Non
l’attestato della propria orfanità, o di un destino di solitudine
e di distanza: poesia, per Adolfo De Bosis (1863-1924), è medium
comunicativo di responsabilità collettive e voce essenziale del
fondo ultimo dell’esistente con tutti i suoi significati nascosti e
le sue tensioni irrisolte. Allo scioglimento di questo equivoco
strutturale, che vede una poetica basarsi sull’equilibrio di spinte
contrarie, o quantomeno su una ambivalenza vocazionale, concorrono
uno sguardo mitico, una energia mitopoietica eletti a vero e proprio
metodo operativo, a principio informatore, strutturale, espressivo e
insieme interpretativo. Tale criterio sorveglia pressoché tutte le
dodici sezioni di Amori
ac silentio sacrum,
le dispone relazionalmente e riaduna gli elementi diffusi e
radicalmente eterogenei, prossimi e lontanissimi – del soggetto,
della natura, del passato, dell’arte, delle questioni di carattere
sociale – che ora si presentano come riflessi d’archetipi, ora
assumono caratterizzazioni ideologiche, ora assolutezza di accento.
Si avverte un’affinità di sostanza tra l’intonazione, il livello
sonoro e la classe delle categorie trainanti, delle figurazioni,
delle essenze e dei principi vitali – quali acque, terre, aurora,
sole, nella costellazione delle maiuscole che si affollano in questi
versi –, la cui funzionalità specifica si mette in rapporto con
l’intero, senza quindi precludere la ricomposizione della
molteplicità di risonanze e riviviscenze centrifughe inevitabilmente
chiamate in causa. In un’opera, avverte l’autore nel prologo, che
tiene insieme «il frutto di antichi ozi» e «il segno di recenti
propositi».
Non
ricordo chi lo scrisse, né a che riguardo, in Amori
ac silentio
si ha comunque la stessa sensazione di star di fronte a un’opera
pointilliste
in attesa che si verifichino la confluenza e l’accorpamento degli
elementi messi a contatto. Simultaneità, interdipendenza e
interdefinibilità delle componenti tematiche conferiscono ai versi
di De Bosis
una
consistenza nuova: alludere, perché è il suo fondamento, all’idea
della memorabilità dell’umano e al valore della vita, colta nella
sua fatticità. Questo, trasvalutando posizioni veteropositivistiche,
e inquadrando la letterarietà di quelle estetistiche – tipiche del
clima decadente cui De Bosis stesso partecipava – attraverso una
galleria di liriche incarnazioni che definiscano il nesso tra la
bellezza e il progresso dell’uomo: due fattori, questi ultimi,
dialetticamente interagenti in un confronto che porta lo scrittore a
misurarsi con la propria memoria e con le contingenze storiche. Il
nesso problematico che l’autore cerca di instaurare intercorre tra
estetismo e ragione, i due vettori dell’ispirazione di De Bosis.
Problematico perché “bellezza” ha al contempo valore intrinseco
e strumentale, conta come fine ma anzitutto come tramite.
De
Bosis vive drammaticamente il dissidio tra il culto della vita e
della bellezza e l’eredità del lutto per il suicidio paterno. Ora,
se l’argomento del lutto familiare lo accomuna a Pascoli, in Amori
ac silentio
il referente autobiografico non viene amplificato per via allegorica
o mediante relazioni contenutistiche, né sulla scia delle
sovrabbondanti rime tematiche pascoliane, bensì si dissolve in
allusioni indirette, come altrettanto si può dire per ogni
disposizione affettiva di De Bosis, la cui souffrance
del ricordare viene depressa a favore di un procedimento che mira a
reinventare, e insieme a razionalizzare, l’esperienza e il vissuto.
E neppure De Bosis s’adagia smarrito nel flusso del mistero cosmico
o quotidiano che vorrebbe tenere lontana la storia, come non inclina
verso i termini estremi dell’istintivo o dell’irrazionale fin
de siècle,
il suo discorso lirico modulandosi – se non entro un canone
definito – su una predeterminata disposizione razionale, immanente,
dove le seduzioni decadenti vengono sottoposte al vaglio di una
riflessione mediata dalla irrazionale razionalità della poesia.
Diversamente detto: la lingua letteraria è il punto di incontro di
linee concettuali l’una all’altra estranee ma polarmente
coessenziali, e la coscienza estetica è la stessa contraddizione che
le unifica, ed è perciò chiamata a disciplinare l’impensato
razionalizzandolo e traendolo dal suo orizzonte iper-simbolico perché
incida in modo decisivo sulla vita del soggetto e sulla storia in
corso.
La
mediazione tra dimensione estetizzante e l’istituirsi di una
coscienza sociale si può far discendere dalla lettura dell’opera
shelleyana; per Shelley la divinità dimora nel mondo e meta ultima
della poesia è la scrittura di un poema universale che dovrà
sgorgare, quasi per necessità, da una configurazione lirica
all’interno della quale la bellezza fattasi parola è il nome che
trascrive ed esplicita le significazioni oscure dell’invisibile.
