Ripubblico qui un mio scritto già apparso sulla rivista elettronica "Diapsàlmata", ora, almeno temporaneamente, non più accessibile.
Si potrebbe davvero dire,
per citare Dante, assai caro all'autore, che In humanitatem
spiritus di Maurizio Malaguti (I Martedì, Bologna 2005) è un
libro «al quale ha posto mano e cielo e terra». Queste pagine
sembrano fondere l'immediatezza esperienziale di chi vive nell'essere
con le alte speculazioni intorno all'Essere supremo, alla
superessentialis divinitas come dice l'Areopagita.
In humanitatem spiritus: c'è, in quell'accusativo, tutta la tensione di un andare-verso, di un farsi incontro all'Essere nella misura in cui esso stesso, pur se velato, larvato, absconditum, si fa incontro a noi; non tanto un esser-ci inteso come gettatezza, deiezione, alienazione, differenza ontologica, quanto come possibilità di incontro, di pienezza, di illuminazione, pur nell'abisso del totalmente Altro, del totaliter Aliud.
Chi legga il libro en poète può essere sedotto dall'immagine simbolista del «visible et serein souffle artficiel / De l'inspiration, qui regagne le ciel». Anche quel souffle, benché filtrato dall'ars, dall'artificium, è in humanitatem spiritus: se l'uomo è imago Dei, prole celeste (e lo diceva già Cleante nell'Inno a Zeus - Zeus già identificato con il Logos), allora egli trova davvero se stesso solo nel regno celeste, e la sua essenza è Parola, voce, canto, respiro interiore.
In humanitatem spiritus: c'è, in quell'accusativo, tutta la tensione di un andare-verso, di un farsi incontro all'Essere nella misura in cui esso stesso, pur se velato, larvato, absconditum, si fa incontro a noi; non tanto un esser-ci inteso come gettatezza, deiezione, alienazione, differenza ontologica, quanto come possibilità di incontro, di pienezza, di illuminazione, pur nell'abisso del totalmente Altro, del totaliter Aliud.
Chi legga il libro en poète può essere sedotto dall'immagine simbolista del «visible et serein souffle artficiel / De l'inspiration, qui regagne le ciel». Anche quel souffle, benché filtrato dall'ars, dall'artificium, è in humanitatem spiritus: se l'uomo è imago Dei, prole celeste (e lo diceva già Cleante nell'Inno a Zeus - Zeus già identificato con il Logos), allora egli trova davvero se stesso solo nel regno celeste, e la sua essenza è Parola, voce, canto, respiro interiore.
E l'uomo stesso, e
insieme la parola poetica, sono “Trinità riflessa", come
diceva Agostino, o, per usare la metafora cui ricorre Malaguti,
inspirazione ed espirazione (la poesia "cristallo di respiro",
diceva Celan), palpito uno e duplice che giustappone ed unisce il Sé
come sé e il Sé come altro, l'individualità come soggetto di
conoscenza e di coscienza e l'individualità stessa come estroflesso
oggetto, anche enigmatico, come quaestio che l'uomo pone a se
stesso, anzi che egli è, ineludibilmente, a se stesso; e fra
l'uno e l'altro movimento, fra la sistole e la diastole, corre,
fiamma sottile, il soffio del Pneuma, dello Spirito, come fuoco e
calore intellettuale che fluisce ed anima.
Quella del respiro ‒
della biblica ruah ‒ è una delle più rilevanti metafore
speculative a cui l'autore fa ricorso. «Inspirium ed espirium
si alternano in successione continua. (...) In modo diverso e più
alto, c'è nell'essere un alterno raggiare che pone il novum e
lo richiama alla origine». Ogni singolo atto conoscitivo ha le
proprie radici nell'origine, nella primalità, nell'eterno, nel
Principio ‒ in quell'Arché in cui dimorava il Logos.
Malaguti rilegge l'eterno
ritorno di Nietzsche non come ossessione paralizzante, come fonte di
angoscia, come anello da infrangere o serpe a cui schiacciare la
testa, ma come apertura del Chronos all'Aevum (o meglio
alla molteplicità degli aeva), della temporalità a ciò che
sta al di sopra del tempo eppure lo fonda, e nel tempo, a tratti,
balena, trapela, percola, negli istanti epifanici dell'intuizione
metafisica, in cui si fondono credere e comprendere, fede e ragione.
