lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

sabato 27 marzo 2010

PAOLO DIODATI E LA MUSICA DELLA MATERIA

Antico, antichissimo è (dal Timeo di Platone fino, con ben diverso e più moderno spessore scientifico, agli Harmonices mundi libri di Keplero) il sogno di poter cogliere, fermare e riprodurre, traducendola in segni umani e comprensibili, l'ineffabile armonia dell'universo. Armonia che, invero, oggi (in un universo, o forse in un multiverso, che alla cosmologia contemporanea appare, nelle parole di Frank Wilczek, sempre più "a strange place", popolato di dimensioni parallele, materie ed energie oscure, enigmatici vuoti, catastrofi improvvise ma necessarie, miracolosamente sospeso sulla china di una deriva entropica che, sempre indefinitamente ed impercettibilmente scongiurata, sembra volerlo, invano, ricondurre al nulla primigenio, e trascinato da un'espansione che pare accelerare costantemente, lasciando solo le scie, inafferrabili ed evanescenti, del redshift – traccia, in realtà, quest'ultimo, quasi per così dire ottico fossile, di lumi già estintisi da miliardi di anni) può offrirsi come disarmonia, distorsione, perturbanza, oscillazione quantica, probabilistica indecidibilità, più che come disegno compiuto ed euritmico: specchio, dunque, non più tanto della divina proportio postulata dal Pacioli e da Leonardo, della mensura e dell'ordo insiti nella mente divina, ma piuttosto ombra del Dio nascosto, enigmatico o assente, del Deus absconditus o del Nihil aeternum, del Dio come possest, come infinita possibilità che fonde gli opposti, e che abbraccia anche l'evenienza dell'assoluto nulla, della definitiva insensatezza. Il gioco, allora, il lusus musicale, verbale, logico, fosse pure il più dannunziano melodioso decorativismo, non sono segni di un edonismo nichilistico, ma strumenti di un'intelligente e sapiente resistenza ad un nuovo, postmoderno horror vacui, proprio della nostra era neobarocca. (M. V.).

Scrivo poesia e quello da me recensito è un gioco che insieme a Paolo Diodati ho messo insieme bilanciando il suo scherzare su quelle che chiama le sue evasioni e il mio essere seriosa, ulteriore ipotesi delle infinite possibilità della poesia di poter essere coagulo di esperimenti. È stata una bella prova, che suggerisce la connotazione della parola tra due personalità diverse, il cui incontro ha dato luce allo scritto.

La mediazione culturale in paolo Diodati

Il gluone sta al segno come la parola alla voce. Con questa proporzione intendo parola come sostrato, nucleo generatore, genotipo, fondo oscuro e indistinto dell’espressione prima che venga alla luce, e insieme l’aleatorietà e l’infinita possibilità delle scelte espressive che questo attimo concede all’artista.

Paolo Diodati li chiama esperimenti (nel senso pieno di experior), quelli di cui parlerò, ci ride su, spesso li offre con autoironia e provocazioni ludiche. Basti ricordare i due giudizi, antitetici, che ha scelto come premessa alla sua “pazzia” (parola sua) di musicare la Pioggia nel pineto.

D'Annunzio: Dal più bel verso scaturisce la più bella musica.
Satie: Il musicista è forse il più modesto degli animali, ma anche il più fiero. È lui che ha inventato l'arte sublime di sciupare la poesia.

Vi è anche, in Diodati, la consapevolezza dei rischi connessi al tentativo di dire qualche cosa di nuovo nella rappresentazione di uno dei più inflazionati temi di sempre: il contrasto notte-giorno e le sensazioni che accompagnano la visione del sorgere del Sole. Consapevole del rischio, ha scritto e musicato un pezzo, Il Gran Fuoco, dal crescendo davvero coinvolgente (finito nella versione inglese, non a caso, su una tesi in astrofisica).

