle putrefazioni di palazzo e di massa, nella frizione continua fra un teatro della ragione e un teatro della follia».
Il mondo antico, con le sue rovine, i suoi frantumi, la sua «catena di fantasmi», guidava, e insieme vincolava, «il movimento dell'io verso i forni crematori della depersonalizzazione». Canali stesso, in una poesia del Naufragio, diceva di aver gettato la propria vita «tra pietre ed erbe di un antico impero / di violenza placato tra rovine».

Una disperazione, quella del poeta, aggiungeva Zanzotto (sintetizzando una condizione che potrebbe valere per tutti gli scrittori che hanno accettato di immergersi nella Palus Putredinis della contemporaneità, e tentare di attraversarla), che sottintendeva però l'«attesa di un ethos rinnovato», di un vivere autentico ritrovato attraverso la catarsi della sofferenza.

«Scrivo sentendomi male, dice Ottiero Ottieri in Campo di concentrazione, con sforzo, superando a denti stretti l'angoscia diffusa, la noia, la lieve paura che si diffonde». Il male e la terapia finiscono, nell'atto della scrittura, per convergere e fondersi. Il nesso di letteratura e vita non si stringe e non si attorce più nella gioia della pura bellezza, ma, piuttosto, nel travaglio di un'autocoscienza tormentosa, che pure rende l'esistenza più consapevole, più profonda e più autentica (o forse ne dà solo l'amara illusione?).


Ad ogni modo, è chiaro che, in Canali, il tradurre si è riflesso sul poetare (o viceversa), e l'una e l'altra attività sono divenute le due facce, i due lembi del brillio duplice ed uno che sgorga da una stessa facoltà letteraria, da una stessa esperienza umana ed intellettuale.
Davanti a certi versi stridenti, balbettanti, a certi ritmi angolosi e franti, a questi versi che paiono arieggiare, distorcendolo e straniandolo, l'incedere quieto e marmoreo degli esametri, come non pensare al traduttore lucreziano, e di riflesso allo stesso Lucrezio, o viceversa: «Brucia l'intima piaga a nutrirla e col tempo incarnisce, / divampa nei giorni l'ardore, l'angoscia ti serra». La temporalità dell'angoscia, dell'ossessione, della coazione a ripetere, del desiderio incolmabile ed inesauribile, con il loro moto immobile, la loro frenetica paralisi, anticipano, sulla terra, il tempus aeternum del nulla che segue la morte. La funzione della parola letteraria (il suo non didascalico e non dogmatico ethos, se proprio ne ha uno) risiede forse proprio nel rendere conoscibile, esistibile, in qualche modo vivibile, quel nulla.

M. V.


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Vaghiamo ubriachi di benzodiazepina,
automi che aziona non più l’energia di un progetto,
ma lo stimolo dell’iminodibenzile in una tresca di pupille
dilatate, acqua cupa di stagno in cui annegano le identità
e ammiccano le omertà di subconsce rassegnate agonie.
Ma una voce forte e normale, se si ode, le infrange in una diaspora
di terrori riassommati che corrono a rifugiarsi in una solitudine
di cuscini, di lame, di lacci per la soluzione finale.

*

Piango a dirotte lagrime le miserie del mondo,
rispecchiate e contorte in un elegante rifugio di folli,
tra illusioni di affetti, in rigide gerarchie di funzioni,
di neutri gestori del morbo armati di terapie,
di sigle su flebo, di laidi profitti, di brevi
esecuzioni sommarie fra elèttrodi omologati dal tedio,
se tramonta l’angoscia su una quiete spettrale o sul rictus
di un clan di dementi avvinghiati agli uncini della norma.

*

Siamo qui ad un passo dalla morte,
dalla deformità, dall’insania,
ognuno con lo sguardo fisso in un punto dello spazio
o sulle foglie oscillanti oltre i vetri in una tregenda d’inni
di guerra ascesi dalla vita spegnendosi in un murmure di pietà
tra i cavalieri disarcionati di questa disperazione senza approdi.

*

Odio gli aromi dell’estate
brulicanti e lesivi nella bassa
pressione instillata dai psicofarmaci.
Rimpiango il gelo dei vicoli
e dei cortili infervorati da una fede
quando la mente sembrava una sciabola di battaglia,
lineare e illusoria al pari di una rivolta di poveri,
una pleurite secca curata con l’aspirina.

