L'Iter Brundisinum di Orazio si apre con la visione, lontana ed impassibile, di aridi «candentia saxa», per poi chiudersi - dopo gli accidenti variegati, ora grotteschi ora lascivi, di un viaggio tortuoso e malagevole - con il richiamo al «securum aevom», al tempo immobile, trascendente, indifferente all'umano, in cui dimora il divino.
La poesia fiorita in Puglia (e più in generale in vaste aree del Mezzogiorno) - la «cospirazione provinciale», autonoma ed antitetica rispetto alle correnti dominanti, che remotamente la sfiorano ed insinuano in essa la propria eco perturbante e filtrata, di cui parlava Vittorio Bodini - è germinato proprio da questo terreno arido e duro, ma per tal ragione appunto propizio a solide ed antiche radici. Un'aridità feconda, un torrido refrigerio intellettuale che rappresentano la vera cifra espressiva della tradizione poetica Apula (su cui si può vedere l'antologia, curata da Daniele Maria Pegorari, Puglia in versi, Bari 2009), la quale trova anche nello stesso dialetto locale - ellittico, densissimo, scontroso, aspro, e proprio per questo consono, come pure quello calabro, alla vena moderna - un idoneo rispecchiamento.
«Delle radici è luce la figura / del nascere e del crescere, ed è ombra / solare ogni sua pausa che cattura / la densità del fiore e della tomba», scriveva Girolamo Comi, orfico e cosmico. «La vita per strade d'ombra rotola / con la stessa sembianza in cui si sgretola / il tempo», canta Luigi Fallacara: il paese del sud, con le sue controre, i suoi chiaroscuri, i suoi meriggiari, è figura temporis, immagine visiva e spaziale dell'eternità che si assottiglia e percola e fluisce nel divenire dei giorni e dell'esistenza. «Tra la mota erosa e una dolomia l'abisso si apre», dice Salvatore Ritrovato: la Terra-Madre, la Ur-Heimat può divenire, per epifanie negative, per neri bagliori, allegoria dell'Abgrund, dell'esistenzialistico Abisso. Il dialetto è lingua, idioma limpido della culla-tomba, come appare evidente dai dialettiali: ad esempio nella visione sepolcrale di Grazia Stella Elia («ammicche / de la véte e dde la mörte», «andechetà ca parle / jind'a sti grütte»).
Nell'antologia citata (dalla quale sono tratti tutti i pochi frammenti, meramente esemplificativi, che precedono) Giacomo Leronni è presente con un testo (Dell'eterno, in minuzia a Monte Sannace) non incluso, invece, nel libro (Polvere del bene, Manni, Lecce 2008). Ma proprio quel testo offre spunti decisivi per l'interpretazione del suo mondo poetico.
«parole affastellate, trascorse / il tempo di girarsi / di accostare il vuoto che fruscia // lampo su lampo / scossa dopo scossa // eccolo annotato, siglato / il luogo non-luogo / il senso imperscrutabile / di tutta questa vita che non sazia». Il paesaggio si fa testo, e il testo paesaggio, paesaggio di parole e di segni: sistemi, l'uno e l'altro, di segni appunto, di tracce, di schegge, di «broken images» direbbe Eliot, invasi e abbacinati da una luce annichilente, assoluta, intemporale - come la montaliana «gloria del disteso mezzogiorno».
Poesia essenziale, necessaria, rastremata, quella di Leronni, germinata da un paziente, rigoroso e silenzioso limio, protratto negli anni, vòlto a conseguire la compiutezza, l'esattezza - un «hostinato rigore», avrebbe detto Valéry lettore di Leonardo -, concettuale ed espressivo, senza però perdere in suggestione e portata evocative.
Versi, questi, in cui parla, per così dire, una modernità assoluta, e l'assoluto della modernità - una sorta di Novecentismo trascendentale (da Rilke a Celan, da Montale a Luzi, ma con il maestro Mallarmé, «monument en ce désert, avec le silence loin», sullo sfondo, alle origini e alle radici) assunto a contemporaneità perenne, quasi senza tempo e oltre il tempo.
