martedì 2 marzo 2010

Elisabetta Brizio, “L’'hortus sepultus' di Sergio Corazzini”




Sonetto della neve (uscito su “Rivista di Roma”, 25. III, 1905 con il titolo La neve, poi confluito in Le aureole, del 1905), è costruito su opposizioni che lungo i versi si redimono dissolvendosi, implicandosi e incorporandosi: l’orto è “triste” e “nudo”, il cielo è “morto”, la neve è “bianchissima e leggera”. Dapprima “maternamente” consolatoria, a conclusione del testo essa diviene oppressiva alla maniera del baudelairiano “vessillo nero”. L’alba è insidiosa, ma con “gesto lieve”, “sorrisa venne di sua luce chiara”, ma al contempo implacabile nel disvelare l’abbandono dell’orto - in cui, come altrove, è allusa la più peculiare forma di esistenza crepuscolare - nella sua condizione reclusoria, esemplificato in ossimoro nel verso conclusivo, sepolto nella “tetra dolcezza” della neve. Nondimeno, in Corazzini si verifica un indebolimento dello spleen baudelairiano in termini di estenuazione, di incremento della tonalità elegiaca rispetto alla baudelairiana dimensione dell’angoscia.

La vocazione poetica corazziniana è eminentemente elegiaca: anche nelle forme chiuse la sua “malinconia mortale” si dispiega in una incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirico-sensoriale, ridotte alla stregua di evocazioni - seppure talora evocazioni esatte nella loro precisione nomenclatoria, cui tuttavia è sotteso uno sforzo descrittivo incerto e tendenzialmente trasfigurante. Sono quasi del tutto assenti nel Corazzini più “maturo” qualsiasi idea di consistenza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua, e qualsivoglia variazione emotiva che ecceda dalla usata salmodiante inflessione stilistica, elegiaca e rinunciataria: in una parola, da una aura anticipativa di morte in un diffuso albore apportatore di verità. Tali referti d’immateriale sono resi nell’inevidenza delle immagini e attraverso risonanze che non raccontano il tempo, sguardi assorti di sostanza d’Erwartung sull’arcanità, in un ritmo (in Sonetto della neve legato ancora alle regole della versificazione tradizionale) lento e senza dissonanze né interferenze discordanti, in un continuum (malgrado le maggiori spezzature che figurano nei primi due versi) dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato e inespressivo (un transfert qui in piena corrispondenza con il referente “neve”), un bianco opaco e atonale risaltare del silenzio, tale da consacrare anche questi versi al trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore, delle ore e del tempo. La poesia crepuscolare non va alla ricerca di un tempo che resista all’oblio, ma si smarrisce in una consapevole meditazione sull’attesa, in una perplessità fissata in aeternum:


Nulla più triste di quell'orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l'anima sua bianchissima e leggera.

Maternamente coronò la sera
l'offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.

Ma poi che l'alba insidiò co' 'l lieve
gesto la notte e, per l'usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,

parve celato come in una bara
l'orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.


Una volta marginalizzata la presenza umana (della quale qui sopravvive solo un “muto cuore assorto”) l’orto e il catalogo analogico acquisiscono il valore di personificazioni: il cielo è dotato di anima e ha caratteristiche materne, l’alba esordisce attraverso una vaga gestualità. Nel sonetto la desolazione del “cielo morto” - altra variazione analogica dello spleen crepuscolare - si disfa con il cadere della neve, del cielo anima “bianchissima e leggera”, nell’orto cupo e desolato, fino a rimare con “morto” (seppure riferito a “cielo”). La leggerezza della neve, nella sua cadenza ipnotica, consola l’anima quasi fosse un fiorire di primavere. Ma l’alba disvela la qualità illusiva del corazziniano riferimento alla rinascita contenuto nel verso precedente, e l’orto staziona nel degrado del suo imprigionamento usato, con la variante vanamente suasiva della visione della “tetra dolcezza della neve”. La metafora della primavera, qui inusualmente - e comunque labilmente (non a caso rima con “sera”) - assunta a immagine consolatoria, ricorre diffusamente nella poesia di Corazzini, fino a costituire uno dei suoi più crudeli correlati oggettivi: essa è privazione della vita e insufficiente rifiorire dell’anima in Spleen, ennesima oggettivazione del motivo della morte nella eufemizzazione di bare fiorite in Il cimitero, simbolo dell’irrevocabilità del tempo in Toblack e in Il fanciullo, della disillusione in Ballata a morte, dell’obsolescente nostalgia nella probabilissima ipallage “Oh! primavere / di giardini lontani!”, in Dopo, testo che segna il corazziniano commiato dalle forme chiuse. E dalla vita, stando alle due ultime strofe, che delineano una quasi gozzaniana e michelstädteriana veglia crisalidea su quello stato limbico di incompiutezza che separa il “non essere più” dal “non essere ancora”:

Chiudi tutte le porte.
Noi veglieremo fino
all’alba originale,

fino a che un’immortale
stella segni il cammino,
novizii, oltre la Morte!