(Ancora dalla clinica)


Chiamiamola clinica della vita. Per altri versi potremmo chiamarla la vita stessa, una domanda differita sulla misura dei nostri cambiamenti al mutare delle circostanze. Ma questa è poesia, anch’essa problematica e antidogmatica, a partire da quella lucidissima increspatura, da quel sottilissimo e meditatissimo discrimine – vera emergenza viva, quasi, dell’autocoscienza letteraria, del testo che di se stesso si fa concavo specchio – che è in poesia il limine dell’a-capo. Infatti, quando e perché in poesia si va a capo? È come un voltare pagina, oppure, come nel caso delle inarcature tra verso e verso, un portarsi dietro qualcosa da enfatizzare, procrastinare, decifrare, o semplicemente narrare? L’a-capo per enjambement implica il trascinamento del senso nel verso successivo, l’isolamento o il risalto, comunque una enfasi posta sugli elementi che hanno infranto l’ordine sintattico (e questo ovviamente vale in generale). Cosí lo scorrere ignaro della vita, talora spezzato oppure indotto al vaglio delle reminiscenze, somiglia alla poesia, anche nella sua versione chiusa, e che si dà per interni rimandi, rime a distanza e parole-chiave che ci convocano a una riconsiderazione del testo nel suo insieme. Come la siepe di Leopardi, che preclude la visione esteriore e insieme, proprio in virtú di questo, suscita quella interiore. Ma qui si tratta di versi volutamente, e forse un po’ provocatoriamente, afoni e ruvidi. La poesia è prosastica, non ha ritmo perché non vuole averlo.
   Compaiono in Ancora dalla clinica di Luca Canali (Il naufragio, Rizzoli, Milano 1983, Prefazione di Giacinto Spagnoletti) discese a-capo in forma di enjambement (alcune occorrenze: «pupille / dilatate», «diaspora / di terrori», «solitudine / di cuscini», «brevi / esecuzioni sommarie»,  «rictus / di un clan di dementi», «inni / di guerra») che tratteggiano un quadro traumatizzante. Ma eccentrico, lascia intendere Canali, solo fino a un certo punto. E il punto è questo, con Ottiero Ottieri: «Depressione o situazione?». E Canali, in Autobiografia di un baro (1983): «Solo nella condizione di infermo ho agito senza trucchi». La dimensione della malattia è sede di una maggiore profondità del sentire. Diceva Hans Castorp a Clawdia Chauchat: «la malattia ti dà la libertà. Essa ti rende… ecco, ora mi sovviene la parola che non ho mai usata! Ti rende geniale!». Le corsie ospedaliere costituiscono dei teatri privilegiati dell’autentico, paradigmi dell’esistere, corsie dell’esposizione meditativa anche per chi dalla malattia si crede immune.
   La clinica di Canali è spazio letterale, una clinica psichiatrica, che per convenzione ospita l’incapacità umana di realizzarsi, l’inoltrarsi oscuro nell’insensatezza e nella follia. Nella sua «quiete spettrale», dove regnano esistenze nevrotiche stagnanti e coartate, la clinica impone un codice di comportamento vòlto a contenere l’instabilità delle reazioni psichiche. Scriveva in merito Cesare Garboli: «Versi e ritmi ineguali, grandi e sformate cadenze dai lunghi piedoni tristi, meditativi, familiari, i falsi esametri di Canali vanno avanti e indietro come dei passi immaginari dentro una stanza, girano sempre intorno allo stesso punto, non vengono a capo di niente e intanto scandiscono un fallimento totale».
   Logofobia o logorrea, il linguaggio che si parla, o che si pensa, nella clinica è in funzione di una indagine su se stessi, se vogliamo è un linguaggio dei sintomi senza rinsaldare la rimozione. Tuttavia la clinica di Canali è inoltre luogo metaforico, qui si cerca di afferrare il nesso tra l’individuo e il proprio destino, dunque si allude alla categoria dell’esistere, ma anche alla vita stessa, che può essere normale e diversa, fondata sulla fiducia oppure sul sospetto nei confronti della stretta osservanza delle inferenze o di ciò che può vantare il suffragio della ragione (ragione: in termini manniani, «parola di pianura»). Da questo profilo la clinica insinua il dubbio che nell’insania potrebbe balenare una lucidità altra («le parole / sembrano senza senso o troppo vere», Clinica nel vento), cioè, ancora con Ottieri, che si tratti di una «malattia dell’autocoscienza esagerata». L’abisso che sembra intercorrere tra sanità e malattia, del resto, non è poi cosí esorbitante, e di ciò si fa spesso esperienza nella vita, non esclusa, anzitutto, la nostra.