Ogni forma, ogni
esistente, ogni linguaggio non scaturiscono dall'assoluto nulla. Vi è
una Verità antecedente, anteriore, che a tutto conferisce sostanza,
ordine, scopo.
Quel Principio pare
dimorare nel silenzio, nell'assoluto nulla. «Siamo una flebile voce
al confine estremo dell'esistenza», creature fragili, sospese sorti,
quasi-nulla.
Eppure, come l'autore
osserva citando Dante, dall'eternità fuori del tempo «s'aperse in
nuovi fior l'eterno amore». L'uno si esplica, si effonde,
manifestandosi, ma senza dissiparsi e disperdersi, nel molteplice; e,
per converso, il volto sfaccettato dell'esistente, la variopinta
epifania del creato, le vie innumeri dell'esperienza, sono il
riflesso e il riverbero indiretti, analogici, dell'unità, del
Principio originari, da cui sgorgano, che presuppongono, e di cui
sono manifestazione.
La Mistica, come questo
libro varrebbe da solo a dimostrare, non esclude la consapevolezza
intellettuale; essa anzi si fa riflessione sull'indicibile, su ciò
intorno a cui "si deve tacere", sul soffio ad un nulla dal
silenzio, e dunque, di riflesso, sul linguaggio stesso. (Questo è,
per inciso, il vero fondamento e il vero nerbo del discorso poetico;
che è sempre confronto con l'Altro, prossimità al Mistero).
Respiro e riflesso
sono, per l'autore, metafore del nesso, e del movimento, duplici
ed unitari, che legano essenza ed esistenza, divino ed umano, origine
e divenire.
Ma, oso aggiungere io,
luce e respiro paiono essere legati, anche a livello linguistico,
all'idea dell'essere ‒ eheye, in ebraico, es/s nella
radice indoeuropea (d'origine pronominale, osservava Alfredo
Trombetti, a riprova, secondo un platonico cristiano come Francesco
Acri, che l'idea e l'espressione dell'essere nascevano da una realtà
originaria, non da una convenzione a posteriori,
comportamentistica), soffi lievissimi, poco al di sopra del silenzio
‒ Logos eon aei, Logos sempiterno, Aiòn, nell'inno
di Cleante, apertura e chiusura del respiro, dilatazione e riposo,
slancio e ripiegamento, come nelle sillabe sacre delle più diverse
culture, Amen Amon Aum ‒ e insieme *dj, alla base,
forse, dell'impronunciabile tetragramma divino JHWH così come di
Dyaus, Dios, deus, Divino e Luminoso, solidità
del fondamento, del basamento (Dalet) e insieme Yod,
slancio sottile e lievissimo verso l'inafferrabilità dell'aria,
l'impalpabilità dei cieli.
El, Helios, Ra ‒
liquida e rotante, l'assiduità del fluire e l'iteratività della
ripetizione, dell'eterno ritorno ‒ «lume in forma di rivera»,
luce fluente della divinità, e insieme rhysmòs, ritmo,
scansione, movenza che torna su se stessa, ma anche gorgo che
riconduce al fondo del silenzio in cui è chiuso il mistero di ogni
umana origine; phu, phaino, phòs, fui ‒
essere come luce, come venire-alla luce, salire ad luminis oras ‒
divinus radius sive divina gloria, dice Dante ‒
Logos, essere come parola-luce, kleos clamor gloria (forse da
una stessa radice, kl/gl/lg, con lenizione e metatesi): forza
dell'essere che chiama, che richiama a sé e raccoglie e riunisce le
proprie molteplici espressioni, dopo averle disseminate (il logos
spermatikós, la ratio seminalis, di patristica memoria,
citati da Malaguti) per il cosmo; «Amore onne cosa clama», dirà un
poeta, divinamente invasato.
Verum e Veritas
come Velia-Helia-Vesta-Hestìa, sede dimora fondamento, luogo
dell'essere e della prossimità all'essere, Casa dell'Essere si
direbbe con Heidegger ‒ ma insieme fuoco, fiamma vitale, ardore
dell'universo, altare igneo del tutto, e da cui tutto riceve luce e
vita.
