“Provincia del linguaggio”, in certo modo, il silenzio: limite ombroso ed immoto avvicinandosi al quale le parole, i suoni, le voci si diradano, si fanno via via più rari, e insieme più puri – allo stesso modo che il nulla, il vuoto, l'abbandono, l'oblio, l'opacità crepuscolare sono “provincia dell'essere”. E in ciò, forse, precisamente in questo rapporto, in questo dilatato e dolente intervallo/ferita, fra la voce e il silenzio come fra l'essere e il nulla, sta, oltre che l'attualità perenne del crepuscolarismo, anche l'essenza del genere elegiaco modernamente (e variamente) rivisitato, dal D'Annunzio delle Elegie romane («Tacciono i venti sopra: non fremito corre le cime; / non, nel profondo incanto, giungon da l'Urbe voci. // Nascere dal silenzio paiono tutte le cose / come le salienti nubi dal mare. (...) // Soli i lauri con lieve tremito incessante / dan tra la selva indizio de la nascosta vita») al Rilke delle Duinesi («ma ascolta il soffio del messaggio eterno / che dal silenzio si forma, e che ti giunge / dai morti prematuri. / (...) E abbandonare anche il proprio il nome / come un giocattolo spezzato»). Ma già l'elegia latina (si veda Properzio, IV, 7: «Cynthia namque meo visa est incumbere fulcro, / murmur ad extremae nuper humata viae. / (...) Inter complexus excidit umbra meos»), esplorava quello spazio “tendente a zero”, sottile ed infinito, minimo ma insieme colmo di risonanze sconfinate, che divide la parola dal silenzio, la vita dal nulla.
«E sarà dolce non seguirne il senso». Le vecchie canzoni, le parole logorate, stinte, affiochite dalla lontananza fino al limite dell'evanescenza e del dileguo, emblematizzano la condizione nuda e indifesa, essenziale ed insensata, della vita ormai protesa alle soglie del nulla e del vuoto. La soglia, il limen della morte (il leopardiano «supremo scolorar del sembiante», il momento estremo in cui “non si sente nulla”, o, precisamente, “si sente il nulla”, delle mummie di Federico Ruysh) rende l'uomo presente e vigile alla propria nullità, alla propria quasi essenzializzata e ontologizzata
nihilitas; allo stesso modo che, sul piano della stilizzazione metatestuale, il bianco, il vuoto, il silenzio che avvolgono e velano la parola la riconducono al cuore luminoso della sua fragilità, al tesoro splendente della sua mortalità che è preludio di rinascita. (M. V.)
essence is the word for the finger
that shows us bright blankness
Dead in Time
You’re dead already
What’s a little bit more time got to do
whit it
sing sound silence
of my sound
that shows us bright blankness
Dead in Time
You’re dead already
What’s a little bit more time got to do
whit it
sing sound silence
of my sound
Jack Kerouac
In perfetta convergenza tra misure prosodiche e dettato interiore, nell’articolazione strofica di Elegia (Frammento), pubblicata in una plaquette a parte senza indicazione della data nell’intervallo intercorso tra l’uscita del Piccolo libro inutile e del Libro per la sera della domenica (entrambi del 1906), Corazzini svolge il motivo della malinconia crepuscolare attraverso un emblematico - e funzionale - rallentamento del discorso poetico enfatizzato dal frequentissimo uso della virgola, ma senza per questo stravolgere quella continuità sentimentale che lungo i versi è percepibile nell’iterazione assidua e ossessivamente marcata di alcuni gruppi semantici.
Stabilito come eminente connotatore del testo, il campo onomasiologico relativo al pianto - leit-motiv incontrastato e debordante dell’opera - assegna una definitiva uniformità di ispirazione tanto a una tonalità emotiva fatta di rassegnazione regressiva che al nucleo tematico fondamentale: il quale gravita intorno al tema, già pascoliano (ma privato delle pascoliane implicazioni) del compianto per l’infanzia ignara, spazio dei sogni e delle illusioni della vita. La coerenza tematica di Elegia emerge nella quarta strofe, attraverso l’equivalenza semantica di “triste” e “dolce”, i due aggettivi di derivazione jammesiana che nelle rimanenti strofe, nonché negli altri testi corazziniani, si mantengono nei limiti della loro pur impercettibile differenza di significato, laddove il “forse” - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi - non ha valore restrittivo, ma di estensione e di dilatazione dell’attesa vana:
sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che una sera,
forse più dolce e triste, all’improvviso
t’avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera.
Nella seconda strofe alla nozione di un passato pieno di dolcezza (“Ti sarebbe / dolce un imaginare di lontani / giorni che la tristezza esiliò / con le favole”) fa riscontro un presente di malinconica tristezza (“quelle povere favole soavi / senza amarezze e pure, adesso, tanto / tristi che, quasi, piangi per averle / in cuore, tutte”). E a un presente di tristezza, individuabile ancora all’inizio della terza strofe (dove l’autore sembra quasi catalogare alcuni degli oggetti del repertorio crepuscolare):
Piangi pur anche la malinconia
mortale d’una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell’ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso?
dovrebbe succedere, inusualmente in Corazzini, un futuro che, come il rifugiarsi nel passato, si riserverebbe di offrire al poeta la tristezza di una felicità evanescente e improbabile:
Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore?