   Si domandava Plantagenet, protagonista di Lunar Caustic di Malcolm Lowry, «se il dottore non si chiedeva mai che senso c’era nell’adattare dei poveri matti a un mondo nocivo sul quale matti solo piú scaltri esercitavano un’egemonia quasi suprema, dove il comportamento nevrotico era la norma, e non c’era altro che l’ipocrisia a rispondere alle fiamme del male». Plantagenet sosteneva, con esplicito riferimento a Rimbaud, che «quel senso di decadenza, la necessità di distruggere il passato, il senso di vertige» sono universabilizzabili. Una volta fuori dell’orbita della clinica, le barriere dell’ospedale psichiatrico continueranno ad essere avvertite come impedimento spirituale. E non sarà neppure casuale che solo in occasione di un volontario ricovero ospedaliero Plantagenet scopra gli umani sentimenti: «È abbastanza strano, non le pare, che io abbia dovuto fare tanta strada, dall’Inghilterra a questo manicomio, per trovare due persone che mi stanno veramente a cuore» (tr. it. di Vincenzo Mantovani).
   Se la clinica metaforica da un lato relativizza gli interrogativi fondamentali sollevati nella clinica letterale, stretta nella sua verità contingente e nel suo carattere di eccezionalità, dall’altro, e di conseguenza, tende a naturalizzarli. Nel ristretto orizzonte della clinica si ridescrive un umanesimo senza travestimenti o aloni di menzogna: essere uomo vuol dire essere malato, diceva Thomas Mann, magari mosso da ragioni diverse, ma non piú essenziali, di quelle che muovono Canali, che va al di là della rubricazione dei fenomeni psichici anomali. Neppure per Canali la condizione umana può riscattarsi da se stessa. Il rictus allora diventa l’emblema riassuntivo di una contrazione forzata e non piú solo contingente o di origine nevrotica.
   Ho appena ricordato Thomas Mann, ma si potrebbe risalire alle origini della letteratura malata, se l’elenco non fosse davvero esagerato. Un cenno breve e ovviamente insufficiente, allora. Asclepiade, la aegritudo di Tibullo tra i greci e i latini. Nel Medioevo la acedia di Petrarca nel Secretum; nel Seicento, Robert Burton con la sua Anatomia della malinconia; la malinconia «ninfa gentile» di Pindemonte, piú soave che tragica, lamentosamente melodiosa, del Settecento rococò e neoclassico; l’Ode on Melancholy di Keats, la follia di Hölderlin e di Richter, in età romantica; poi lo spleen di Baudelaire e dei decadenti, che si tradurrà nella condizione degli scapigliati del secondo Ottocento italiano; poi Zeno... Nel Novecento forse Amelia Rosselli e Sarah Cane hanno fatto, piú di chiunque altro, di una malattia consapevolmente vissuta una dolente e insieme rigorosa fonte di ispirazione. Ma come non dire, ad esempio, del «limbo», della perenne sospensione, di Luzi? La malattia, di per sé stato di transizione, di divenire, di incertezza, riflette fedelmente la natura polisemica del segno poetico. La metafora è malattia del linguaggio, la parola ambigua, polisensa e spesso antifrastica, è tipica del linguaggio degli alienati, cosí come la percezione alterata e straniata della realtà. La grandezza di un discorso letterario dipende forse dal grado di consapevolezza e di lucidità attraverso cui è filtrata quella iniziale condizione di alienazione semantica. La banalità dell’artista matto ha un innegabile fondo di verità.
   Ma ora torniamo a Canali. In questa «clinica in versi» (secondo la definizione di Garboli) che è Il naufragio, Canali – in uno stile confessionale che marca la propria autobiografia per brani – ci presenta un’odissea dello spirito che ha come termine l’adattamento al sopravvivere. «La guarigione è un soffrire meno, facendo e pensando esattamente le stesse cose di prima», Ottieri fa dire a Pietro Muojo nel Poema osceno. A una remissione come adattamento al vivere al cinque per cento Canali giunge dopo aver sezionato quelle che, in Stilemi (1982), chiamava «irriverenti memorie / le storie, le scorie» dell’esistenza mediante una analisi molecolare tra ricordo, paramnesie e teorizzazioni eccessive: «La mia vita aveva radici / avvelenate. Ora che non ho / piú vita, ma una sequela / di giornate slegate, allucinate, il veleno è passato nella mia voce altezzosa / o in apparenza dimessa. Non prendetela / dunque sul serio, è solo / una foce di rivi / inquinati da amore / di arido falansterio o da odio / dolente d’integri vivi» (Metàstasi).
