(articolo apparso su
"Trickster", 2010, n. 8, rivista elettronica
dell'Università di Padova momentaneamente non più in linea)
(La dea Hathor, o Hethert, sormontata da una figurazione solare già presente nella pittura rupestre sahariana d'età preistorica)
La
disperazione dell'etimologista
In una
pagina finissima ed ariosa dello Zibaldone,
Leopardi si soffermava ‒
parlando, certo, anche per esperienza personale, lui assiduo
indagatore di catene etimologiche e arcane risonanze ‒
sulla "disperazione
dell'etimologista", teso alla ricerca, spesso vana, degli
archetipi comuni ed essenziali ‒
dei prima nomina,
dei simplicissima signa,
come li chiamava il pensiero medievale ‒
sottesi, più o meno in profondità, a tutti i diversi idiomi, eppure
frantumati e dispersi, spesso, in mille intorti indistricabili
rivoli.
Questo
vale, per certi aspetti, ancor oggi, sebbene, a distanza di quasi un
secolo dalle pionieristiche ed eruditissime teorie di un Alfredo
Trombetti o di un Graziadio Isaia Ascoli (che davano, in qualche
modo, consistenza storica, filologica, etimologica, alla lingua
naturale di Leibniz o alla innere
Sprachform,
alla interiore, sovraindividuale, e dunque tendenziamente
intersoggettiva forma
a priori di
ogni espressione linguistica, teorizzata da Humboldt), i lavori, pur
controversi, di un Greenberg o di un Ruhlen, di un Semerano o di un
Bernal, di un Bomhard o di un Alinei, abbiano conferito all'ipotesi,
in senso lato, di una possibile monogenesi, di una possibile comune
matrice ancestrale di tutti i ceppi, di tutti i phyla
linguistici,
una maggior fondatezza e una più solida verosimiglianza.
Stando
alle teorie genetiche di Cavalli-Sforza recepite da Alinei (1996:
417), l'homo
loquens
sarebbe emerso per la prima volta in Africa, circa centomila anni fa;
e quasi subito avrebbe iniziato a manifestarsi la "diaspora
africana" delle lingue, la differenziazione degli idiomi a
partire da comuni archetipi, Ur-Simboli,
universali linguistici.
È
stato uno psichiatra italiano attento alla linguistica e alla
filosofia del linguaggio, Tullio Rizzini (1999), a mettere in luce,
in un suo prezioso lavoro, molti di questi primordiali ed universali
valori fonosimbolici (che hanno però, preciserei io, un carattere
non solo onomatopeico e mimetico, ma anche conoscitivo, essenziale,
onto-gnoseologico, ancorato al pensiero astratto e all'intuizione
della trascendenza): i quali sembrano affiorare, nela loro intensità
originaria, nella loro forza aurorale e unigenita, proprio dalle
frenetiche ed abrupte associazioni verbali degli alienati psichici,
dalla alienatio
mentis
che è propria del mistico e dello sciamano come dell'esaltato e del
folle, per poi riapparire, in forma filtrata, formalmente
sorvegliata, storicamente e culturalmente consapevole, nella lingua
del poeta ‒ che è essa stessa, insegnava Petrarca, alieniloquium,
lingua altra, distinta e libera e più pura di quella, reificata,
standardizzata, appiattita, del linguaggio comune, come dei gerghi
tecnici. Alieniloquium,
alienatio,
discorso dell'Altro: Ça
parle,
direbbe Lacan, l'alterità si rivela nel linguaggio, in forma ora
inconsapevole, ora filtrata e illuminata. Il fondo comune, la comune
matrice della lingua è proprio questa alterità, questo Autre,
quasi mistico totaliter
Aliud.
È,
forse, proprio
nel linguaggio degli alienati che parla o riaffiora, senza più
i freni della civilizzazione, il linguaggio universale, e in parte
prerazionale, delle origini.