Il libro suggerisce
un'ulteriore, credo non arbitraria, riflessione. Forse, un argomento,
un'eco, una traccia dell'essere l'uomo figlio del Verbo (e
dell'esistere, il Verbo, anzi essere, come entità metafisica)
si nascondono nel linguaggio stesso: che non può essere nato da
onomatopee imitative (perché in tal caso non avrebbe potuto
esprimere quelle nozioni e relazioni astratte che sono indispensabili
ad ogni comunicazione, per quanto embrionale, o comunque non avrebbe
mai potuto compiere, per accordo fra i parlanti, il passaggio dal
concreto all'astratto, dalla materia allo spirito, dall'esteriore al
profondo); né può essere esclusivamente figlio della convenzione e
dell'arbitrio, perché la fissazione di tali norme avrebbe comunque
presupposto non solo l'esistenza del linguaggio stesso, ancora non
nato, ma addirittura l'uso della funzione metalinguistica, una delle
più evolute, complesse, polivalenti.
Solo un Essere superiore
ed assoluto, per una sorta di Armonia prestabilita, poteva infondere
nella sua creatura o nella sua declinazione (Trinità riflessa,
appunto, Verbum come imago mentis, secondo le
intuizioni geniali di Agostino: la mente che conosce e ama se stessa
coglie in sé il riflesso, per quanto schermato ed opacato, delle
rationes aeternae ‒ mentre, come osserva Malaguti, il
panlogismo hegeliano, il razionalismo assoluto conducono al vuoto
della coscienza infelice, privata dell'originaria, esperienziale
intuizione dell'Essere) la parola articolata.
Si obietterà che, se il linguaggio umano fosse metafisicamente, ontologicamente plasmato, o fosse esso stesso un'impronta o una traccia della divina scintilla della creazione (o dell'evoluzione, che non esclude la volontà creatrice di un essere superiore), esso non potrebbe essere usato come strumento di menzogna o d'inganno, né sarebbe, com'è, sotto molti rispetti imperfetto (anche e proprio nella sua impossibilità di nominare univocamente ed onnicomprensivamente il Divino, onde il silenzio mistico, l'afasia di fronte al totalmente Altro), né le lingue differirebbero radicalmente le une dalle altre.
Si obietterà che, se il linguaggio umano fosse metafisicamente, ontologicamente plasmato, o fosse esso stesso un'impronta o una traccia della divina scintilla della creazione (o dell'evoluzione, che non esclude la volontà creatrice di un essere superiore), esso non potrebbe essere usato come strumento di menzogna o d'inganno, né sarebbe, com'è, sotto molti rispetti imperfetto (anche e proprio nella sua impossibilità di nominare univocamente ed onnicomprensivamente il Divino, onde il silenzio mistico, l'afasia di fronte al totalmente Altro), né le lingue differirebbero radicalmente le une dalle altre.
Ebbene, la manchevolezza
o la fallacia della parola umana derivano (e ben lo intuiva, fra gli
altri, Rosmini nel suo commento al Vangelo di Giovanni) dal suo
essere, al pari dell'uomo stesso, solo imago Verbi, solo eco
lontana, specchio opaco, pallida emanazione e declinazione,
dell'Unità originaria, della primeva indistinzione di Realtà e
Parola; allo stesso modo, le formule matematiche (per quanto riguarda
le leggi fisiche del mondo macroscopico non meno che per le più
vaste e complesse ipotesi della cosmologia) non rispecchiano
perfettamente, ma solo a prezzo di approssimazioni tendenti
all'infinito, ad un infinito numero di cifre decimali, le strutture
matematiche che pure soggiacciono alla realtà, alla vita e al loro
funzionamento.
Come tutte le molteplici
e frante parole umane, tutti gli atti umani di parola e
di comunicazione altro non sono che riflessi parziali, echi turbati o
deformanti frantumi di una Parola che fu originaria, semplice, una,
così il regno della materia e del vivente è attraversato e
informato dalle infinite e minutissime parole, dai labirintici
messaggi del codice genetico e delle strutture minime della materia,
fino all'immaterialità, alla pura natura matematica del gluon;
e tanto la materia e l'energia quanto il linguaggio nella sua
diffusione e nei suoi impieghi sono attraversati dalla dialettica,
dal difficile e spesso paradossale gioco di entropia e neghentropia,
di ordine e disordine, di cosmo e caos, dall'intreccio di una forza
che porterebbe alla dispersione, alla disgregazione,
all'insignificanza, con un'altra che invece mantiene, per vie ancora
in parte da chiarire, una struttura e una direzione intellegibili,
una misura di essenzialità, di rispondenza e di pregnanza.