In realtà la sua trasposizione pianistica della Pioggia nel pineto è un trasferimento dalla parola al suono riuscito e molto interessante per chi, nel corso dell’insegnamento, abbia provato quel disagio profondo che nasce ogni volta che si avverte l’insufficienza di una parola esplicativa del testo dannunziano, sempre inadatta a cogliere una musica di silenzi evocanti ed evocati dal miracolo delle note suggerite dalla pioggia. Il pianoforte distilla le gocce e connota i verbi di percezione che articolano l’originale scritto, distinguono i battiti del silenzio e rimandano suggestioni di fisicità miste alla sacralità della favola bella che tornerà a forma di poesia in altri “esperimenti” di Diodati. Inoltre nella novità della trasposizione musicale non dimentica la tradizione del testo letterario che è fedelmente riprodotto al pianoforte, anzi si sottolinea ancora di più “la voce dei nostri” che accompagna la mediazione culturale necessaria per continuare ad essere interpreti dell’oggi con la memoria di ieri.

E’ nel linguaggio che Paolo Diodati cerca appartenza, sin dall’incipit di quell'intensa La voce dei nostri (definizione letta nelle considerazioni sul Giorno Internazionale della Lingua materna), col voluto e forte richiamo a Ignazio Buttitta, disperato difensore della sicilianità. “Potete pur privarmi del mio letto/ sedia, denti e tetto. / È niente. / ché tutto è riposto in tanti dolci suoni. / Lingua che sei straniera, / io sì lo so, vorrei sempre distinguerti dalla mia, / perché la mia non muoia".

Il poeta è spinto dal desiderio di cura e protezione, di memorie infantili, di rinascita, di prima conoscenza del mondo e conquista, ormai indelebile, di commozione; la voce dei suoi, sono cantilene e dolcissime nenie di cui solo apparentemente ci disfiamo da grandi, ma “affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda/ che si smorza avvicinandoci e spingendoci sempre più a riva/ emergono volti cotti dal sole, il vociare alla vendita del pesce", tutti elementi memoriali che si identificano quasi in una pre-esistenza riafferrata che dona pace e familiarità.

"In quella pace vengo a ritrovare/ casalingo e familiare, l’antico focolare". Proprio nella koinè tanto cercata dalla globalizzazione, l’autore si augura che la torre di Babele resti ferma alla sua dannazione, dono di identità e non perdita.

Riporto i versi sicuramente più incisivi di una spiegazione: "Perché non svaniscan le cime / le vette dei romanzieri, dei poeti / globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende / un velo, un sudario, sul perdente". Lui spadroneggia, e intanto muore "quell'universo che ha cantato Dante a Dio / muore pure l’Infinito, ché tradotto, non vive / non è Infinito appunto".

Vicina all’uomo si rivela la natura in Il Gran Fuoco, altro bel “pezzo” di Diodati. "Notte nella notte / con pensieri amari": l’intensivo di incipit corrisponde al vuoto dei pensieri che nella notte, partorita dal buio, sembra ancor più inabissare l’esistenza. “Atomi di vita, briciole di tempo”, seguirà subito dopo, evidenziando la piccolezza dell’uomo davanti all’infinito spazio-tempo, ma anche la sua presa di coscienza e grandezza. Nello Zibaldone Leopardi, nella “lingua dei nostri”, ravvisava la grandezza dell’uomo proprio nel momento in cui egli diventa conscio della sua finitezza (che questo concetto abbia informato il mio tema di lontana maturità nel '68, mentre scrivo, mi torna grato).