Analogamente, più avanti:
Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno
Definita (al verso 52) l’equivalenza semantica dell’abusatissima coppia corazziniana “triste” e “dolce” il poeta può procedere all’identificazione tra passato e futuro, pervasi di congetturali dolcezze, in un presente che appare piuttosto gravato da una disillusa estenuazione. Né la felicità trascorsa, intrisa di immagini e cose periture, e come tale falsamente rassicurante, né quella ipotizzata per il futuro, sono dunque idealizzate dal poeta come resolubili ad alternativa allo stato attuale. È piuttosto in questo che tali presunte felicità convergono in rapporto di equivalenza, fino a dare la definizione della loro inesistenza reale come dolcezze avvenute o solo astrattamente idealizzate, e del loro essere un presente dilatato che si prolunga in quella configurazione del tempo quale si mostra alla coscienza quasi infantilmente regressiva del poeta, senza una precisa scansione temporale. Apparenze nel tempo presente (seppure, statisticamente, il tempo presente venga contraddetto nel testo dalle innumerevolissime e preponderanti forme verbali che - a partire dalla zona conclusiva della terza strofe - sono quasi costantemente coniugate al futuro, mentre si nota la grande scarsità di verbi al passato, ridotto a pura evocazione di possibilità), il poeta e la sua “cara anima” sorella (nonché figura femminile assorta, silenziosa e languente come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau), ma apparenze certe pur nell’astensione e nell’implosione, sostanze verbali d’invocazione e di attesa. Il dualismo tra passato (evocato in termini di un ritorno del represso) e futuro (che è pura allegoria e finzione) si risolve in un rassegnato qui ed ora inalterabile, in perpetua dilazione, che media e incorpora il tempo trascorso insieme a quello a venire. Il poeta sa che è vano cercare un varco che trasmuti in dolcezza la tristezza per la fine delle cose. La regressione verso il passato diventa allora il segno di una volontà di perseverare nel presente della vita, avvertita come proroga nel segno della stasi e della passività, nella perplessità - per dirla con Gozzano e Corazzini - dell’”ora crepuscolare”. Azzardando una interpretazione figurale, il poeta, nella sua storicità, è figura del presente, laddove passato e futuro ne costituiscono l’adempimento.
La coerenza elegiaca, nell’estensione ininterrotta nel tempo di un languore mortale, si situa nell’insistenza sull’idea del pianto, sulla incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirica-sensoriale. Sono quasi del tutto assenti in Elegia qualsiasi idea di concretezza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua e qualsivoglia variazione emotiva dalla monocorde intonazione elegiaca e lacrimosa. L’impossibile rifugio nelle favole infantili - e in un futuro alla stregua di favola - è reso lievemente, nell’inevidenza delle immagini e delle evocazioni, in un ritmo lento senza dissonanze e interferenze discordanti, in un continuum dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato, un bianco opaco silenzio, tale da suggellare in questi versi il trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore e del tempo:
Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.
In endecasillabi sciolti (l’endecasillabo pascoliano, in particolare quello dei Conviviali, più che un’intrusione letteraria pare profondamente assimilato da Corazzini), la scomparsa della rima e l’incessante ricorso all’enjambement che è prolungamento per definizione, nonché l’inconclusione finale allusa dai puntini di sospensione, esemplificano un desiderio di abbandono senza fine, di infinitare il senso di dimissione, di dismissione e di rinuncia. La stessa particolarissima versione grafica di Elegia (riprodotta in versi esageratamente spaziati, quasi a dare una maggiore risonanza a ciascuno di essi in una versificazione, nondimeno, che mantiene un andamento narrativo nel momento stesso in cui allude all’impossibilità del divenire delle due anime), la sproporzione che invade i bianchi margini in alto e in basso, distanze minime rispetto ai larghi spazi vuoti che corrono tra un verso e l’altro, potrebbero concorrere a una visione d’insieme della fissità del tempo, quando al contrario gli intervalli grafici tra i versi di solito orientano diversamente il cosiddetto tempo della lettura; la poesia di Corazzini, che ha già assistito alla dissoluzione delle rigorose forme tradizionali, ritorna qui con un endecasillabo che si sottrae a ogni rimarchevole spezzatura e che esclude enjambement prolungati o “clamorosi”, con un andamento da invocazione sempre uguale, senza progressione ritmica ascendente o discendente. Nondimeno, tale poesia enfatizza lo spazio bianco mentre paradossalmente lo depriva del suo valore di pausa.