«Quante cose strane e quanto vane / la vita cuce a sangue ad una ad una». «Non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani», diceva il bergsoniano Montale. La deriva dei segni sembra rispecchiare una deriva, una frantumazione spazio-temporale, una nullificazione del senso.
Eppure, con lucido ostinato paradosso, il senso dell'esistere continua ad essere riposto in quella stessa poesia che sembra denunciarne l'assenza. Nella malattia è già inscritta la cifra del rimedio. Il senso è, infine, il proprio stesso vuoto, il proprio stesso dileguo (il che si riflette anche in certi iati, in certe sospensioni, aritmie, apnee, della scansione metrica). «Scrivi, cingi il giorno con frasi / di buio. / (...) Scrivi almeno tu, frenetico / la mirabile vita assente». Rivive qui l'imperativo alla scrittura come testimonianza di una ricerca di senso nel Fortini di Traducendo Brecht: «Nulla è sicuro, ma scrivi» - insieme alla tragica ambiguità dantesca della luce fasciata dall'oscurità, del globo di intellettuale fuoco «ch'emisperio di tenebre vincìa».
Eppure, proprio quel fuoco, quella metafisica pira coronata di nulla cela e cova la «polvere del bene». La «brace dell'alterità» può rivelare l'eccesso, la trascendenza del securum aevom, del tempus illud, della temporalità metafisica rispetto a quella immanente e transeunte. «Il rogo morde, il rogo è puro», come nella consunzione espiatoria del Luzi di Las Animas.
«Nella polvere del bene / quando splende la morte rigorosa / ti ritiri con un soffio, affili / l'alba della parola». La parola nasce da una «morte rigorosa», da una lucidissima eclisse del soggetto, da una, avrebbe detto Mallarmé, «disparition élocutoire du poète», il quale, sia pure in modo deliberato e vigile, «cede l'iniziativa alle parole», alienandosi nella pagina. E proprio da questa lucida e razionale morte mistica la parola poetica riceve vita - «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie».
Poesia aspra, scontrosa, petrosa, che sulle prime mette in difficoltà il lettore. Ma, come il Sileno di Socrate, il discorso racchiude una sua anima aurea, un suo prezioso nucleo di rivelazione, un suo durevole contenuto di verità.
Del pari, «poesia del silenzio», che ricerca la verità e approda all'assenza, al deserto dei giorni, alla nudità delle cose abbandonate a se stesse in una luce svelante e svelata. Eppure, come detto, dopo il rogo purficatore, rimane la polvere del bene. C'è una sorta di Kenosis, di svuotamento, che prelude alla pienezza, una privazione che prepara alla grazia, come la quiete si dischiude al canto. Nondimeno, questa poesia resta tutta annodata e raccolta intorno ad un segreto insondabile, ad un nucleo duro di imperscrutabilità che il lettore e il critico possono trovare imbarazzo a concettualizzare ed esprimere.
Discorso, quello di Leronni, che pure sembra rifarsi ad una certa linea di ermetismo e di modernismo meridionali, da Sinisgalli a De Libero, da Calogero a Cattafi, ma che del pari dà la sensazione, pur con tutto il suo spessore, la sua densità, la sua con sapevolezza culturale, la sua ricchezza di sommersi sovrasensi, di essere nata da sé, dal nulla, come un fiore dalle pietre. Ma, certo, questa essenzialità è frutto di un lungo labor limae.
Forse, il significato ultimo della poesia di Leronni sta proprio in questa assenza, o inafferrabilità, del significato stesso. Essa però comunica non il suo mero esser-se-stessa, ma anche il suo esser-altro, e se-stessa-in-altro - non la propria matericità di suoni e sillabe, il suo mero autonomo significante, ma, al contrario, proprio la molteplicità inesauribile ed inafferrabile dei suoi significati, variegati e sfuggenti come quelli stessi della vita. «Cose strane e vane», «mirabile vita assente»: insomma il leopardiano «arcano mirabile e spaventoso» dell'esistenza, come del linguaggio. Nominare, o meglio evocare, questo mistero è uno dei ruoli eterni del poeta.
Matteo Veronesi
mercoledì 24 marzo 2010
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