"E ritrovo infine voi, stelle dell’Orsa/ ferme a ricordare un’eterna corsa". L’attribuzione ossimorica alla costellazione (“ferme…eterna corsa”) la rende compagna di viaggio, non indifferente al viandante ma custode di una missione sacra quale quella di attraversare la vita insieme, senza dimenticare l’inarrestabile fluire del tempo, ma anzi rimandandolo al cuore come archetipo del “prima di noi”. Non casuale appare l’uso della parola “tempio” posta alla fine della successiva quartina come implicita richiesta di accoglienza sacrale della vita e del tempo che di notte si sgrana in miliardi di atomi, di ammaraggi e di nuovi approdi verso un’isola paradigma del molteplice significante del vivere nel sorgere della coscienza che termina solo con la morte: "Dai nostri grandi radiotelescopi, / protesi ad ascoltare l’infinito, non giungon che rumori che raccontano / di nebulose… / di universi isole /.. io cerco ancora chi ascolti la mia voce / guarda quella luce ad est sbianca il cobalto /…l’aria si allarga / là, dal mare che tremola / lame rosse".

Nel momento in cui risulta vano il tentativo di cogliere segnali intelligenti dal cosmo, l’intensa solitudine si squarcia in un illuminante enjambement che a grand’angolo dilata spazio e tempo e, fin dove arriva lo sguardo, coglie attimi di colori che sbiancano il cobalto a luce rosa che sale fino alle lame rosse, folgoranti bagliori respiranti passioni che salgono dal mare al cielo. La luce ha inghiottito le tenebre e il Gran Fuoco suona di speranza. Ne ascolto la musica che l’autore mi ha inviato e di cui ho goduto insieme ad un pubblico attento quando l’ho scelta come sottofondo ad una presentazione di poesia.

Diodati continuerà a parlare di esperimenti, io continuerò a scriverne e i “prossimi appunti” canteranno il mare.

Patrizia Garofalo


Nota

1)Il gluone (dall’inglese glue, incollare) è una particella che tiene uniti i quark. È responsabile di “un incollaggio”, una forza, molto intensa. I quark sono particelle difficilissime da concepire e impossibili da vedere isolate.


IDDU

Antico Padre, grazie ancora, O ancient father, thank you again
per aver scelto quella terra a tua dimora, for having chosen this our land for you to live in,
quando gettasti l'àncora, when you threw down the anchor there,
in quella nera isola nel sole... on that black island down there in the sunshine…
...là...dove fioriscon capperi e limoni … there… where we see flowring caper plants and lemons
e amor per l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco... and love for air and fire… and land… and water….

Perché Iddu è aria, è acqua e terra For Iddu is air, is earth and water
perché Iddu è fuoco, for Iddu is fire,
perché Iddu è un faro nella notte... for Iddu is light among the darkness…
Iddu ti parla, Iddu lo senti Iddu can speak, Iddu you feel it,
Iddu che freme Iddu is moving,
Iddu che tutto trema... Iddu, the whole is shaking…
e la sua voce e tutta la sua luce and Iddu’s voice and its illumination
vivono in noi, alive in us,
difficili a spiegarsi so difficult to explain it,
ed a scordarsi... and to forget it….

Là, nelle strade strette ai lati There in the alleys bordered on the sides
da vecchi muri fatti a lava e sgretolati, by ancient walls made of lava old and crumbling
dove correndo, strisciano where mini’s scrape along
le api e al buio sprizzano scintille... and in the dark, their sparks illuminating….
là... dove ritrovi aranci e bouganville, … there…where you will find
the orange and bouganville,
in quella Perla Nera, vorrei tornare... to that black pearl returning, it is my homeland…
Ma quanti ulivi, nei bei declivi, How many olives, now you can find there
adesso trovi the groves descending,
imprigionati in mezzo ai rovi... caught, as in prison among the thorn trees,
e quante viti aggrovigliate, so many grapevines, so old and twisted
stremate a terra, thrown on the mountain
là muoiono assetate sold and twisted
là muoiono assetate... there dying from lack of water...
Iddu da tanto e tanti è abbandonato Iddu by many men has been abandoned..
dimenticato, Iddu forgotten
Iddu che ha sempre il fuoco vivo nelle vene, Iddu has always fire alive inside him,
noi lo scordiamo... we all forget him...