E
siffatta alterità, a cui tutte le lingue paiono risalire per
fondersi in una come le tre religioni del Libro lungo il "sentiero
di Isaia", verso il tempio di Abramo, è precisamente spazio
dell'alterità, della differenza (o della
différance,
direbbe Derrida), dentro il quale il Sé può percepire se stesso
come altro, e l'altro come altro se stesso, proprio nella
lingua, a partire dalla lingua e tornando ad essa, risalendo alle
radici, agli archetipi ‒ alle Idee-Madri, aux
sources du poème,
per usare, ancora una volta, le immagini e le parole dei poeti.
Vaste
e talora aspre reazioni (su tutte quella, autorevole ma un poco
anacronistica, ancora legata ai presupposti sostanzialmente
eurocentrici dell'umanesimo tradizionale, del Kristeller) ha
suscitato la tesi (tacciata di afrocentrismo) di Martin Bernal, il
quale, nel suo Black
Athena (Bernal:
1996), sostiene e documenta la derivazione egizia, e dunque
afroasiatica, di molte delle parole chiave della civiltà greca: così
psyché,
nel senso etimologico di "soffio vitale", verrebbe da
radici egizie (sw,
swyk)
connesse variamente ai campi semantici della luce e del vuoto,
dell'ombra e del vento (anima come fluido vitale, ma anche come luce
interiore e vuoto risonante); nymphai
da nfr,
nefer,
"bello"; hýbris,
"colpa", "tracotanza" ("peccato originale"
nel greco cristiano) da una radice egizia di analogo significato;
mŷthos
da
mwdw
ntr,
"parole sacre", "discorso divino"; la stessa dea
Atena deriverebbe il suo nome da quello di Neit (Nt
Ht,
"altare di Neit"), corrispondente alla dea Sais, a cui del
resto già Platone faceva rimontare il culto di Atena. L'elenco delle
evidenze suggerite da Bernal (che non cita Semerano, ma giunge
autonomamente, e significativamente, a conclusioni affini) potrebbe
allungarsi.
Ma,
paradossalmente, il presunto e controverso afrocentrismo di Bernal
sarebbe potuto essere ancora più deciso e radicale. La dea Neit era,
infatti, affine alla divinità libico-berbera Tanit, venerata a
Cartagine, il cui culto fu ripreso, in età romana, nella forma della
Dea
Caelestis (non
per nulla Apuleio, fiero di essere africano, e conscio delle radici
africane della civiltà classica, evocherà, nei Florida,
la «Africae Musa Caelestis»). L'etrusco Tages, il fanciullo sorto
dalle zolle per portare la sua rivelazione, e il mesopotamico Tammuz
possono rimontare ad un'origine non diversa.
Ed è qui che
iniziano ad emergere le proto-radici euro-afro-asiatiche
(proto-mande, proto-bantu e proto-indoeuropee) che stanno alla base
del mondo classico, e dunque della nostra stessa identità europea.
Ank
era, in egizio, l'essenza della vita e dell'umano; e ant
è, nel sostrato proto-africano (l'oscillazione labio-velare k/t
è plausibile nella fonetica indoeuropea), ciò che è umano; Muntu
è,
nell'ontologia bantu, cardine del pensiero africano, la forza vitale
che permea il creato, che avvolge e congiunge gli esseri (Tempels,
1971; Kagame, 1976). Da queste radici discende, forse, Anthropos;
e la medesima radice ank/ant
troviamo forse, senza aspirazione, in Anteo e in Atlante, Antâios
ed Atlas,
le cui figure rinviano proprio alla matrice oscura e primordiale di
una forza vitale che sorgeva e ascendeva dal sud del Mediterraneo,
dal mondo ancora indistintamente percepito dei Libii e degli Etiopi.
Tanit/Neit
è dea celeste, eppure incarnazione della Magna
Mater,
della Antiqua
Mater,
di Tellus,
della Madre Terra venerata negli antichi culti matriarcali. E
Anthropos,
l'Uomo primigenio, l'Ur-Mensch,
è precisamente copula
mundi,
crocevia di Cielo e Terra, di eternità e storia, attraversato da
quella axis
mundi (si
pensi al mito dei Gigantes
che
danno la scalata al cielo, ma anche al mito babelico, riconducibile
proprio all'origine della diaspora delle lingue) che egli stesso
incarna e realizza.