Nel dramma lirico Prometheus
Unbound
(che De Bosis tradusse) Shelley invitava i poeti ad attenersi a un
lessico tale da sorprendere e nominare nuove profondità
dell’impensato in un percorso quasi medianico. Ma a ben vedere, in
Shelley si assiste a una ambivalenza fondante, e dialettizzabile: da
un lato egli prefigura visioni utopiche con la sua tensione verso
l’infinito e il divino, visioni che prendono contorni
misticheggianti, che in quanto tali suppongono un sensibile scarto
dal mondo: l’oltreumano contempla il confluire dell’umano
nell’anima universale. Dall’altro, entusiasticamente acconsente a
idee di giustizia e di libertà, e pertanto mostra attenzione verso
esigenze non svincolate dalla storia. Ed è stata forse questa
seconda istanza, trapassata nell’ideologia di De Bosis, a indicare
la via per un impiego e per una declinazione non solo estetici o
esoterici, ma anche ideologici e potenzialmente operativi, del
pensiero riflessivo. Per Shelley del resto la percezione
dell’invisibile è thrilling
al pari dell’invocazione alla libertà.
Attraverso
il sensibilissimo influsso shelleyano irrompe dunque il valore
dell’elemento politico della poesia di De Bosis, trasfuso in
atmosfere ora sfavillanti, ora rarefatte e smussate in una
indeterminatezza di fondo. Un «Mare Oceano» di vita avvolge l’uomo
di forza feconda e creativa, la quale – Tilgher osservava – se
oltrepassa le possibilità conoscitive dell’individuo, al contempo
lo preserva e lo nobilita. Non un individuo in fuga, il soggetto
lirico è interamente immerso nella vita: un vitalismo siffatto può
eccedere i limiti dell’umana ragione senza con ciò segnare una
ricaduta nel modello radicale di una natura matrigna o in
osservazioni iper-critiche del destino. Thrilling
per De Bosis è l’itinerario della vita che si inoltra verso la
propria necessità, eludendo sovraesposizioni al negativo mediante un
contemperamento di poesia e azione al fine di avvolgere la sfera
dell’esistente entro un’aura, duplice e una, di verità
e bellezza.
Lo shelleyano slancio dell’esistenza coincide con una forma di
libertà che sa la positività – in quanto potenzialità – del
limite e dell’impensato concessa all’individuo che si avvii verso
la propria destinazione. E lo stesso coefficiente, per così dire,
“popolare”, viene assunto a ingrediente apportatore di vitalità,
come la forza che coopera per l’armonia universale. In Amori
ac silentio si
scopre la presenza di Keats, in particolare nell’idea di bellezza
come rigenerazione intellettuale e nella visione dell’esistenza
accolta senza residui che si risolve nella fusione – tuttavia
insufficiente a giustificarne l’identificazione – di bellezza e
verità, evidente presupposto di un estetismo che pone e attesta le
proprie ragioni assolute, arbitrarie solo all’apparenza, e invece
dettate da una profonda necessità esistenziale e ontologica, dunque
soggettive, sentite, niente affatto dogmatiche: ragioni
extrarazionali o sovrarazionali più che irrazionali. Benché la
certezza della verità solitamente si situi distante dall’io. Così
in Ode
on a Grecian Urn:
«Beauty is truth, truth beauty, – that is all / Ye know on earth,
and all ye need to know».
In
Amori ac
silentio
si percepisce inoltre qualche eco leopardiana, tanto in certi stilemi
petrarcheschi fatti propri da Leopardi, così come nella visione
preromantica e romantica di una sensibilità moderna non più
“ingenua”, non immediata e irriflessa, bensì “sentimentale”,
tesa a ricercare e a ricostituire, per via consapevole e volontaria,
la perduta armonia con la natura. E La
ginestra,
quel disperante richiamo alla fratellanza universale, viene recepita
da De Bosis in maniera positiva, non indefinitamente utopica, o
atteggiata a una stoica accettazione.
Eccedono
invece gli echi carducciani, che si legano alla peculiare forma di
nazionalismo del «Convito», consistente nella riabilitazione degli
ideali risorgimentali dopo averne espunte le scorie roboanti,
retoriche ed eroiche. Dirompente è l’incidenza carducciana
nell’elogio del progresso, incarnato nella figura del macchinista
nell’omonima sezione, e in certa configurazione metrica della
versificazione, la quale certo risente delle novità, delle singolari
oscillazioni sillabiche, dei “rubati” per usare un termine
musicale, introdotti dalla metrica barbara.
De
Bosis è tra i primissimi, in Italia, a usare il verso libero,
emulandolo – come poi farà Pavese – da Whitman: un verso
discorsivo e disteso, salmodiante a volte, eppure melodioso e
flessibile, come in A
un macchinista.