Vorrei che il tempo ritornasse I wish I could go back in time now
a quando io cercavo Iddu ogni sera, the time when I went up to Iddu every evening,
quando guardavo in alto... when I looked above me,
e tra le nubi udivo la sua voce... and in the clouds...I heard the voice of Iddu...
là, dov'è pescoso il mar di cavagnole... there... the sea is blue and full of cavagnole,
in quella amata isola nel sole... on that beloved island... of sunshine
...vorrei infine riposare. to rest in peace now... I'm returning...


Iddu

In questa bellissima poesia, su circa 200 parole trovo 10 aggettivi.
E gli aggettivi, così dosati, hanno una capacità evocativa molto più forte di quanto non avrebbero se fossero impiegati con maggiore frequenza. L’aggettivo è la formulazione di un giudizio e il giudizio in casi come questo, in cui gli aggettivi pesano come pietre, si impone direttamente al lettore: Iddu è antico (padre), nera (isola); lì il poeta dipinge strette (strade), vecchi (muri), bei (declivi), (viti) aggrovigliate, stremate, assetate, (fuoco) vivo.
Se gli aggettivi sono i veicoli delle sensazioni del poeta, i sostantivi sono gli strumenti con cui egli costruisce l’ambiente. In Iddu, una parte dei sostantivi serve a costruire un ambiente dalle radici primordiali, immerse in un tempo mitico: padre, terra (due volte), isola, aria, acqua, fuoco (due volte), sole, lava, scintille, voce (del vulcano), luce (del vulcano); una parte invece serve al poeta
per disegnare l’ambiente mediterraneo in cui la natura e l’uomo hanno trovato un equilibrio magico: capperi e limoni, aranci, bouganville, ulivi, rovi, viti; pochi altri servono a proiettare in filigrana la presenza discreta dell’uomo: faro, strade, muri. Ecco, quello che il linguista in casi come questo ammira è il fatto che il poeta controlli, credo istintivamente, con tanta sapienza gli strumenti a sua disposizione al fine di ottenere l’immersione del lettore nella scena e nel mondo
di emozioni che egli vive.

Augusto Ancillotti,
Ordinario di Glottologia e Linguistica
Università di Perugia



I L G R A N F U O C O


Notte nella notte con pensieri amari
guardo tante luci in cielo, lontani fari…
e ritrovo infine voi, stelle dell'Orsa,
ferme a ricordare una eterna corsa...

Notte nella notte, col pensiero volo
e rivedo tutto in un istante solo...
atomi di vita, polvere di tempo,
isole vaganti e perse in questo tempio

Ah,
dai nostri grandi radiotelescopi,
protesi ad ascoltare l'infinito,
non giungon che rumori che raccontano
di nebulose...
e di universi isole...

Ah,
io cerco ormai non so nemmen da quando
chi ascolti ancora un poco la mia voce,
ti amavo un milione di anni fa...
oppure ieri…
non lo ricordo più...

Guarda quella luce ad est sbianca il cobalto
e un chiarore rosa sale, sempre più in alto…
l'aria si allarga e, rossa in lontananza,
cresce l'aurora e cresce la speranza...


là, dal mare che tremola
lame rosse, poi più bianche che saettano
nell'infinita vastità...
e… col “sia la luce” riappare
il GRAN FUOCO…
ti esalta e t’invita a volare
il GRAN FUOCO…

e sale sale sale a poco a poco
il GRAN FUOCO…

E sale, sale, sale
e s'infiammano i colori in ogni luogo,
col GRAN FUOCO!



T h e G R E A T B L A Z E


Night in the deep night, and sadly thinking
I see many stars above, far off shining.
And I meet you yet again, stars of the Plough
There to remind us of the land to bend and bow.

Night in the deep night, with thoughts awinging,
And I see it all again, in just a twinkling.
Particles of life, particles of time,
Wandering and lost are islands, in this a shrine.