L'archetipo
fonosimbolico della dentale (si pensi anche alla radice egizia jta,
che troverà forse eco nell'ebraico 'adamah)
sembra rinviare all'idea di stabilità, sostegno, resistenza,
durezza, fondamento ‒ mentre la liquida l
è
principio di fluidità vitale, fecondo umore, liquidità amniotica.
Attraverso l'axis
mundi,
e intorno ad esso, Cielo e Terra,
maschile e femminile, vita e morte, sembrano intrecciarsi e fondersi.
Archetipi
ideofonici e fonosimbolici
Quanto
vasta ed universale sia la portata di questi valori e significati
ancestrali è confermato dal fatto che essi paiono riaffiorare
addirittura nei culti precolombiani: Tlaloc
è
il dio della pioggia,
Omoteotl,
il dio supremo, che pare unire, nel divino (teo),
duplicità e unità (omo),
Mictlan
il mondo sotterrenaeo, infero, la dimora delle ombre. Tornando ad
Ank,
la radice si trova, forse, pure in
Anánke,
destino, condizione umana. La dentale (esito o meno della
labio-velare), segno archetipico del fondamento, si fonde con la m,
emblema della permanenza, della durata, dell'invarianza essenziale,
del principio spirituale perenne (il manitu
amerindio
come il mana
australasico,
suggeriva
Giovanni Semerano,
come,
forse, i Manes
latini, antenati con la loro imperitura eredità, ma anche il
sanscrito manas
e il greco menos,
"mente", "intelletto", capaci di afferrare i
modelli eterni, le idee primordiali che dimorano in un cielo
superiore, il menok
dello zoroastrismo), nella radice dell'egizio Ma'at,
personificazione divina dell'armonia e dell'ordinie cosmici e del
fondamento primo del tutto: donde una lunga serie di figliazioni e di
consonanze, dall'archetipo indoeuropeo matar/metér/mater
(ove sembra affiorare anche il tema ama,
legato all'idea dell'abbraccio, del vincolo avvolgente, del nesso
vitale, dell'essere-insieme, della Cura) al concetto della misura,
métron/metior,
a quello di materia e matrice.
Quando
Virgilio (Eneide,
III, vv. 94 sgg.) scrive: «Quae vos a stirpe parentum
/ prima tulit
tellus,
eadem (...) accipiet reduces. Antiquam
exquirite matrem»,
evocando grandiosamente l'idea del ciclico ritorno all'origine, nel
contempo richiama (attraverso i mots
sous les mots,
le parole celate "sotto le parole", sondati da Saussure e
da Starobinski) gli archetipi e gli Ur-Simboli
che siamo venuti rivelando.
Una
simile atmosfera, un non diverso, per così dire, clima fonosimbolico
si incontrano nei versi del quarto libro dell'Eneide
(vv. 480-483) che ruotano intorno all'Africa, crocevia dell'axis
mundi,
culla del primordiale vincolo cosmico: «Ultimus Aethiopum locus est,
ubi maximus Atlas
/ axem umero torquet
stellis
ardentibus
aptus».
Aethiopes
rinvia
del resto, di per sé, ancora a Neit/Tanit, ma forse anche ad
Hathor/Hethert, la Venere egizia, dea dell'amore, della fecondità e
della vita: divinità forse etimologizzabile (attraverso il greco)
identificandola con una ipotetica latina Aedes
Aetheris ‒
altare della sostanza celeste, fucina ultima e suprema dell'universo
‒ non
senza un richiamo ad âithos,
calore, il fuoco del desiderio e della vita. All'idea di
Muntu/Ank/Maat
come ordine cosmico possono rinviare anche le divinità etrusche
Munth
(forse
alla base del latino
mundus,
"universo ordinato" come sostantivo, "puro" o
"perfetto" come aggettivo) e Vanth,
misteriosa ed inquietante dea infera, tramite tra il regno dei vivi e
quello dei defunti, fra il mondo superiore e le profondità della
terra. Anche l'Etrusco, d'altro canto, affiorò forse da un comune
sostrato nostratico, esteso anche all'Africa.
