giovedì 25 marzo 2010

Elisabetta Brizio, “Sulle tracce del sanatorio di Dobbiaco: Toblach e 'Toblack'”


Che Toblach fosse luogo astratto, svuotato di ogni senso fisico, “anticamera luminosa della morte”, come esemplarmente sintetizzava Sergio Solmi (a proposito di Toblack di Sergio Corazzini), e successivamente altri con lui, è solo parzialmente vero: vale a dire, è vero nella misura in cui ci riferiamo alla trasfigurazione letteraria condotta dai versi corazziniani sul sanatorio di Dobbiaco. Il quale peraltro è effettivamente esistito (Dobbiaco e San Candido, o Toblach e Innichen, se si preferisce, tradizionalmente erano due luoghi di cura della Val Pusteria). Nondimeno, il sanatorio di Toblach non coincide con quello che certa letteratura critica indica nella vicina San Candido.

Il Dott. Cesare Bartolucci gentilissimamente mi riferisce, in seguito alla sua circostanziata ricerca sulle tracce del sanatorio di Dobbiaco, che “interrogando alcuni anziani del posto, tutti concordano nell'individuare il sanatorio nell'ex scuola elementare (una costruzione a tre piani), sicuramente di aspetto "ospedaliero" o di caserma. Tale edificio si trova in via Conte Kunigl, di fronte all'ufficio postale, via che peraltro si continua con la Gustav Mahler. La costruzione in via Conte Kunigl viene soprannominata "LAZAR", il lazzaretto, dagli anziani. Attualmente ospita per conto della Provincia autonoma un centro diurno per portatori di handicap.

Credo che questa sia la versione più credibile circa l’esatta ubicazione del sanatorio di Dobbiaco. Dalla piazza della chiesa il lazzaretto dista pochissimo. In successione troviamo: la piazza, il Comune con Banca Cassa Rurale, il supermercato Sapelza e l’ex scuola elementare
Lazzaretto”.

Se tale preziosa precisazione non molto potrebbe aggiungere alla decodifica dei versi corazziniani, essa adombra tuttavia l’ipotesi fondamentale che Corazzini potesse figurarsi un luogo reale anziché congetturale quando si accingeva a trasfigurarlo attraverso la creazione poetica. Rileggiamo i quattro sonetti, legati in progressione dai numeri romani, dei quali il primo contravviene alla tradizionale struttura sonettistica, essendo i versi incorporati in una sola strofe anziché scanditi dall’avvicendarsi delle quartine e delle terzine, come accade nelle altre tre parti, sorta di feed-back nell’esplicitare la forma della prima, che non a caso si presenta graficamente contratta. Da sfondo sfocato del senza tempo nell’atonalismo delle mezze tinte e della acromatica malinconia crepuscolare (non solo le “vie”, ma anche le “giovinezze” paiono liquefarsi in “un grande sole malinconico”) nella descrizione dell’ambiente esteriore (laddove i simboli della campana, della fontana e della porta chiusa sono tra le più ricorrenti allegorizzazioni corazziniane), più avanti il codice tende a precisarsi quel tanto che serve a delineare il nesso tra l’evanescente spazialità e le “defunte primavere”, “le preghiere vane” e le “speranze perdute” dello spirito obsolescente. Allora Toblach diviene Toblack, “ospedal tetro”, luogo circoscritto e insanabile della vacuità dei desideri, nel quale si consumano tante adolescenziali meditationes mortis:


I


…E giovinezze erranti per le vie
piene di un grande sole malinconico,
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni, tutte
le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un occhio
di madre che rincuora e benedice.
II

Le speranze perdute, le preghiere
vane, l’audacie folli, i sogni infranti,
le inutili parole de gli amanti
illusi, le impossibili chimere,

e tutte le defunte primavere,
gl’ ideali mortali, i grandi pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno bere,
e quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile
e di perduto è in questa tua divina
terra, è in questo tuo sole inestinguibile,

è nelle tue terribili campane
è nelle tue monotone fontane,
Vita che piange, Morte che cammina.

III

Ospedal tetro, buona penitenza
per i fratelli misericordiosi
cui ben fece di sé Morte pensosi
nella quotidiana esperienza,

anche se dal tuo cielo piova, senza
tregua, dietro i vetri lacrimosi
tiene i lividi tuoi tubercolosi
un desiderio di convalescenza.

Sempre, così finché verrà la bara,
quietamente, con il crocefisso
a prenderli nell’ultima corsia.

A uno a uno Morte li prepara,
e tutti vanno verso il tetro abisso,
lungo, Speranza! la tua dolce via!

IV

Anima, quale mano pietosa
accese questa sera i tuoi fanali
malinconici, lungo gli spedali
ove la morte miete senza posa?

Vidi lungo la via della Certosa
passare funerali e funerali;
disperata etisia degli Ideali
anelanti la cima gloriosa!

Ora tutto è quïeto; nelle bare
stanno i giovini morti senza sole,
arde in corona la pietà dei ceri.

Anima, vano è questo lacrimare,
vani i sospiri, vane la parole,
su quanto ancora in te viveva ieri.