Pur pubblicata separatamente, Elegia è un testo non eccentrico rispetto agli altri libri di versi di Corazzini: stessa è la vena crepuscolare, stessa è l’apparente aproblematicità dei contenuti, così come l’autoreferenzialità di un “tu” tutt’altro che relazionale, che è al contempo colloquio con l’anima ed eminente mascheramento di un monologare senza interlocutori, al di qua del limitare del sogno. Stesso è l’ambito fenomenologico essenzialmente solipsistico e di chiusura al mondo esterno: l’ennesimo non luogo dell’anima nell’inviolabile aura in cui si svolge il colloquio del poeta con sé stesso. Ricorrono inoltre l’idea di reclusione, di omissione e privazione, di sospensione del tempo, l’estraneità a una temporalità dispiegata, uno stile antilirico al grado zero, in un codice dimesso e quotidiano, quella totale assenza di scarto tanto stigmatizzata da Gianfranco Contini, e che costò a Corazzini l’esclusione dalla continiana Letteratura dell’Italia unita. L’écart dal livello medio della lingua, il cosiddetto salto stilistico, si verifica assai di rado in Corazzini, soprattutto perché il suo discorso si compie al di fuori di una configurazione tragica, e non cerca alcuna giustificazione storica ma avviene in una tonalità minore, quella, avrebbe detto Guido Gozzano, dell’”esilio” e della “rinuncia volontaria”. La vocazione a una identità, l’aspirazione al possesso della propria esperienza e memoria, paiono frustrate fin dall’inizio in versi in cui Corazzini significa la mancanza di legame con il proprio passato: una volta nominato, il passato svapora nell’assenza di senso e di possesso.
C’è un senso fondamentale dal quale discendono informazioni e motivi: una fenomenologia limbica (e l’atmosfera quasi conventuale che fa da sfondo sottolinea questo straniamento del e dal tempo) descrive due vite congetturali che non riescono a pervenire a compimento, che pare vogliano resistere alla vita e indugiare in perpetuo sbigottimento in uno stato intermedio, in una enfatizzazione dell’hic et nunc: qui l’autore mostra solo disillusione senza resistenza, codifica con l’inaridimento della poesia l’elegia dell’impossibile realizzazione dell’umano. Il soggetto lirico staziona ai confini del tempo nel tentativo di dilazionare il presente per aggirare questa ad infinitum sperimentata assenza di una prospettiva futura verso la quale ogni slancio propulsivo è votato al fallimento. Il poeta vive un secondo tempo: porta in sé ciò che è scomparso alla stessa maniera in cui prefigura le tracce di quello che sarà. E il presente è il secondo tempo quale segno dell’incertezza della vita che adombra la sua sparizione, è estensione e risaltare del silenzio mediante la diminuzione (“un poco”, “piano”, “piccola”, “povero”, “chiara”, “parole bianche”), l’evanescenza anche per mezzo di locuzioni privative (“ombra”, “senza amarezze”, “siano per morire”, “quasi bianchi”, “senza dirti nulla”, “senza sapere”, “non seguirne il senso”, “quasi più”, “senza sapore”, “senza senso quasi”), la lontananza (“addio”, “favola antica”, “lontani giorni”, “vecchi abiti”, “obliati”, “vecchie canzoni”, “verrà la pace”, “avrà tempo”).
Attraverso questa convergenza dei vari tempi dell’esperienza Corazzini non scarta del tutto l’idea di una trasmutazione letteraria - di una metaforizzazione - del proprio allontanamento dalla vita e ci restituisce il suo penultimo travestimento, prima delle soluzioni ironiche o pseudo-ironiche di Dialogo di marionette e di Bando e del sontuoso simbolismo introdotto in La morte di Tantalo, il quale peraltro finirà per sancire l’eternità della vita come eterno nulla non diversamente che in Elegia, che sotto certi aspetti ne costituisce il preludio. Ma senza la forza del pronunciamento dei corazziniani versi estremi, quasi l’ostensione di un privilegio sovrano e solitario. In Elegia la voce del poeta è sommessa, udibile appena e anche le parole hanno perso la loro forza allusiva, perché la poesia crepuscolare è silenzio poetico, è una semantica della sparizione, codificazione del vuoto e della vacanza. Non resta allora che l’assumibilità del silenzio - nella e oltre la scrittura -, paradigma, fato e destinazione del poeta contemporaneo. Quasi paradossalmente, in Elegia Corazzini sembrerebbe dire, con il Kerouac di Mexico City Blues:
mentre leggi questo
è lo stesso del vuoto
dello spazio
proprio ora
e lo stesso del silenzio che odi
dentro il vuoto
che è là
dovunque
Elisabetta Brizio
Luglio 2009
Inserisco qui un'acuta nota di Patrizia Garofalo, ispirata dallo scritto di Elisabetta Brizio.
RispondiElimina"Una scrittura d'analisi della parola dove ciò che penetra è il sentimento del trovare senso al non senso, persino di canzoni e scritti depositati nell'anima.
Il fondersi del fluire della vita in una aspazialità tanto cara ad alcuni saggi di Heidegger è l'estremo tentativo umano per difendersi dalla finitezza della morte.
Riuscitissimo l'accostamento critico tra melanconia e rallentamento della parola che trova, negli enjamblement del testo proposto, l'abbandonarsi nello specchio fiorato che imbriglia il tempo in un gioco di comparse e scomparse.
Anche la bottega come interno- interiore si rifrange in un esterno di passi vicini all'"attraversamento" senza meta, lento e prolungato per ingannare la morte".
Patrizia Garofalo