Maat,
del resto, è Madre-Morte (egizio mwt,
forme affini in ebraico ed arabo). Ma, come un'antica etimologia di
Ánthropos
suggerisce, l'uomo ‒
incarnando
in qualche modo la columna
universi
‒
è
il solo essere vivente in grado di alzare
lo
sguardo dalla terra al cielo. E, appunto, ancora dall'Africa sembrano
essere giunti al mondo indoeuropeo la giustapposizione, e il
primigenio connubio, di Terra e Cielo, Gaia e Ouranos: nella
mitologia degli Yoruba, la coppia Orun-Aja abbina il Tutto (Olun), il
Signore celeste (indicato anche come Olodumare) e Aja, principio
femminile, spirito dell'aria, aura fecondatrice (-Aja
è, nelle proto-etimologie universali, l'indicatore del principio
femminile, intriso di apertura, di abbraccio e di luce). Aithér
sembra
celare un richiamo alle radici proto-africane -he,
da cui lo swahili hewa,
e tej,
"porre", "luogo" (cfr. il greco títhemi).
Gaia è Ge
(altra
radice egizia indicante la Terra) più Aja,
durezza labiovelare del fondamento e apertura alata del femminile;
Orun
è forse l'egizio Horus,
dio dell'origine, del cielo, del sole, dell'eterno ritorno (si pensi
all'archetipo dell'ouroboros
‒
ma
anche alle
horae,
Horai,
che si susseguono e tornano ciclicamente su se stesse, come pure alla
radice stessa di origo,
orior,
dell'originarsi e del sorgere);
Orisha sono,
nel sistema della teologia Yoruba, gli spiriti intermedi attraverso
cui Olodumare/Olorun interagisce con il mondo inferiore. La coppia
archetipo, lo sposalizio primigenio, cosmogonico, di Ouranós
e Gâia,
trova in Geb-Aja
e Olorun
il suo verosimile ascendente. A chi obiettasse che questi ed altri
raffronti da me addotti ignorano, spesso, la distinzione fra vocale
lunga e breve, e la presenza o meno di aspirazione, si potrebbe
controbattere che gli archetipi linguistico-ontologici emergono a
livello di strutture profonde, e dunque non di suono, ma di fonema,
di realtà psicologica ed ontologica appunto, non di concreta
estrinsecazione articolatoria e fonatoria.
Dio,
in tutte le culture, è luce: luce, dice il Corano, che «non
è d'Oriente o d'Occidente».
E la luce è un altro archetipo (etimologico, semantico,
fonosimbolico) verso il quale paiono convergere le lingue del mondo.
El
e Ra
(l'alternanza fra le semivocali l
ed
r,
fra rotacismo e labdacismo, è fenomeno fonetico assai diffuso)
paiono connotare l'apparire primo della luce e della vita: vedico
Sunya,
greco Helios,
da una forma *saewel
che ha da un lato antecedenti afroasiatici (Matasovic, 2009),
dall'altro risonanze vastissime, fino alla dea celeste del pantheon
giapponese, Amaterasu, che con la giustapposizione di radici
monosillabiche evoca, ad un tempo, sulla scorta degli archetipi che
abbiamo individuato, la maternità, l'armonia cosmica, la luce che
vivifica. L/r,
El
e Ra:
il fonosimbolo o fonosemema della luce, della vibrazione luminosa e
vitale che pulsa e trema all'unisono con l'occhio della visione
intellettuale e spirituale. Ma ruah
è,
in aramaico, spirito, anima, soffio vitale; rhêin,
in greco, è scorrere, fluire (rhythmós,
rhysmós,
ipotizzava il Benveniste, ritmo vitale e flusso universale, è il
flusso stesso della vita, del pensiero, della parola, che torna
ciclicamente e ricorsivamente, con eterna vicissitudine, su se
stesso).