I sonetti di Toblack (“Rugantino”, 27.X.1904, poi confluiti in L’amaro calice, pubblicato nel 1904 con la data del 1905) si aprono in uno sfondo di indeterminatezza estrema (“…E giovinezze erranti per le vie”) conseguita non soltanto metonimicamente (“giovinezze” propende per l’astrattezza) quanto per la quasi ingiustificata congiunzione coordinativa copulativa inusualmente preceduta dai puntini di sospensione posti all’inizio, soluzione espressiva che pare sottendere la prosecuzione di un discorso già altrove cominciato, e che stabilisce una indistinta e tuttavia ossessiva continuità in questo lento (il peculiare uso della virgola ne sottolinea la scansione), disilluso e irreversibile - e dalla cadenza quasi ritualizzata - andare verso l’estinzione.

Gli elementi del catalogo crepuscolare - deprivati di ogni presunzione di oggettività e statutariamente riferibili a una sfera solo soggettivistica, sub specie interioris hominis - sono introdotti in un contesto, la città-sanatorio, che si propone di accentuare il senso di astrazione dalla vita e finiscono per smarrire ogni relazione con il proprio referente. “Portoni semichiusi, davanzali / deserti, qualche piccola fontana / che piange un pianto eternamente uguale”: tali entità refertuali sono poste in rapporto di coordinazione attraverso una sintassi nominale che inscena l’allusione a un seguitare lento e cadenzato, analogon verbale e prosodico del corteo dell’ultimo viaggio. Pur funzionando come sempre da paradigmatici specchi dell’io, con sensibile deviazione dalla logica della designazione, tali presenze-parvenze oggettuali passano attraverso una condensazione connotativa proprio mentre perdono di consistenza materiale, sfumano e si destrutturano in un ulteriore straniamento come per dare la percezione della propria estraneità al mondo fisico (e la versione definitiva di Toblack documenta lo sforzo corazziniano in tale direzione). Nella prima parte assistiamo a una solo apparente figurazione di un esterno, le cui componenti fungono da delineazioni dell’evento in una rarefazione che mette in crisi l’idea stessa di realtà come rappresentazione: l’oggetto corazziniano è la forma elettiva dell’inconsistenza della rappresentazione, con la conseguente dispersione della nozione stessa di realtà. Siamo di fronte a una indeterminatezza funzionale al crescente procedere astrattivo in coniugazione con l’evanescenza, motivo ispiratore e connotatore del testo. E contemporaneamente il paesaggio di Toblach si fa ipostatico e al contempo universale.

Nel secondo sonetto la descrizione diviene più marcatamente interiore, vale a dire il luogo appena tracciato nei suoi lineamenti essenziali diventa lo spazio in cui svanisce - nella medesima forma elencatoria per rapide evocazioni per prolessi - l’idea dell’infigurabilità di una prospettiva a venire. Vengono reiterate le figure metaforiche “campana” e “fontana”: stigma di condanna, diversamente che in altri luoghi corazziniani, la prima (peraltro unico dato sonoro eccedente sul silenzio che grava sull’intero componimento, un’assenza di sonorità, nondimeno, caricata di altri significati), espressione suprema di una progressiva consunzione, di una temporalità versata che coincide con l’agonia, la seconda. Ma l’epifonema (molto prossimo alla tautologia, nel costante corazziniano assimilarsi di vita e morte) “Vita che piange, Morte che cammina” vanifica ogni nostra divagazione ermeneutica. Con il referente “ospedale” si verifica, nel terzo sonetto, un mutamento, se non di tono, di densità verbale, in vista di un indebolimento dell’astrattezza attraverso l’immissione nell’universo morale dell’apprentissage della distruzione organica. Un costante (“senza tregua”) “desiderio di convalescenza” pervade e possiede i giovani “di sé Morte pensosi”: ma da “dietro i vetri lacrimosi”, bagnati, dunque, non solo di pioggia. Con l’introduzione della dimensione dell’ospedale diviene più esatta la qualità della nominazione: viene pronunciato il nome della malattia, letteralmente, la tubercolosi, si delinea una reale pulsione di convalescenza, neutralizzata dal sopravvenire della bara dalla terminale “ultima corsia”. Ma “quietamente”, “sempre, così”, nella rassegnata sottomissione a una meccanicistica ineluttabilità, iterativa e ossessiva. Il sonetto di chiusura costituisce una invocazione - di qualità eminentemente autoreferenziale - all’anima di un giovane trapassato che emblematizza la sorte collettiva nell’alonata luce dei ceri: l’iterazione dell’attribuzione anaforica “vano” nell’ultima terzina vale come sottolineatura della inermità e della vanità di ogni resistenza, finanche spirituale, disposizione che fa di Toblack un cantico della rassegnazione.

Toblach è luogo di deriva e documento di sopportabilità, dimensione incerta di trapasso, paesaggio liminare dello spirito disilluso di una assorta (“pensosi” sono i “fratelli” del poeta) umanità residuale che, non dimentica della vita (“disperata etisia degli Ideali”), indugia - quasi a reclamare l’ultima verità - alle soglie: dalle quali misura l’elegia dell’esistenza, in crescente identificazione con la sparizione. E i versi di Toblack costituiscono la trasposizione metaforica (ius vitae ac necis, quindi il destino stesso) di un ambito che da luogo di cura declina in spazio (irreligioso, malgrado i fugaci riferimenti al “crocefisso” e alla “Certosa”, che non possiamo evitare di raffigurarci nella chiesa parrocchiale di Dobbiaco, con attiguo cimitero: altrimenti, perché accade realmente di commuoversi in quei luoghi?) di appressamento alla morte, metaforizzazione, dunque, dell’inattingibilità della vita o dell’ascrivibilità alla dissoluzione.


Elisabetta Brizio

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