L’Inno
al Mare
invece è in distici elegiaci barbari, carducciani. Ma proprio la
metrica barbara, nel momento stesso in cui cercava di riprodurre in
italiano le movenze di quella classica, scardinava alcune
consuetudini metriche dell’italiano, e faceva paradossalmente il
gioco della nuova metrica, aprendo la via alle libere e mutevoli
scansioni, per così dire enarmoniche, del vers
libre.
L’Inno
alla Terra
è in versi brevi, con rime frequenti e variate, e anticipa
nitidamente la strofe lunga del D’Annunzio alcyonio. Ai
convalescenti
è in quartine di versi liberi con rime ora baciate, ora incrociate,
ora alternate. Amori
ac silentio sacrum
non obbedisce a un a priori prosodico: è un autentico cantiere di
poliformi esperimenti metrici, un esempio di proto-Novecento ante
litteram,
in uno svolgimento stilistico circolare che contempla
l’allontanamento dalle regole della tradizione per poi riaccedervi
più consapevolmente con gli stessi ornati motivi formali. Un
multiforme connubio di tradizione, modernità e innovazione, che era
nell’aria, e che viene da De Bosis recepito ancora parzialmente,
senza grande convinzione, ma in modo significativo in rapporto al
contesto storico e letterario: una alternanza di soluzioni che, oltre
ad aggiungere vitalità e complessità, allude all’uscita dallo
stato di perenne “convalescenza” proprio della sensibilità
decadente, e sembra dunque aprire la strada a nuove soluzioni, a
ulteriori e più solari prospettive, tanto da conferire al percorso
stesso dell’opera quasi un valore di riflesso particolare e
individuale di un’intera esperienza storica.
Proviamo
allora a osservare un po’ più da vicino i momenti salienti del
discorso creativo di De Bosis, prevalentemente declinato nella
tipologia dell’inno. Nella Invocazione
l’arte
si configura nelle vesti di un sogno che balena nell’uomo pur
restando nei margini di una tensione inappagata; l’arte dissolve
ogni abisso e, nonostante i «misteri ineffabili» che solleva e che
lo scriba ambisce a verbalizzare, conserva la facoltà di trarre
l’anima dalla «fredda tenebra» e dalla dimenticanza, dalla
tentazione a perdersi nell’infinitudine della corrente dell’enigma,
illuminandola alla maniera una fede che scalda e agita l’esistenza.
Con tutto ciò, l’arte è quasi inumana, «impassibile» e
«marmorea» nei confronti delle cure dell’uomo, non elide né
dissimula il suo deserto, né possiede proprietà consolatorie o di
rifugio dalla storia. I Notturni
paiono la sezione meno progettuale del libro, sembrerebbero anzi
contravvenire alle dichiarazioni programmatiche del discorso
proemiale. Qui la voce di De Bosis in tono meditativo si inarca in
una contemplazione dell’ora che vede lo svaporare di ogni
consistenza logica. In questa allegoria temporale si perde la
distinzione tra le cose: un coro unanime di luoghi e parole
stilizzati e senza corpo «sing sound silence / of my sound»,
avrebbe potuto dire De Bosis, come Kerouac nella notte beat. Essi non
circoscrivono lo spazio e non implicano il tempo, cadenzandosi su
ombre e cromie sospese in un fremito vagamente religioso dinanzi
all’accadere dell’invisibile in arcane rifrazioni sonore – vi
aleggia qualcosa di keatsiano, dei versi conclusivi di Ode
to a Nightingale:
«Was is a vision, or a waking dream? / Fled is that music: – do I
wake or sleep?». E di dannunziano: «Vegli con noi quest’Ombre ed
il supremo / lor sacro amore» (Anniversario
orfico).
La
voce della poesia è quell’essenza sonora dall’origine celata: il
laureto, da Petrarca in avanti, è emblema della parola, o meglio
della natura che si trasfonde in parola pura in virtù della vis
superba formae,
della superba forza della bellezza (della quale D’Annunzio parla
nel Proemio
del «Convito»). Tutto si amalgama in questa illogica o
sovrarazionale alternanza: stilemi letterari, suono, aroma, silenzio,
preziosità aurea, la realtà e la sua maschera, la materia e il suo
ornamento. Tutto un quadro nasce dal canto: Stimmungen
pascoliane («finissimi sistri d’argento») e dannunziane, che
forse trapasseranno in Montale («d’alti Eldoradi / malchiuse
porte») che qui sembra già di presentire. E come, nei due
accostamenti sinestesici in sequenza, «trema il Silenzio in suoi
tintinni d’oro», così la notte è palpito di vita; e nella
rimarcatura della tmesi «armonїosa / mente-misteriosa», essa è
percezione del fluire dell’intemporale «Fiume del Tempo», della
dilatazione delle cose nel dominio del silenzio in seguito
all’immissione dell’anima nel flusso immobile del senza tempo.