Ra,
ma anche Horus,
spirito onniveggente, onniavvolgente fluire della vita, sembrano
incarnare in sé, a loro volta, questa primordiale potenza. R e T,
fluidità circolare della vita che scorre e torna su se stessa e
durezza e profondità del fondamento, sembrano unirsi nel sanscrito,
e avestico, rta/asa/arta
(da
confrontare forse con l'idea greco-latina di ars
e Armonía,
intese come equilibrio, limpidezza, dominio della forma sulla
materia), principio ontologico e spirituale che si declina e si
sdoppia in Luce e Tenebre, in Ushas (Eos, Aurora, Ausosa) e Ratri
(ma, al fondo di tutto, risuona ancora l'eco universale di Ma'at ‒
che
è anche máthos,
conoscenza dell'essere che trova nella parola la sua luce).
Giovanni
Semerano ha mostrato i sottili, arcani, ma proprio per questo
fondanti, nessi che associano ‒
come
divinità della vita, del sole, della luce, del nettare immortale ‒
Elohim,
JHWH, Zeus e Dioniso
(riconducibili,
gli ultimi due, e l'ultimo, in particolare, nella forma micenea
Diwonusojo) a dios,
luminoso. Semerano elucidò brillantemente
il
vincolo che unisce JHWH ed Allah (forse a partire dal mesopotamico
Ilu, e passando attraverso una forma babilonese Ya(h)wi-ila)
e l'egiziano jahw-,
splendore (Semerano, 2000: 138 sgg.).
Che
il Divino sia una sostanza inconoscibile la quale, nei secoli e nelle
culture, ha assunto maschere ed ipostasi diverse, mantenendo immutato
però il suo nucleo semantico fondamentale, la sua ratio
seminalis
variamente effusasi, inizia ad apparire non solo una verità
teologica e un'intuizione filosofica, ma un dato storico e
linguistico.
I segni ardenti
dell'essere
Ma,
com'è noto, Dio è ehjeh
aser ehjeh,
"Sono colui che sono" o "che è" (eimì
tò ón
traduce la Bibbia dei Settanta). Nella realtà, come nel pensiero e
nel linguaggio, ai fenomeni sembra essere sotteso il substratum
dell'Essere
che tutto precede, e rende possibile e conoscibile. È
difficile stabilire se il linguaggio e la conoscenza nascano
dall'essenza o dall'esistenza, dai fenomeni o dal sostrato ontologico
(e dall'innata idea di quel sostrato) che li fa essere e li fa
"venire alla luce" del mondo e del pensiero.
Come
intuì il Trombetti, una forma pronominale es
pare tendere a rappresentare, nelle più diverse famiglie
linguistiche, la radice etimologica dell'Essere (Romaniello, 2004:
12-13). Essa affiora addirittura nel cinese zhen,
"essere" e "verità" (Chang, 1988: 24). Da
Parmenide a Gadamer sappiamo, del resto, che l'essere e il pensiero
proprio nel linguaggio si rivelano, e trovano luce e respiro. Ma s
è la consonante (invero lievissima, come un esile soffio) del
silenzio ‒
sighé, siopé,
silentium
‒
fino
al giapponese Chinmoku.
Ebraico
Shem,
arabo ism,
forse da una comune radice egizia
jmn (Amon,
jmn-m,
è il dio dal nome celato, dal volto nascosto: cfr. forse il greco
mystés,
mystérion,
che Semerano associa invece alla radice semitica indicante la Notte),
è il Nome Divino; e l'egizio sga,
sgr
è il Silenzio, di cui Osiride è signore (arabo sukotu,
ebraico Shabat,
il silenzio contemplativo). La forma sino-nipponica per indicare il
Divino, shen
(da un più antico *djen
o *zdjiien,
che parrebbe coincidere ancora con l'archetipo proto-indoeuropeo
dell'Essere e della Divinità, *es
e *dj)
suona, nella sua «voce
di silenzio sottile»,
come dice la Bibbia nel Libro
dei Re,
sorprendentemente affine. Il nome di Dio e la voce dell'Essere
sembrano di per sé avvolti dalla più alta quiete, dal silenzio e
dalla pace del mistero.