Ah,
from our enormous radio telescopes,
Outstretched to listen to the everlasting,
We only get vibrations so to tell us of
The hazy,
cloudy oh, so distant islands…

Ah,
I have been searching, hardly know since when,
Who listens still a little to my voice.
I loved you many, many years ago,
Or yesterday,
I can’t remember when...

See that easternlight that shines, deep blue and paling
and a gleam of pink is rising and ever rising.
The air is ever spreading red, quite far away,
Dawn is waking and hope, on its way…


From the sea that is flickering
Long, red blades, then more faded now are darting
to the endless vastness
and… with “Let there be light”, it appears
the Great Blaze…
it elates you and invites you to fly
the Great Blaze…

And up and up and up, up to amaze:
the GREAT BLAZE…

And up and up and up
and the colourings aflame where’er you gaze
with the GREAT BLAZE...


LA VOCE DEI NOSTRI

Potete pur privarmi del mio letto, sedia, denti e tetto.
È niente.
Ché il tutto è riposto in tanti dolci suoni.
Lingua che sei straniera,
io sì lo so, vorrei distinguerti sempre dalla mia,
perché la mia non muoia.
Lingua dove il “sì” suona, con dolci gamme per ogni sfumatura
dei sentimenti umani.
Lingua che mi sei cara da quando,
appena schiusi gli occhi, ascoltavo i miei.
La tua dolcezza è un persuadendo gli infiniti suoni,
nostre bell’espressioni,
a non scordare, a non abbandonare.
La nostra lingua è tutto
e nel momento in cui me la strappate,
la nostra immagine muore allora
e tutto macera, fino alla sparizione.
Affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda
che si smorza avvicinandoci e spingendoci più a riva.
Portiamo il pesce,
ch’è di questo mare, cioè del Mare Nostrum.
Comprate il nostro pesce, al gusto del sapore antico,
da un viso consumato al sole, al sale, alla sofferenza.
Bevete il nostro vino, comprate il nostro pane,
perché è un tramandare
al mondo questo e quello.
E’ in quel vociare chiaro, che ascolto al porto,
l’identità isolana.
In quella pace vengo a ritrovare,
casalingo e familiare, l’antico focolare.
Non voglio luci.
Quest’isola superstite ha il suo ritmo che si manifesta
e rispetta l’ordine della natura.
E, come tutti i perdenti,
tende a scomparire…
cerchiamo di tenerla intatta, rifiutiamo
di globalizzarla, rifiutiamo!
E la voce dei nostri, ragazzi,
facciamo ricorso ai miracoli,
non facciamo svanire, non uccidiamo
i bei vocaboli,
ché dà vita quella voce ai vostri volti
ed al passato.
Parlami, la nostra lingua, dei nostri avi parla.
Perché non svaniscan le cime,
le vette dei romanzieri, dei poeti.
Private un povero del suo letto e tetto, sempre vive…
Globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende
un velo, il sudario, sul perdente.
Lui spadroneggia e muore quell’universo che ha cantato
il nostro Dante a Dio.
Muore pure L’Infinito, ché, tradotto, non vive,
non è Infinito, appunto.
La morte canto io perché, globalizzando,
la morte è il suo riassunto.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…