La
notte, però, è nei Notturni
anche
potenziale orfico, gorgo di ombre e allegoria dell’appressamento
alla morte, sotto specie di rievocazione della figura paterna («odi
me lunge tratto dal memore suolo paterno»), e, conseguentemente,
tempo e luogo in cui affiora la seduzione dolce-triste delle
ricordanze. E l’invocazione di De Bosis – che mostra quasi di
temere i convegni memoriali – è rivolta proprio alla tenebra
perché non comprometta, oscurandola, la sua identità individuale, a
quella notte che nell’aspazialità del suo spessore pur tanto
istiga il soggetto lirico trascinandolo verso «ignote rive»:
«Notte, sia con Adolfo quest’anima sua perigliosa!». Sulle
tentazioni dell’anima vulnerabile finisce dunque per prevalere
l’azione legislatrice e ordinatrice di un razionalizzante rigore
mentale.
«A
te ricorro, o Arte», De Bosis scrive nel
Sogno di Stènelo,
dopo il lungo rallentamento del ritmo nell’intrattenimento sul
notturno. Non di un riparo dell’anima, bensì di una ingiunzione a
guardarsi dentro l’arte costituisce il tramite comunicativo. La
bellezza, nella Elegia
della fiamma e dell’ombra,
oltrepassa l’estetico e suscita l’imperativo: «adora», «ama»,
altro grande motivo di Amori
ac silentio,
e, inoltre, segnale di una costante disposizione testimoniale e non
giudicante. La vita è massimamente esperibile, ma resta
ingiudicabile. Ancora: come il silenzio, l’amore è l’intermediario
dell’avvertimento della totalità. La parte dedicata ai
Sonetti è
piuttosto diseguale per temi e modulazioni (intimistiche perlopiù),
e soprattutto per le concessioni che in note elegiache De Bosis fa
alla propria mitologia privata: il discorso lirico si disperde in
attimi retrospettivi oscillando dal desiderio di eclissarsi negli
affetti familiari alla memoria della casa paterna e del trauma
abbandonico, dall’amore caduco (alla caducità della bellezza,
della giovinezza e dell’amore era dedicata la sezione Ala
caduca, a
una temporalità corrosiva la già crepuscolarissima Anima
errante,
che segue I
sonetti)
all’immagine di un’anima attediata e con le sue contraddizioni
mai ricomposte, dall’elevazione dello spirito affinché ispiri il
suo nominare al culto della libertà in vista del superamento di ogni
indugio che trattenga e dissuada dal guardare la vita
«innamoratamente», neutralizzando quella venatura di spleen
«ne l’infinita santità del Tutto» – assunto che sembra
misticamente ribaltare la rilettura leopardiana della biblica vanitas
vanitatum
come «infinita vanità del tutto». Nel sonetto di chiusura
ricorrono diverse voci pascoliane dei Conviviali,
lì sottoposte alla tecnica dello straniamento, qui ancora
all’interno di un campo metaforico: alludo, ad esempio, a «remo»,
che diviene «ala» nei Conviviali,
dove il
viaggio in mare di Odisseo assume le caratteristiche di un volo.
Nell’endiadi «esperto di calma e di fortuna» De Bosis rende
l’impressione di aver trovato il proprio centro nell’inquisire,
nello sperimentare l’apparentemente acquisito ove esso sia a
portata di mano, accessibile ai sensi e alla ragione («fiso è il
mio cuor vigile ad una / meta»): ha interrogato cielo e mare e il
suo «divin riso salmastro», nesso sinestesico che anticipa il
novero delle facoltà del «Mare Oceano» in quello che sarà il suo
poema del mare.
Ai
convalescenti
definisce uno stato convalescenziale generazionale, la remissione dal
quale sarà possibile attenendosi alle acquisizioni del pensiero
logico. La malattia potrebbe ascriversi, Croce osservava, alla
contestualità di sfarzo, straordinarietà compiaciuta e genericità
nelle istanze dell’estetismo. De Bosis intuisce l’intima
contraddizione del condividere utopia e deriva, e ne teme il
contrappasso che le spetterebbe. Ma il «male mortale» è per lui
anzitutto assistere inattivamente a qualcosa che istintivamente si
percepisce come errore, il perseverare in questa inerzia, cui De
Bosis oppone un ideale di vita come prassi sulla linea della fusione
paradossale, Tilgher affermava, dei due opposti dell’attivismo
dannunziano e della pascoliana prossimità con il mistero. Né
sgomento cosmico né oltreumanesimo trapassano separatamente nella
sezione Ai
convalescenti,
centrale nell’ideologia di De Bosis: eludendo lo stallo in
interrogativi iperbolici e senza soluzione, e mantenendosi al di qua
di ogni giudizio, De Bosis si arresta a una accettazione fattiva dei
margini dell’esistenza: «Io dico: Non dimandare! / ché la tua
breve ragione / non ti si svii dal timone / mentre corri per l’alto
mare». Non accelerare il ritmo, lasciare che la convalescenza dello
spirito si attui naturalmente: «così le pietre per un pendio, /
così l’amore verso l’oblio, / andare, pur sempre andare, / come
i fiumi vanno al mare…». E seguitando: «Io dico: Aspetta! C’è
un mondo / che tu non conosci, il migliore. / Aspetta: ti albeggia
profondo / del cuore del tuo stesso cuore». Tanto qui che nell’Inno
alla Terra,
più avanti nell’opera, il sogno di pace universale non è un
obiettivo solo ideale e individualmente perseguito, ma è «sempre
universalmente – è ancora Tilgher a notarlo – umano e
collettivo», un sogno dei figli della terra «confederati in un gran
patto d’amore». Un po’ oltreuomo nella sua vocazione a
trascendersi, un po’ fanciullino nella prospettiva di uno sguardo
aurorale sul mondo, del conoscere per la prima volta le nostre
antecedenze, l’uomo si avvale della ragione nella qualità di
paradigma che unifichi bellezza, praxis
e misura.