Chen,
o zhen,
in sino-giapponese, è sia pensiero e meditazione che essere e verità
(sanscrito dhyana,
catena progressiva e ascendente di stati coscienziali e meditativi, a
cui ricondurre forse il greco theáomai,
vedere, e forse anche semêion,
segno): la verità, l'essere come segni cui venire incontro con
l'appercezione contemplativa e, insieme, lo scavo etimologico.
Ka
è, in egizio come in sanscrito, anima, essenza spirituale, principio
vitale; nelle proto-radici della lingua primordiale indagata da
Merrit Ruhlen, come nella proto-lingua paleolitica, tale radice
labio-velare k/t indica il pronome interrogativo-indefinito (mentre
il tóde
tí
è, nel linguaggio filosofico greco, l'essenza e il concetto).
Ma
ka
è anche, in egizio e in proto-bantu (ovvero in una lingua prossima a
quella dell'homo
loquens
originario),
il fuoco (greco káio,
ardo), lo spirito e la forza vitali intesi come principio igneo
(Somo, 2008) ‒
il
"fuoco artefice", se si vuole, l'ignis
artifex,
delle cosmologie stoiche. Essenza vitale celata in se stessa, dunque,
fuoco
che compie e nasconde il proprio stesso alimento (come il roveto
ardente dell'Esodo,
che brucia senza consumarsi).
Nel
pensiero cinese (nelle radici monosillabiche che ne costituiscono le
essenze ideografiche, eidetiche, e fonosimboliche), la condizione
umana, ren,
è,
anche ideograficamente, nella sua sostanza fluida e diveniente di
levità e di luce, crocevia di terra (di
de,
ma anche ma,
madre, come la Mater Tellus mediterranaea) e cielo, tien,
già accostato all'indoeuropeo dyaus,
il cui duplice e concorde equilibrio, emerso dall'hundun,
dal caos primordiale (si pensi al Caos-Vuoto, al kainón-Cháos,
dei Greci), è garantito dal compimento, dall'autenticità (ch'eng,
affine allo Schem-Sighé,
al Nome-Silenzio del pensiero afroasiatico e indoeuropeo), dal ming
(comprensione del "mandato celeste": mana,
mathos,
mens),
culmine del ts'an,
triade di uomo, terra e cielo (Confucio, Il
giusto mezzo,
XXII). «Se
non si conoscono i decreti del cielo, non si è signore. Se non si
conosce la parola, non si conosce l'uomo»
(Confucio, Dialoghi,
XX).
Lingue
che parrebbero, e in parte sono, remotissime a livello di fenotesto,
si rivelano invece prossime, nei loro elementi essenziali, se
guardate in profondità, risalendo (o discendendo) verso il genotesto
originario. La struttura superficiale dissimula spesso quella
profonda; la verità ama nascondersi. Analogamente, le razze (o per
meglio dire i tipi umani) differiscono più nel fenotipo (ovvero in
caratteri accidentali, condizionati da fattori esterni, contingenti,
ambientali) che nel genotipo, prossimo e riconducibile ad una comune
origine, ad una common
ancestry.
L'affinità
fra il linguaggio del DNA e quello verbale merita di essere guardata
più da vicino. In entrambi i linguaggi, ai legami covalenti (quelli
fra le lettere e le sillabe che si uniscono a formare le parole) si
affiancano, più duttili e cangianti, quelli non covalenti, che
uniscono le parole a formare le proposizioni. Ma, nel linguaggio
verbale, il margine di non covalenza, di possibile fluttuazione e
intercambiabilità, sembra poter essere più vasto, estendendosi a
minime radici, a lessemi essenziali, al limite monosillabici o anche
monogrammatici, eppure portatori di significati e valori universali e
fondanti ‒
agli
stoichêia,
come li chiamava Aristotele nella Poetica,
o ai fonemi, intesi come realtà mentali, psicologiche,
intellettuali, interiori, al limite ontologico-metafisiche, distinti
dai suoni
intesi come realtà fisiche ‒
allo
sphota,
invariante e puro, dicevano i grammatici indiani, distinto dal
dhvani,
sua manifestazione esteriore (Uguzzoni, 1978: 1-2). Come nei
nucleotidi del DNA, poi, così nei fonemi, nei lessemi e nei
semantemi del linguaggio verbale il silenzio, il vuoto,
l'approssimazione e la distinzione per oscuramento e dileguo, per
presenza/assenza, paiono essere altrettanto importanti, e portatori
di significato, quanto i messaggi espliciti (Sungchul, 1999).