OUR VOICE

You even can carry away my bed, my chair, my teeth and
That’s nothing. home.
Since everything is hidden in many mellow sounds.
Language you are a foreigner
Yes I know well, I’d like to distinguish yours from mine,
so mine may live, for ever.
Language in which the “sì” plays, with mellow ranges for
those human sentiments. every little nuance
Language you’ve been so dear to me since when
I’d scarcely opened my eyes, I heeded my parents.
Your great softness always persuades us to remember
yes never to abandon, very well
fine expressions and lovely mellow sounds.
Our language is everything
And when I have it torn,
then our image is lost
and our world wastes away, slowly disappearing.
The oars emerge and drops fall on their image on waves
which fade out while we push towards the seashore.
We bring the fishes,
just from this our sea, that is from Mare Nostrum.
Purchase please our fish, with it’s ancient savour,
They have been caught by men worm out by sun, by salt
and please drink our wine, purchase too our bread
because it’s handing on to suffering
the world both this and that.
The island identity is that clear shouting
I hear so oft at the seaport.
In that peace, I come to find again,
nice and homely and warm and cosy, the pleasures of home
I don’t want lights. life.
This surviving island has the ancient rhythm which goes on
it respects the natural order.
But it, as all the losers,
tends to disappear…
try to maintain it intact, refuse now and forever
to homogenize it, refuse, refuse!
Our father’s voice, my friends,
resort just to true great miracles,
let not our wonderful words vanish,
they must not be killed,
since our words give life and soul to your faces
and to our past.
Tell me, speak our language, that’s that of our grandfathers.
So the cream of our poets and novelists
can live and not be forgotten.
Deprive a poor man of his bed and roof, he still can live…
With global language, the winner lives and lays
a veil, like a shroud, on the loser.
He domineers and that old universe that our Dante
sang to love and God
dies as well as L’infinito, since, translated, does’nt live
it isn’t Infinito, precisely.
I am singing of death, because the homogenising
is summarised by death.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…


S T R O M B O L I


Lungo le tue spiagge nere, assolate e ferrose
vedi lapilli e lave da onde e vento corrose,
grande balena, obice dei mari,
il più antico sei di tutti i fari
e nel Tirreno riversi ancora il tuo terreno.

Da uno stradello a monte, fatto a sassi e sabbioso
appari un asteroide in un azzurro radioso,
perché d'intorno, dove il guardo arriva,
sembra che il cielo arrivi fino a riva,
o vaporiera, sale il tuo fuoco alla ciminiera.

E andando in su, più in su, in lunga fila indiana,
verso i misteri della vetta, che sensazione strana!
Ed ogni casa, in fondo, un sasso apparirà
ed il paese come ghiaia, lungo il mare, si distenderà...

E andando in su, più in su che vita bella e dura,
sarà per tutti quanti noi una splendida avventura
e nel far fronte a grandi e piccole avversità,
riscopriremo il gusto antico della vera solidarietà.

Lì, tra lunari dune e una natura fiabesca,
cresce d'intorno un'atmosfera acre, dantesca,
senti la terra fremere ai tuoi piedi,
scosti la sabbia ed il vapore vedi,
ecco il crogiolo bolle ed erutta lapilli in fuoco.

E andando in su, più in su tra un fischio e un'esplosione
Stromboli illumina la notte e aumenta l'emozione
noi come tante lucciole, un po’ ammutoliremo
ed ai misteri del Creato, sommessamente, ripenseremo.



S T R O M B O L I


All along your black shores, rich in iron, full of sun
see the lapilli and lava worn by wind and waves that run
whale, oh whale cannon of the blue,
the oldest beacon, yes that's you
in the Tirrenean you still pour your rich amalgam.

From way up high looking down we can see
there's a small black spot in a radiant blue sea,
'cause all around, where the eye can reach
sensations that the sky runs to meet the beach
oh steamer, up goes your fire to the beamer.

And going up, so high, like a file of Indians,
t'wards the mystery of the summit, oh what strange sensations!
And every home below, will just look like a stone
and the village like pebbles along the shore alone...

And going up, so high, what hardship yet what pleasure
would be for everyone of us, a marvellous adventure
and by confronting dangers, be they great or small
we'll rediscover the hidden zest of all for one and one for all.

There among moonlike dunes and a faery aroma
sweeps around a Dantean feeling and such tremor
feel the earth that quakes at your feet
move the sand and the vapour you meet
the cauldron boils and erupts burning embers...