Gremito
di metafore e di accostamenti analogici e sinestesici, l’Inno
al Mare (Da l’Eremo del Monte Cònero una mattina di settembre) –
laddove l’elemento marino, nella misura in cui lambisce
innumerevoli terre, è principio di congiungimento di tutte le genti,
ipostasi mitica di libertà – è un elogio a un mare oceanico che è
insieme profondità e increspatura, movimento perenne e silenzio,
eternità e insofferenza, insonnia e minaccia, «repubblicano» e
vittorioso. E alla domanda: qual è la destinazione del mare? De
Bosis si limita a rispondere: «io non dimando. Adoro». Una aurora
(l’anima, la poesia?) dalla vocazione mimetica si mescola al
«sonante palpito» delle acque marine e si inabissa nelle loro
intrasparenti e noumeniche profondità, riemergendo da questo
amplesso «esperta di sacre paure», e «recando / la visïone e il
rombo seco» dei misteri dell’anima. La superficie liquida è più
che speculum
che
rimandi una riproduzione verosimigliante; o meglio: lungi dall’essere
un immemoriale sepolcro di acque, la distesa marina è sostanza
fluida che contiene e veicola «sacre parole, eterne», echeggia
«d’una misterїosa vita», e la terrestrità esperisce
dell’essenza della liquidità.
Nel fondo
del mare una Aurora talattica (l’«anima sgombra» e ricettiva del
poeta) anziché il mistero invisibile scopre la sua vera misura: il
riverbero della terra, che si incrementa di forme equoree, in un
reciproco assimilarsi degli innumerevoli strati dell’esistente per
una conformità sostanziale. Il mare restituisce una entità più
compiuta, più complessa, simile a un paesaggio rovesciato – in
realtà compenetrato, amalgamato, “incorporato”, per usare un
termine proustiano – di Elstir. Adattando un’espressione di
Michel Butor relativa alle Regate
di Monet: «l’alto dà un nome al basso» e «il basso svela
l’alto». Nel mare dunque non va definitivamente smarrito il senso
della terra, «se l’Alba / da le pacate verdi solitudini, // da le
foreste algose, da gl’inaccessibili gorghi // pur un notturno
murmure rauco trae».
Segmento
particolarmente eccentrico del libro, A
un macchinista
sovverte i canoni delle altre sezioni sia sotto il profilo di una
intonazione in linea di massima antilirica (dialogistica, monologante
con frequenti interrogazioni), che per ciò che attiene all’andamento
piano e narrativo, saggistico quasi, dove le misure si allungano
(scompare qui quell’iperbato che finora aveva ritmato non solo
l’endecasillabo) per figure iterative quali l’anafora,
l’enumerazione e l’elencazione ellittica per una moltiplicazione
delle valenze simboliche degli oggetti. Oggetti che qui ineriscono
alla vita moderna. Con evidenza e potenza whitmaniane e carducciane,
A un
macchinista
introduce in Amori
ac
silentio
la storia e il suo progresso, e la loro portata anche problematica
che le figure di ripetizione sottolineano ed enfatizzano,
moltiplicando questioni e sollecitazioni. Non più la natura e le sue
vibrazioni profonde rese attraverso scaltriti accostamenti verbali e
preziosità decadenti, ma il luogo distinto dell’inestetica
attualità della stazione nella designazione dei suoi dettagli
ossessivi con il loro valore strettamente referenziale: la locomotiva
in corsa, «l’acciajo», «stantuffi», «molle», «valvole»,
striduli freni, il «fragore ferreo» delle «rotaje» sottolineano
l’elogio del nuovo dinamismo della vita, della storia in atto e
dell’avvenire. «Avanti avanti» è un esplicito richiamo a
Carducci, presente in alcune scelte lessicali, in quel margine di
intimismo qui concesso che culmina nella domanda, solo implicita in
De Bosis, «dove e a che move questa, che affrettasi / a’ carri
foschi, ravvolta e tacita gente?», che nel Carducci di Alla
stazione una
mattina
d’autunno
è immersa in un’atmosfera plumbea che avvolge l’ambiente, lo
sfondo, la scena, e risulta dominata da un tedio dissipato, invece,
da De Bosis, la cui stazione non è di partenza ma d’arrivo, luogo
non dell’addio e del distacco, ma al contrario dell’incontro, del
ritrovamento. Carducciano è, comunque, il rimando alla locomotiva
che «sfida lo spazio», intesa come rappresentazione simbolica del
progresso tecnologico – sebbene nel più temperato e spirituale De
Bosis il treno sia privo di quelle connotazioni tecnolatriche e
marcatamente laiciste che troviamo, ad esempio, nell’Inno
a Satana.