Anche a livello
cosmologico, l'universo sembra espandersi consumando energia per
produrre informazione, contrastando così la deriva entropica: ed
entropia è, nella fisica come nella teoria dell'informazione,
ridondanza, dispersione, deriva verso il nulla, che la vita, per
poter durare, deve contrastare.
Alcune delle teorie
più recenti (Bogdanov, 2008) paiono essersi spinte oltre il "muro
di Planck", prima della soglia del t=0, del principio del tempo
prima del quale (come intuiva già Agostino) non esisteva universo,
né tempo prima dell'universo, e aver gettato uno sguardo nella
"schiuma quantica", sull'indistinto, e al limite
"immaginario", "caos di possibili" che precedette
la singolarità iniziale, il primo, ma già programmato, e gravido di
progettualità e di sviluppi futuri, emergere di un tutto ordinato,
teso all'espansione e al futuro.
E,
certo, un amplissimo margine di oscillazione quantica, di
probabilistica indeterminatezza, è presente nel linguaggio (basti
pensare agli accidenti, alle oscillazioni e alle incertezze dei
mutamenti fonetici, o a fenomeni come quello dello schwa,
del suono laringale ‒
etimologicamente
un "nulla", un "soffio", un "silenzio"
‒
che
può restare latente e muto oppure generare un "grado zero a
vocale breve" che
distingue
e determina una funzione morfo-sintattica).
Eppure,
proprio da quella schiuma quantica, da quell'indistinto caos di
singolarità originarie e di possibili cronotopi emerse ‒
muovendo
dall'informe alla forma, o meglio alla molteplicità, virtualmente
infinita, delle forme ‒
l'Altro
che si rivela nella Parola, e che si declina e riflette nel risonante
e dialogante dedalo delle identità, e delle alterità, possibili.
Le radici oscure
dell'Europa
Le
Supplici
di Eschilo ‒
tragedia,
si potrebbe dire, del rovesciamento del matriarcato arcaico, del
trionfo del principio maschile tanto nella figura del persecutore,
quanto in quella del salvatore ‒
mostrano, come nota già Bernal, la coscienza, talora confusa ed
inquietante, ma radicata e profonda, che la grecità ebbe delle sue
radici afro-egiziane. Le Supplici, nigrae
sed formosae come
la Sposa del Cantico
dei Cantici,
per legge tragica, torneranno alla terra, al fondo materno,
indistinto e accogliente, del principio, siano essi quelli della loro
origine Argiva ‒
perdurante
oltre il colore della pelle, brunita dal sole dell'Egitto ‒
o
quelli, sotterranei, del mondo dei morti, da raggiungere offrendo se
stesse in olocausto. L'elióktypon
ghénos,
la stirpe segnata dal sole, raggiungerà tòn
gáion
Zéna,
il sotterraneo Zeus ‒
e
l'associazione
dei suoni, ghénos-gáion,
evoca ancora una volta Geb-Tjo,
la Terra Madre. «Sull'orma
antica della madre»,
le Supplici tornano, in quanto figlie del Dio, alla terra che, seppur
lontana, è anche la loro. «Má
Gá
má
Gá,
/ (...) O pá,
Gás
pâi,
Zêu»:
«O Madre Terra, Madre Terra, / O padre, figlio della Terra, Dio».