And going up, so high with hissing and explosion
Stromboli lights the sky and works up our emotion
like fireflies in their thousands, 'tis difficult to explain
and the misteries of Creation, we can humbly dwell on again.

giovedì 25 marzo 2010

Elisabetta Brizio, “Sulle tracce del sanatorio di Dobbiaco: Toblach e 'Toblack'”


Che Toblach fosse luogo astratto, svuotato di ogni senso fisico, “anticamera luminosa della morte”, come esemplarmente sintetizzava Sergio Solmi (a proposito di Toblack di Sergio Corazzini), e successivamente altri con lui, è solo parzialmente vero: vale a dire, è vero nella misura in cui ci riferiamo alla trasfigurazione letteraria condotta dai versi corazziniani sul sanatorio di Dobbiaco. Il quale peraltro è effettivamente esistito (Dobbiaco e San Candido, o Toblach e Innichen, se si preferisce, tradizionalmente erano due luoghi di cura della Val Pusteria). Nondimeno, il sanatorio di Toblach non coincide con quello che certa letteratura critica indica nella vicina San Candido.

Il Dott. Cesare Bartolucci gentilissimamente mi riferisce, in seguito alla sua circostanziata ricerca sulle tracce del sanatorio di Dobbiaco, che “interrogando alcuni anziani del posto, tutti concordano nell'individuare il sanatorio nell'ex scuola elementare (una costruzione a tre piani), sicuramente di aspetto "ospedaliero" o di caserma. Tale edificio si trova in via Conte Kunigl, di fronte all'ufficio postale, via che peraltro si continua con la Gustav Mahler. La costruzione in via Conte Kunigl viene soprannominata "LAZAR", il lazzaretto, dagli anziani. Attualmente ospita per conto della Provincia autonoma un centro diurno per portatori di handicap.

Credo che questa sia la versione più credibile circa l’esatta ubicazione del sanatorio di Dobbiaco. Dalla piazza della chiesa il lazzaretto dista pochissimo. In successione troviamo: la piazza, il Comune con Banca Cassa Rurale, il supermercato Sapelza e l’ex scuola elementare
Lazzaretto”.

Se tale preziosa precisazione non molto potrebbe aggiungere alla decodifica dei versi corazziniani, essa adombra tuttavia l’ipotesi fondamentale che Corazzini potesse figurarsi un luogo reale anziché congetturale quando si accingeva a trasfigurarlo attraverso la creazione poetica. Rileggiamo i quattro sonetti, legati in progressione dai numeri romani, dei quali il primo contravviene alla tradizionale struttura sonettistica, essendo i versi incorporati in una sola strofe anziché scanditi dall’avvicendarsi delle quartine e delle terzine, come accade nelle altre tre parti, sorta di feed-back nell’esplicitare la forma della prima, che non a caso si presenta graficamente contratta. Da sfondo sfocato del senza tempo nell’atonalismo delle mezze tinte e della acromatica malinconia crepuscolare (non solo le “vie”, ma anche le “giovinezze” paiono liquefarsi in “un grande sole malinconico”) nella descrizione dell’ambiente esteriore (laddove i simboli della campana, della fontana e della porta chiusa sono tra le più ricorrenti allegorizzazioni corazziniane), più avanti il codice tende a precisarsi quel tanto che serve a delineare il nesso tra l’evanescente spazialità e le “defunte primavere”, “le preghiere vane” e le “speranze perdute” dello spirito obsolescente. Allora Toblach diviene Toblack, “ospedal tetro”, luogo circoscritto e insanabile della vacuità dei desideri, nel quale si consumano tante adolescenziali meditationes mortis:


I


…E giovinezze erranti per le vie
piene di un grande sole malinconico,
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni, tutte
le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un occhio
di madre che rincuora e benedice.
II

Le speranze perdute, le preghiere
vane, l’audacie folli, i sogni infranti,
le inutili parole de gli amanti
illusi, le impossibili chimere,

e tutte le defunte primavere,
gl’ ideali mortali, i grandi pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno bere,
e quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile
e di perduto è in questa tua divina
terra, è in questo tuo sole inestinguibile,

è nelle tue terribili campane
è nelle tue monotone fontane,
Vita che piange, Morte che cammina.