Come il mare, così – metonimicamente, per il macchinista che la
conduce – la locomotiva è passibile di assunzione emblematica
quale condizione dell’unificazione tra i popoli: «tu rompi e
oltrepassi i confini e gli odii formati dai volghi / e dalla natura»,
«tu mescoli le lingue e le esperïenze degli uomini inconsapevoli».
Se
nella sezione Pace
da un lato si ristabilizza l’usata flessibilità del ritmo, con
l’immissione di accenti e temi foscoliani, commisti a echi di
eventi contemporanei (altro è «il despota», sostanzialmente
identico l’incitamento enfatico a rimettersi alle già foscoliane
«egregie cose»), dall’altro la scansione innodica non si discosta
dalla dimensione acustica dell’elogio al macchinista, ribadendo il
rifiuto dell’isolamento dell’artista per la speranza di una pace
universale: «Avanti, avanti! Fuggon gran fasci di nuvole a tergo: /
vien nova luce, in contro, venta gran rombo d’ali. // È
l’Invocata, alfine, la Nike novella che scende / nunzia de’ cieli
al mondo, l’aquila bianca, Pace». Antileopardiano nella concezione
di una natura per costituzione intrinseca benigna, lievemente
leopardiano in qualche stilema tipico del recanatese, leopardiano sui
generis
nella misura in cui viene vaticinato un vicendevole appoggio tra gli
individui, l’Inno
alla Terra
è anch’esso scandito dall’iterazione anaforica attraverso cui la
poesia innodica si declina, unitamente a una ondulazione musicale
che, dannunzianamente quasi, fluisce senza spezzature anche in virtù
di una diversa distribuzione delle rime, mentre va scomparendo
l’iperbato, esondante nella maggior parte delle sezioni del libro.
In generale, l’iperbato – oltre che accentare la valenza
semantica del ritmo – denota uno spostamento, una alterazione, una
enfasi che si riversa su un determinato elemento dislocato rispetto
all’ordine usuale del discorso – al modo della poesia stessa,
specie se volutamente artificiosa, «anywhere out of the world»,
come quella dell’estetismo, è sempre uno straniamento rispetto
all’ordine esistenziale ordinario, all’ordine temporale e
ontologico.
Venuto
meno ogni dissidio, ormai esperto della vita e dell’arte De Bosis
chiude questa sorta di canzoniere (per estensione, nella misura in
cui delinea una evoluzione tematica, perlomeno realizza, se non una
teleologia, almeno il diagramma di una intenzione, svolgendola
strutturalmente) con un canto di lode – nel duplice solco dantesco
e shelleyano – a quella terra che trattiene così tante affinità
con la poesia come accordo tra mondo interiore e sfera esteriore dei
rapporti e degli accadimenti («mentre al segreto ritmo io tento
s’accordi la vita», Il
comiato)
e convergenza di biografico-biologico ed espressione. L’opera
allora assomiglia alla vita stessa, un’offerta sacra all’amore e
al silenzio quale sua controfigura, figura rovesciata come in un
ologramma.
Fondato
da De Bosis, «Il Convito», una delle riviste dell’estetismo
decadente italiano (stando anche al suo programma iconografico e alla
sua ricercatissima veste editoriale) esce tra il 1895 il 1907 in
forma aperiodica. Contro lo stagnare di energie intellettuali in
orgogliosi ancorché sterili sogni claustrali, ma in particolare in
reazione al declassamento del culto della bellezza e dell’ideale da
parte della «presente barbarie» – che disabbellisce tanto la vita
che gli ideali – è rivolto il Proemio
del «Convito» (del gennaio 1895), probabilmente redatto da
D’Annunzio, che vi sintetizza il programma della rivista nel
recupero della volontà e delle idealità della stirpe latina quale
incarico primario dell’artista militante nell’intuizione, e nella
messa in atto, della «vis superba formae»
–
dove non è difficile distinguere simboli ed empiti nietzschiani che
senza il loro carico tragico erano affluiti nel Trionfo
della morte.