Come
l'uomo torna all'origine, così il linguaggio torna al suo
originario, quasi infantile, monosillabico ed ecolalico, balbettio,
alle universali proto-radici (come pu,
denotante la cavità uterina, la scaturigine profonda della vita, e
insieme la potenza che ne sgorga). È in nome di un disarmato
linguaggio parlato dall'Altro, abbandonato e riprecipitato nella sua
schiuma primordiale, che l'alterità chiede di essere riconosciuta ed
accolta come tale, ma nel contempo come identità.
Dall'età
arcaica a quella classica, dalla Teogonia
di Esiodo alle Fenicie
di Euripide, la grecità si misurò con il
suo fondo arcaico primordiale, con le sue remote e quasi arcane
radici afrosemitiche. Alle "radici della Terra", intorno a
cui si raccolgono i Titani, troneggia sulle acque Stige, "spirito
delle correnti" secondo l'etimo semitico, figlia di Oceano
apsórroos,
«che
in sé rifluisce»,
e che, anch'essa ipostasi dell'axis
mundi,
tocca il cielo ergendosi su colonne d'argento. E la Timé,
il supremo principio che scandisce l'ordine del cosmo esiodeo, deriva
anch'essa, secondo Bernal, da Ma'at.
Nelle
Fenicie,
il Sole, Helios, si avvolge nelle spire del suo stesso moto,
«solcando
la via fra gli astri del cielo»,
en
ástrois
ouranoû
témnon odón
(dove
l'archetipo mediterraneo di Astarte Grande Madre si congiunge,
fonicamente, con la ricorsività universale di Horus/Orun, la
ripartizione di Ma'at/Timé
e il fonosimbolo di phlóga,
flamma,
fulgor,
parvenza cangiante della luce vitale, bagliore e insieme flusso,
calore, florida tumescenza, dantesco «lume
in forma di rivera / fluvido di fulgore»).
Il coro delle Fenicie invoca anche la pótnia
Ekáte,
dea semitica della maternità: pot
è
radice indoeuropea per possibilità, potenza, regalità, mentre po
Tolo
è, nella cosmologia Dogon, l'atomo primordiale, il costituente primo
della vita e dell'energia, e
Ptah,
pth,
è per gli Egizi il dio creatore.
Insomma
le comuni, remotissime origini del cosmo e della vita sembrano
avvolgersi (come Oceano nei suoi gorghi e Astarte nelle sue orbite)
entro i velami di un'alterità insondabile, intorno a cui si stende
un sacro silenzio. Ma proprio quell'apertura, quel vuoto, quella
radura (Cháos
nel senso etimologico) può essere, oggi, spazio per un dialogo,
nella luce oscura dell'Altro.
Le
"radici dell'Europa", classico-cristiane più da vicino,
remotamente afroasiatiche, universali infine, sono, qualora si spinga
lo sguardo il più possibile lontano, fino alle soglie dell'ultimo
orizzonte, letteralmente "oscure". Europa (punto, questo,
su cui concordano, l'uno indipendententemente dall'altro, Bernal e
Semerano) da Érebos,
e quest'ultimo da un semitico erebu,
tenebre, oscurità, terra del tramonto (eres
è, del resto, il termine pansemitico per "terra"). Ed
hermenêia,
interpretazione, deriverebbe dalla radice indicante la penetrazione,
la profondità, lo scavo che valica la superficie dei fenomeni.
Oscura, avvolta dalle tenebre, è l'Ur-Heimat,
la patria originaria e primordiale. In quel fondo ancora indistinto
possono riconoscersi, e smarrirsi, specchiate nella loro
identità/alterità, le tradizioni e le culture, ricondotte
all'umiltà di fronte al mistero, accomunate dallo stupore silenzioso
di un miracolo umano.
«Basta
ascoltare la poesia (...) perché si faccia sentire una polifonia, e
ogni discorso si mostri allineato sui diversi righi di una partitura.
(...) Ecco il lampo che fa sorgere da una notte innumerabile questa
lenta mutazione dell'essere nell'En
panta
del linguaggio»
(Lacan, 2007: 498-499).
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