Ipallage, si diceva: in Dopo l’attributo “lontani” sintatticamente si riferisce a “giardini”, ma idealmente a “primavere”: in altri termini attraverso lo scambio Corazzini codifica tutto il senso di una nostalgia retrospettiva. Ma l’interrogativo vale per la maggior parte delle figure semantiche o retoriche (e finanche fonologiche), lo spostamento logico-grammaticale della determinazione che attiene al termine pressoché adiacente potrebbe anche oltrepassare il puro intendimento semantico e alludere a una spiritualità oscillante o non supportata da coscienza, a una dissociazione percettiva o cognitiva, nonché a una oggettività non adeguatamente concettualizzabile né iterabile, che adotta caratteristiche che non le ineriscono alle quali al contempo cerca di sottrarsi, ovvero a una verità incorporata che accomuna entrambi i termini (come nel paronomastico - e in tal caso fonologico - accostamento nominale Gilberte-Albertine, laddove le proprietà dei nomi paiono alchemicamente trapassare le une nelle altre, con le imprevedibili e “necessarie” conseguenze nella estetica proustiana, che ben sa il valore delle analogie, delle associazioni, degli echi remoti che risuonano al di sotto della soglia della coscienza).

In Per organo di Barberia, diversamente, la primavera è eminente emblema della poesia stessa, vale a dire una oblazione altrettanto vana (“Primavera di foglie / in una via diserta!”) come il suono dell’organetto, che inascoltato si disperde senza speranza di ricezione, cadendo nella sazia indifferenza del fondamentalmente edonistico contesto dannunziano (nondimeno, relativo più al dannunzianesimo che allo stesso D’Annunzio, del quale conosciamo più le cadute che le elevazioni). Oltrepassato il luogo comune della crepuscolare replica in chiave negativista e trasgressiva, e talora provocatoria, al presunto poeta-vate, resta per esclusione il referente “vita” (“la Vita si ritolse tutte le sue promesse”, dice Guido Gozzano) che il soggetto dell’esperienza percepisce come declino, mancanza, fuga, da reificare inoltrandosi nella metafisica dell’oggetto e delle analogie spirituali, attraverso le quali il pensiero si fa sensibile senza al contempo smarrire l’equilibrio tra ispirazione e testo. Illudersi di eludere la finitezza: è ciò che induce Corazzini a indulgere all’antropomorfismo (o viceversa a uno sfruttamento solo interiore del pretesto paesaggistico) e a riversarsi nelle metamorfosi della natura, i cui elementi, come il poeta stesso si finge, si rimettono all’avvicendarsi di estinzione e di ingannevoli prefigurazioni di riscatto. E in Per organo di Barberia la parola “vanità” (“vanità di un’offerta / che nessuno raccoglie!”) potrebbe anche rinviare alla poesia come privilegio solitario non a tutti accordato, o più presumibilmente a una condanna altrove non sperimentata. Prossimità di privilegio e di condanna, di elevazione e di perdizione: un motivo già superbamente leopardiano nel Passero solitario, e baudelairiano in L’albatros.

In Corazzini, fin dalle sue primissime prove in lingua, prevalgono un sentimento di consunzione e l’immagine di un temperamento sfaldato ed esausto che concorrono a delineare l’abolizione della differenza tra arte e vita in vista dell’inveramento del simbiotico nesso tra poesia ed esistenza; in tal senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria esistenza residuale come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando altri crepuscolari assumevano la morte, l’avvertimento dell’inconsistenza, nonché la tendenza a una antifrastica autosvalutazione, come metafore scritturali di una quasi snobistica effrazione nei confronti della cultura ufficiale. Ma tanto in Gozzano che in Corazzini l’uscita dalla storia e la trascrizione letteraria della vita, la loro stessa enfasi dimissionaria, si riveleranno sterili e ingannevoli quanto il loro originale:

Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte
sorrido e guardo vivere me stesso.

(Guido Gozzano, I colloqui).


È con Le aureole che l’ispirazione di Corazzini inizia a progredire, paradossalmente, ritraendosi: il suo vocabolario poetico si assottiglia e si fissa intorno a scarsissimi motivi, declinando entro una ristretta sfera di temi, di accenti e di variazioni verbali, contemporaneamente all’imminente opzione versoliberista, ogni avanzo di slanci affettivi (aperti nondimeno a una maggiore possibilità di simbolizzazione) per una disincarnata trasvalutazione delle cose che ancora fanno parte del mondo. In questo procedere verbale e sentimentale palesemente à rebours, al lamento e al singulto sopravviene la contemplazione assorta. Predisporsi alla contemplazione del nihil aeternum (adombrato nella rima di carattere quasi performativo “chiara-bara”: forse solo alla morte pertiene la conoscenza), straniero a ogni forma artificiosa del sentire e del fare versi regredire verso un tempo anteriore e in disparte nominarlo. Contravvenire alla vita, dunque, ma solo per necessità, al di qua - o forse oltre - ogni falsificazione. Consumato il dannunziano “sogno di Sperelli” (un sogno di carattere unicamente estetico, il cui fallimento è rivelato dallo stesso antieroe dannunziano che, come egli dice, si era gettato nella vita, come in una avventura insensata, “alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all’accozzo fortuito delle cagioni”) alla poesia crepuscolare non attiene che amare l’agonia sillabando la vita, ma per viam negationis.


Elisabetta Brizio

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