L’eccesso
di estetismo degli anni che vanno dal 1895 al 1900 veniva
stigmatizzato da Croce come contegno, emotivo e intellettuale,
verbalistico, intemperante, narcisistico. Un movimento senza
obiettivi – scevro com’era di reali o giustificabili motivazioni
all’infuori di una smaniosa ed esaltata insofferenza – e votato
pertanto a perseguire «una parvenza di scopo». Secondo la
prospettiva crociana questo orientamento estetizzante di fatto non si
concretizzava né in una reazione alle estenuazioni romantiche,
giacché a liquidare certe forme epigoniche del romanticismo aveva
già provveduto la restaurazione carducciana; né, in ultima analisi,
in un paese qual è il nostro, dalla salda – e per certi aspetti
retriva – tradizione umanistica e classicistica aveva molto senso
(malgrado le pesantezze e la rigidità deterministiche e mimetiche,
già lamentate da D’Annunzio a proposito di certo verismo) temere
istanze positivistiche avverse alla purezza e all’autonomia del
fatto artistico.
L’estraneità
di De Bosis alle estremizzazioni del culto della bellezza pura
testimonia la sincerità della sua ispirazione. Tuttavia – secondo
Croce – se parole come “giustizia”, “libertà”, “umanità”
e “bellezza” non sono in lui né mendaci né astratte, e sono
anzi riconducibili a un’autentica aspirazione al “bene”, resta
pur sempre il fatto che questa aspirazione risulti indeterminata, non
compiutamente espressa, un limite, questo, che finisce per marcare la
sua poesia di «ridondanza, imprecisione, prolissità», fino a dare
l’impressione di una aspirazione irrisolta, di un disegno
irrealizzato. E lo stile De Bosis per Croce è riconoscibile proprio
come tale, nella condizione espressiva di atto incompiuto, in questo
risolversi in «un impeto che si perde nello spazio», e che vorrebbe
essere «quasi un canto senza parole», un senso che si fa quasi
immediatamente labile. Successivamente, Montale ne parlerà nei
termini di «un poeta assai notevole, eppure non più letto».
La
lettura di Croce va comunque a sua volta contestualizzata con la sua
avversione a ogni vero o presunto irrazionalismo, alla “fabbrica
del vuoto”, al proverbiale “dilettantismo di sensazioni”, che
contrassegnerebbero in senso lato, pregiudicandola, la sensibilità
decadente.
Il
«potere indistruttibile della Bellezza», la «necessità delle
gerarchie intellettuali», si legge nella nota proemiale:
affermazioni tanto antinaturalistiche e antipositivistiche quanto
impopolari che accomunano il
«Convito»
al «Marzocco» in quanto al loro carattere estetizzante. La bellezza
è puro paradigma estetico selettivo che si narcisizza e che tende a
realizzarsi in elitaria applicazione etica in vista della elevazione
sul «grigio diluvio democratico odierno», come auspicato da
D’Annunzio attraverso lo Sperelli. La sede delle riunioni dei vari
convitati – ricorda Ugo Ojetti – consisteva in «stanzette che in
un mezzanino del palazzo Borghese, sulla discesa verso Ripetta,
Adolfo De Bosis (…) aveva addobbate pel suo “Convito”». Esse
«erano in puro stile dannunziano: odor d’incenso o di sandalo,
luce mitigata da tende e cortine, sete e velluti alle pareti,
cassepanche e tavole del rinascimento, divani profondi senza
spalliere con venti cuscini, e in vecchie maioliche fiori dal lungo
stelo, fasci di rami fioriti. Sopra una stanza che si diceva fosse
stata addirittura il bagno di Paolina Borghese, voltava un soffitto
affrescato ai primi del seicento. In un’altra, un’erma di Shelley
(…) ci fissava cogli occhi chiari nel puro volto da adolescente».
Con
De Bosis, Giulio Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis, Giuseppe
Cellini, Nino Costa, Francesco Paolo Michetti (artisti di ispirazione
simbolista, alcuni dei quali provenienti dal movimento In
Arte Libertas),
Pascoli, D’Annunzio, Angelo Conti mostrano una certa conformità
temperamentale nel fatto di prendere le distanze dal realismo e di
assumere – nei codici loro propri – le espressioni mitologiche
per poi modernizzarle secondo un’ottica soggettiva. Se, ad esempio,
De Carolis tenta di reimmergersi in un perduto paradiso di emozioni
estetiche di cui più non si ha cognizione, nel tentativo di
riprodurne la sensazione originaria che consenta di eludere, o di
riconfigurare interiormente, il mondo reale con la sua durezza e il
suo grigiore, il Pascoli dei
Conviviali
esegue l’operazione inversa trasferendo la coscienza decadente alle
figure del mondo classico: è Pascoli, vale a dire l’uomo
novecentesco, che dice attraverso Calypso: «Non esser mai! non esser
mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!» nell’explicit
di quello che forse è il capolavoro dei Conviviali,
L’ultimo
viaggio.
Meglio il mai stato che l’essere, ovvero la mortalità ingenita
all’esistenza; meglio il nulla dell’ingenerato che il «non esser
più», cioè la cognizione del nulla (lo stesso dirà, a un
dipresso, l’italianisant
Valéry in Ébauche
du Serpent:
«L’être n’est qu’un défaut / dans la pureté du non-être»).