Il mito della Torre di
Babele (su cui la fonte biblica in sostanza concorda, come per il
Diluvio, con le fonti mesopotamiche) rispecchia proprio questo
frantumarsi, questo moltiplicarsi e disperdersi della parola umana
nel tentativo, spasmodico e bruciante, di avvicinarsi alla
semplicità, all'universalità e all'assolutezza del Logos, della
Parola-Verbo e della Parola-Realtà (Dabar è, in ebraico,
Cosa e insieme Parola, e, fonosemanticamente e fonosimbolicamente,
fondamento, base, saldezza, terreno su cui costruire e pensare).
I modistae del
medioevo, e sulla loro scia il Dante del De vulgari, fino ai
moderni tentativi della cibernetica e della linguistica generativa,
altro non sono (forse, paradossalmente, con maggiore consapevolezza
nel Medioevo, e nell'abbaglio, invece, dell'utopia scientista in età
moderna) che più o meno vani tentativi di arrivare proprio a quella
chiarezza assoluta, a quella naturalità aurorale e fondativa.
Che, beninteso, non sono
mai esistite storicamente, mondanamente, nella lingua umana, ma si
sono poste da subito, fin dalle origini stesse della scrittura (ma
forse anche prima, se è vero che la Parola Creatrice compare nei
miti cosmogonici più remoti e più diversi, dall'Africa
all'Oceania), come una grande utopia, che ha nutrito in modo
sostanziale la civiltà umana, e la cui origine, inesplicabile sul
piano evolutivo, biologico, comportamentistico, è forse da ricercare
in una sorta di nostalgia dell'unità e della chiarezza originarie,
in una nostalgia della patria perduta, in quello che un poeta
chiamava «l'istinto del Cielo».
Le contraddizioni che gli
atei scoprono senza difficoltà nelle Scritture, e gli errori e i
fraintendimenti in cui tanto i copisti quanto gli esegeti sono
incorsi lungo i secoli, altro non sono che la riprova delle
difficoltà e delle angustie in cui la parola terrena, e con essa la
memoria e la coscienza stessa degli uomini, viene a trovarsi quando è
posta a contatto con l'assoluto e il mistero della trascendenza. E
confermano, indirettamente e paradossalmente, l'origine e
l'ispirazione più che umane della parola rivelata.
Divinamente fondata come
Verbo, la parola soggiace, nella sua veste umana, temporale,
transeunte, alle impurità, alle oscillazioni e ai chiaroscuri della
natura lapsa.
Di fronte alla Parola, ci
dice ora Malaguti citando un grande mistico, Angelus Silesius,
l'uomo deve «diventare egli stesso la Scrittura, egli stesso
l'essenza». Se il Verbo si fece carne, l'uomo deve ora farsi Verbo,
vivere egli stesso, anzi divenire, essere egli stesso, la
Parola, così da rendere più originari e più veri il suo pensare e
il suo vivere e il suo dire.
Ma questo rinnovamento
non può essere affidato alla sola scienza, ad una scienza scissa e
sciolta dallo spirito, dalla verità, dall'essere, dalla rivelazione;
la speranza non può essere riposta nella sola natura, a maggior
ragione qualora essa sia concepita nei termini di uno scientismo
deterministico. «Nell'orizzonte dello spirito la libertà soltanto
pone fortissimi vincoli tra il passato e il futuro».
Il divenire storico,
vissuto e autocosciente, salda il passato al futuro ed infonde in
questa continuità e in questo nesso valore e significato: nel nodo,
nel vincolo della mente che ama se stessa, del pensiero che si
specchia e torna in se stesso, nell'interiorità profonda e intima
dell'uomo copula mundi, unione di fede e riflessione, di
esperienza e pensiero.
Matteo Veronesi
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