«Eterno
in me il tuo viso». Questo verso parrebbe, da solo, sintetizzare
l'essenza del mondo poetico di Gabriele Marchetti. Un mondo nel quale
la parola, risonante nell'interiorità dell'io lirico, rende eterno
nella reminiscenza ciò che è irrevocabilmente caduto nel tempo e
dal tempo, e si fa natura (un po' come nel primo Montale o in certo
Piersanti) per via d'artificio, assimilando la voce della natura, la
matericità materna e matricale del creato, attraverso termini spesso desueti,
neologismi dalla singolare e straniante impronta classica, ma sempre
dall'intensissima campitura fonica, volutamente agli antipodi della
lingua ostentatamente piatta, quotidiana, a volte quasi televisiva,
se non pubblicitaria o burocratica, di tanta “giovane poesia”.
Le
pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di
livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel
ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.
Anche
queste ninfee, che farebbero pensare ad un decorativismo fine
Ottocento, sono l'oggettivazione di un ricordo che sopravvive alla
morte, della persistenza di un “tu” idealizzato anche e
soprattutto dopo che ha trasceso i limiti del vivente e del
transeunte.
La
morte, la fine del viaggio terreno e temporale, è qui discesa, o
meglio ascesa, alle Madri, sublimazione nella sfera immutabile degli
archetipi astrali. E la parola poetica stessa ne è riflesso. (M. V.)
1
Eterno
in me il tuo viso
d’ultima
estate terrigna,
quando
a colli e falde arroventate
ferite
membra cosparge d’ebbro sale
un
verde temporale.
Impenna
all’aria smossa
dai
ricordi, triste pavana,
la
tua pelle che fronteggia bruna morte,
le
sere che un cielo dal respiro ferace
si
spegneva in luce.
2
Andavi,
è vero, come d’aria una folata
gelida
a stemperare il ventre caldo
d’estati
afose, ognuna già sprecata –
ma
la voce t’increspava in un pianto
(solo
adesso mi pare averlo inteso)
che
riallacciava in te un legame infranto.
Ora
non assolvo, tra quanto ricordo,
smorte
mani più bianche a salutare
nel
primo buio, alla notte in bordo.
3
Un’ultima
estate, chiedevi al tempo, ma inutilmente –
e
cantavi nei silenzi
spiegazzati
dentro i vecchi cortili
come
se non a te, ma a un altro toccasse di perdere luce
per
tenebra rifonda –
e
immobile restavi ai secchi colpi
d’un
libeccio smisurato, capace a fondere in sabbia fine
nei
pianori appartati
dove
il fieno stende ad asciugare.
Pause
hai lasciato di voce e canto per i viottoli che a sera
diffondono,
lieve manto,
il
sapore di tristezza delle more.
C’è
pioggia, adesso, sull’arsa collina di sole, che incava
accoglieva
dei piedi
il
correre nudo, le piaghe più atroci.
4
Nell’erbata
dove slomba, in torme sfinite,
l’orda
lucida dei cinghiali, fa notte nera
il
vento che viene ansando da smosse rive
di
torrente: il rigagnolo anche sommerge
la
pietra bianca con su incisi date e nomi.
Ai
rami bassi di snelli castagni s’impala,
strappato
a morsi, del raponzolo dorato
una
lebbra di corolla, e tremando all’aria
è
ricordo di tue fiabe ridette ad ogni stella,
che
ora sfumano l’uguale, immenso nulla.
5
Scottano
al sole di luglio gli ocracei stagni
dove
innocue le rane e più flebili i gerridi
sfamano
l’acqua d’increspanti cerchi -
intanto,
smunti di verde, giardini nell’afa
schiantano
tacendolo tra sedie e altalene
ogni
canto di cicala, singhiozzo nell’erba.
Sulle
pietre del greto salmastre ombre allunga
al
centro limaccioso del fiume, tra le ossa
dei
nidi sfatti, tra foglie che aggrumano a riva,
l’
allegro vociare in questa immota tristezza
delle
ragazze (legate i capelli alla nuca, sciolti
i
sorrisi al franto specchio, non sanno cos’eri).
6
Luna
scioglie nel lago –
fa
paura a ridirsi quel vuoto
che
sparendo hai creato.
La
terra, tu gli manchi
ed
eri acqua nella stagione secca,
eri
lucida vita.
Oscura
la collina –
di
stelle non conosco pietà
per
continuo dolore.
Le
bestie, tu gli manchi
ed
eri amica nelle lunghe sere
di
screpolata estate.
7
Spengono
i rumori della strada, a sera
(nei
tuoi occhi si venava madreperla) –
ho
atteso di guardare i voli delle cince
nascosto
tra il cordame di vitalba secca -
o
le macchie che luna lascia sui prati,
contate
da solo, in silenzio, nell’azzurro
morituro
dei castagni, se anche giugno
se
ne andava senza riportarti dal nulla.
8
Stavi
tra prato e fiume, senza più dire, attorno
la
furia dell’acquazzone ti annegava le mani –
lurido
di cielo il grigio apricare, una pausa
accresceva
le acquate che rimontavano forte.
Piangevi
per le piccole volpi nascoste al folto
dei
tronchi scuri, tra gli ontani, sulla collina,
quando
i cani scioglievano la corsa disperata
e
tu rimanevi come respiro troncato sul nascere.
9
In
neve di luce crollava il giorno
e
della tua festa rimase fermo
nell’aria
scossa dal riverbero di lune
un
nastro che ora al buio s’ inviola.
L’orma
cancella ai tocchi della mezza,
i
denti spezzati delle innumeri ore
dentro
gli ombrosi giardini (quel sole…)
in
calma attesa di un lento tuo gesto.
Di
fronde risuona, risacca, ogni mattino
una
diversa voce: è il ricordo del mondo
in
alto riverso, rami divenuti gli scogli
del
cielo più blu, quell’autentico mare -
o
i cadenti colli di verde grondanti,
argine
al fiume, corrosi se pioggia
sfaldava
uno per uno i corpi appesi
al
crepuscolo triste, ingorgo di rovi.
10
Nell’agosto
che a stento s’allumava
ogni
sera, puntuto d’echi e ritagli di voci,
l’ombra
che sei emergeva da acque ceree –
il
biondo dei tuoi capelli, ericale traccia,
mai
spento ha il cribrare questi miei giorni –
se
nuova pena all’alba cruentava più lontano.
11
Una
morte, la tua, che ha lasciato intatte le altre vite –
le
amiche di allora in silenziosa e più fresca penombra
attendono
di ritrovarsi, e ricordandoti, che non smorzi.
Le
pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di
livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel
ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.
12
Slavata
dai canti -
l’afa
candida del mezzogiorno,
cenere
imbianca il cuore
delle
cose –
Tu
vieni dai morti
alle
pianure bruciate in solleone,
con
te porti
profumo
di spezie e lacrime, o pioggia –
da
pinete di porpora, i passi blu
nelle
sere impalpabili di luce.
Ma
tu vieni dai morti
e
ad ogni alba ci ritorni.