Ad Adolfo De Bosis (che probabilmente avrebbe detto che il nulla è
concepibile solo e soltanto in virtù dell’essere) Pascoli dedicò
i Poemi
Conviviali:
come è noto, l’attributo “conviviale” non deriva dalla
circostanza che i primi poemi pascoliani fossero usciti nelle pagine
del «Convito», quanto dalla precisazione fatta da Pascoli stesso
nel poema di apertura, Solon:
«Triste il convito senza canto, come / tempio senza votivo oro di
doni». In altre parole: la poesia risuonava nei convivii, dove, in
un clima disteso e raffinato, di raccoglimento meditativo e insieme
di cordialità conversevole, era possibile ascoltare la voce
dell’aedo che reca in sé «l’eco dell’Ignoto».
A
punto viene spontaneo domandarsi quanto, di ciò che è stato detto
finora, non entri in contraddizione con i tratti melodrammatici del
cerimoniale cui si attenevano gli adepti del «Convito». Se con
convergente afflato usavano adempiere a una sorta di liturgia (e la
connotazione liturgica è allusiva della persistenza di qualche senso
proprio di una spiritualità remota da riattualizzare) esoterica
entro una enclave spirituale, dove il maestro “simposiarca”
imponeva, insieme al suo progetto di Bildung,
un rituale non troppo coerente con le istanze della sua poesia: quasi
in un rito di iniziazione, enfaticamente levandosi con la coppa colma
verso gli intervenuti all’italico convito in cerchio solennemente
disposti, ispirati e fiduciosi nell’avvento di una nuova era,
inneggiando alla stirpe, alla purificazione operata dall’arte, a
iperboree altezze da conseguire, in uno stato di totale straniamento
dal mondo. Mentre – scriverà Luigi Valli – «di fuori giungeva
un mormorio basso di plebi avventate con le loro piccole brame verso
ogni gioia più misera o adagiate nel loro tedio, giungevano voci di
piccoli uomini dall’Urbe contaminata di bruttezza materiale e
morale, giungevano echi di poesia mediocre, ultimi languori
romantici, fatui trionfi di poetastri dell’immondizia». E di
fronte alle parole del “simposiarca”, intenzionate all’impensato
e a un suo investimento extraestetico, i convitati si stordivano fino
a più non udire quel «vocio delle plebi irridenti».
Resta
questa perplessità, pur assumendo l’accezione “plebe”
nel
senso etimologico di pienezza, di totalità – che il riferimento
all’«umana plebe» dell’Inno
al Mare
suggerisce – e assolutezza dell’umano nella dimensione della sua
socialità. Di quella stessa pienezza e di quella stessa totalità di
cui appunto il mare, cui De Bosis inneggia, è figura codificata,
evolvendosi così in simbolo di esistenza inquieta e fraterna. Il
valore della scrittura sta allora nella sua attitudine ad attenuare
la distanza tra gli esseri. Neutralizzare l’accezione negativa di
“plebe” – ove sia assunta nel senso meno corrente di emblema
possibile delle infermità della borghesia dovute al suo
coinvolgimento con una politica eticamente fatiscente – implica la
prospettiva, se non la fede, dell’estrinsecarsi di energie
spirituali unitamente a facoltà razionali e morali, doti demandate a
una nuova prassi creativa, come si può desumere dalla prefazione ad
Amori ac
silentio,
parole peraltro già pronunciate in una delle sedute dei convitati in
Palazzo Borghese:
«Ben
altra fiamma agitava la Poesia sul limitare della nostra giovinezza
pensosa, quando la sua voce a noi parve non balbuzie di tenui cure,
sì linguaggio grave e soave, altero e libero, da uomini a uomini,
quasi una salutazione e un augurio.
E
intendemmo come i degnati della sua grazia guardino innamoratamente
alla Vita e alle sue apparenze eterne e mutevoli e abbiano pronti li
spiriti a goderne le segrete armonie e a salire per gradi sino alla
contemplazione del Bello che è in cima della disciplina platonica.
E
più intendemmo che tanto è loro concesso significare quanto è
passato prima traverso la fiamma del loro cuore, la virtù del loro
intelletto, la molteplicità delle loro esperienze umane e divine.
Operare,
soffrire, amare, combattere; esercitare le forze nel travaglio,
nell’impeto, nella meditazione; misurare i grandi cieli purpurei o
il riso de’ propri figli; essere aperto al remo, all’aratro,
all’obbedienza, alla dominazione; (…); fiorire nel proprio sogno
e crescere integro e generoso nella compagnia degli uguali; provare,
conoscere, vivere pienamente, puramente, liberamente; tale è la
scuola unica del Poeta, se il Poeta è fatto a insegnare al mondo
“speranze e timori non conosciuti”».
Elisabetta
Brizio
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