   Viene in mente il Gesualdo Bufalino della Appendice a Diceria dell’untore («Guida-indice dei temi»): «Tema dell’olocausto: la malattia come stigma-stemma, itinerarium necis che ambisce a farsi itinerarium crucis, vanitosa imitazione di Cristo. Cosí la malattia sfiora i confini oscuri del sacro». «Tema della guarigione come infrazione, tradimento di un patto mafioso fra moribondi, sospensione a divinis, degradazione (e tuttavia umanamente sperata con susseguenti malefedi di comportamento»). «Tema dell’occultamento: il sanatorio non solo campo di sterminio, ma anche isola, fodero, castello d’Atlante; la morte come tana prudente». «Tema del processo (con sentenza oscura quanto la colpa)». «Tema della memoria e del sogno, con confini incerti fra l’una e l’altro».
   Nel suo resoconto dalla clinica Canali testimonia una «angoscia» unanime a partire dal deserto emotivo e atono della propria esperienza dai tratti nevrotici. Denuncia la dispersione dell’integrità individuale in ritualità ossessive di addestramento, nello stallo, nell’insignificanza della ritualizzazione, nell’aggirarsi in uno spazio penitenziale. Invano si tenta di ricompattare l’identità frastagliata assumendo la poesia come segnale di presenza di un’esistenza comunque inestetica («ho il vizio di scrivere ma non / la virtú di vivere», A una figlia ignota), dove il passato è oggetto di interpretazione piú che di nostalgia. La surrogazione non tiene, non ricostituisce questa identità annegata, granulare e intermittente che costantemente si confronta con la propria linea d’ombra, con lo svanimento degli affetti e con l’esilio volontario oppure dovuto al tipico evitamento dell’amico depresso, il quale incarna la minaccia dell’infrangersi di un equilibrio che si crede raggiunto: «Dove siete miei amici a darmi forza / per tornare alla lotta e non sognare / impossibili assalti sempre a tiro / d’un centralino dai legami effimeri» (Realtà e memoria); «mi avete abbandonato […] / al silenzio / d’un telefono, perno dell’abiura / dal polisenso verbo dell’esistere» (Agli amici). E ancora: «Non il pegno / di un nostro comune lessico /dimenticato  m’ispira, ma il patto / di conservare il senso, il simbolo di un’idea / fraterna in cosí estranea / durezza che attornia / i superstiti» (Fantasia). Fuori di questa linea privata, gli automatismi e gli asettici orrori della clinica che innescano un riscontro continuo tra i diversi livelli dell’io. Quindi il parallelo si estende ai ruoli che il protagonista di questa discesa infernale ha rivestito nel tempo: è stato figlio, seppure «per ingorghi ereditari o confuse / esperienze» abbia in testa «solo scissi neuroni» (Paragone). È stato marito, è stato padre: «ad un certo punto ho generato una vita» (Dare e avere).
   A tale senso di dimenticanza, talora dagli esiti elegiaci, a questo scorgersi come traccia svanente, alla percezione della vita che si dilegua («amavo i ponti / sul fiume ma ora / soltanto le assenze», Atmosfere), piú avanti nel libro subentrerà una tensione ironica – che qui traduce un sorridere al posto del piangere – in un dettato forse piú scomposto ma piú essenziale, una correttiva ironia verbale stemperata in accenti che riconfermano l’attraversamento dell’insania come una questione non solo privata o circoscritta agli astanti della clinica. A un certo punto del libro il tono cambia, si fa assertivo, alle domande sottentra qualche acquisizione, e la medesima consapevolezza passa per nuove soluzioni espressive: come nota Spagnoletti, una struttura versale piú agile a rima per lo piú interna spodesta il verso lungo dall’andamento narrativo, «declinazioni beffarde» spezzano il flusso dei pensieri del degente. Lo stesso materiale verbale pare smentire l’abisso che Canali aveva precedentemente dato per tratti, per cosí interdire la possibilità di essere preso alla lettera. Allora tutto è parzialmente vero e parzialmente falso. Sono sani i ricoverati della clinica o sono sani gli altri? Chi è disilluso, chi troppo illuso? Esistono solitudini inferiori e solitudini superiori? Questo, accomunando serietà di asserti, autoirrisione, tendenza a mistificare se stesso: «per la sinistroconvessa – fulcro / a livello del primo / metàmero lombare – andrò alla Messa / ultro (spontaneamente in latino) / con mente serena» (Referto radiografico). Piú indietro: «Argon (ἀργός=inerte) gas / indolore incolore insapore / centesima parte dell’aria / ti somiglio» (Atmosfere). «Luca / finisci di raderti il viso da quasi / vent’anni senza sorriso» (Davanti allo specchio). Come scrive Spagnoletti, si tratta di una mutata disposizione espressiva che «non cambia la sostanza delle cose, ma ne aumenta il potere dissolvente […]. Ed è in questa omologazione dell’ossessione verbale con la piattezza della vita, per sempre ridotta ai livelli minimi, la novità tematica» dell’opera. A questo punto del libro, alla domanda cosa sono le lacrime?, Canali potrebbe anche rispondere con le parole che Mann, ovviamente senza alcuna ironia, riferiva alle lacrime di Hans per la morte di Joachim: «col nome di quel prodotto ghiandolare alcalino e salato che la scossa nervosa provocata da un dolore intenso sia fisico che morale, spreme dal nostro corpo. Egli sapeva che fra i componenti di quel liquido v’erano anche la mucina e l’albumina» (come sopra, nella traduzione di Bice Giachetti-Sorteni).
   In Ancora dalla clinica la declinazione del verbo al presente (spicca «sembrava», che esprime la potenzialità nella vita, quando, appunto, la vita sembrava riservare qualcosa) è funzionale, visto che nel corso dell’esistenza il presente è quasi sempre avvertito in difetto rispetto al passato. All’uso del verbo al presente si sottraggono lungo l’opera le memorie intraviste, o messe a fuoco con «lo zoom del ricordo». Ma l’atemporalità è multipla: nella sospensione temporale che vige nella clinica, nell’espandersi e ritrarsi senza illusioni di fuga dalla vita anteriore, nella dismissione di una identità psicologica che non ha origini riconoscibili (per lo meno in quei punti dove il protagonista si disegna come se fosse un’altra persona), nell’aver ormai disimparato il passato.
   La medicalizzazione con le benzodiazepine è l’unico fattore che spinge all’azione automi in «rassegnate agonie». Una luce oppressiva fa da sfondo all’orrore del succedersi ripetitivo di avvenimenti minimi in un tempo misurato dai protocolli sanitari. L’avversativo ma posto immediatamente dopo non cambia una situazione di fatto, introduce piuttosto un richiamo, nella  prospettiva della auctoritas del codice della cosí detta norma, a un ordine che ricomponga la dispersione in una relegazione forzata dove incombe l’idea di esistenza percepita come attesa della «soluzione finale». Ma la clinica, in fondo, pur essendo «un elegante rifugio di folli», rispecchia «le miserie del mondo». Che altro è la vita se non l’errata illusione del confidare nella felicità individuale, nella autenticità degli affetti, nell’esistenza di una forma di libertà che non sia apocrifo infinito, un soggiacere in qualità di vincitori revocabili, come in un campo di battaglia? L’esistenza è naufragante per statuto, uno sguardo da recluso oltre i vetri – lacrimosi, avrebbe aggiunto Sergio Corazzini –, non oltrepassabile confine verso una libertà inesistente. E l’estate stessa, evocata nell’ultima strofe, non è che il detestabile emblema dell’esplosione della vita, il cui valore resterà sconosciuto. Forse anche per questo Canali, nei versi conclusivi di Ancora dalla clinica (e del libro, in Evocazione), dice di rimpiangere il gelo dell’inverno, quella stagione, in una inversione di climi interiori, anteriore al già leopardiano apparir del vero. E quando l’inverno verrà «con i tuoi guai, / ti potremo anche / maledire». Quindi non c’è stagione che valga, la depressione non è un fatto stagionale ma strutturale, dice piú volte Ottieri lungo Il poema osceno, quasi in risposta alle lusinghe che gli addetti ai lavori tentano di instillare nei nevrotici o negli alienati, a seconda del loro quadro psicologico: «Il dottore è sempre supposto / sapere piú di te, perciò ci vai, / ma tu ormai rischi / sapere piú del dottore».

                                                                               Elisabetta Brizio

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