III

Ospedal tetro, buona penitenza
per i fratelli misericordiosi
cui ben fece di sé Morte pensosi
nella quotidiana esperienza,

anche se dal tuo cielo piova, senza
tregua, dietro i vetri lacrimosi
tiene i lividi tuoi tubercolosi
un desiderio di convalescenza.

Sempre, così finché verrà la bara,
quietamente, con il crocefisso
a prenderli nell’ultima corsia.

A uno a uno Morte li prepara,
e tutti vanno verso il tetro abisso,
lungo, Speranza! la tua dolce via!

IV

Anima, quale mano pietosa
accese questa sera i tuoi fanali
malinconici, lungo gli spedali
ove la morte miete senza posa?

Vidi lungo la via della Certosa
passare funerali e funerali;
disperata etisia degli Ideali
anelanti la cima gloriosa!

Ora tutto è quïeto; nelle bare
stanno i giovini morti senza sole,
arde in corona la pietà dei ceri.

Anima, vano è questo lacrimare,
vani i sospiri, vane la parole,
su quanto ancora in te viveva ieri.


I sonetti di Toblack (“Rugantino”, 27.X.1904, poi confluiti in L’amaro calice, pubblicato nel 1904 con la data del 1905) si aprono in uno sfondo di indeterminatezza estrema (“…E giovinezze erranti per le vie”) conseguita non soltanto metonimicamente (“giovinezze” propende per l’astrattezza) quanto per la quasi ingiustificata congiunzione coordinativa copulativa inusualmente preceduta dai puntini di sospensione posti all’inizio, soluzione espressiva che pare sottendere la prosecuzione di un discorso già altrove cominciato, e che stabilisce una indistinta e tuttavia ossessiva continuità in questo lento (il peculiare uso della virgola ne sottolinea la scansione), disilluso e irreversibile - e dalla cadenza quasi ritualizzata - andare verso l’estinzione.

Gli elementi del catalogo crepuscolare - deprivati di ogni presunzione di oggettività e statutariamente riferibili a una sfera solo soggettivistica, sub specie interioris hominis - sono introdotti in un contesto, la città-sanatorio, che si propone di accentuare il senso di astrazione dalla vita e finiscono per smarrire ogni relazione con il proprio referente. “Portoni semichiusi, davanzali / deserti, qualche piccola fontana / che piange un pianto eternamente uguale”: tali entità refertuali sono poste in rapporto di coordinazione attraverso una sintassi nominale che inscena l’allusione a un seguitare lento e cadenzato, analogon verbale e prosodico del corteo dell’ultimo viaggio. Pur funzionando come sempre da paradigmatici specchi dell’io, con sensibile deviazione dalla logica della designazione, tali presenze-parvenze oggettuali passano attraverso una condensazione connotativa proprio mentre perdono di consistenza materiale, sfumano e si destrutturano in un ulteriore straniamento come per dare la percezione della propria estraneità al mondo fisico (e la versione definitiva di Toblack documenta lo sforzo corazziniano in tale direzione). Nella prima parte assistiamo a una solo apparente figurazione di un esterno, le cui componenti fungono da delineazioni dell’evento in una rarefazione che mette in crisi l’idea stessa di realtà come rappresentazione: l’oggetto corazziniano è la forma elettiva dell’inconsistenza della rappresentazione, con la conseguente dispersione della nozione stessa di realtà. Siamo di fronte a una indeterminatezza funzionale al crescente procedere astrattivo in coniugazione con l’evanescenza, motivo ispiratore e connotatore del testo. E contemporaneamente il paesaggio di Toblach si fa ipostatico e al contempo universale.

Nel secondo sonetto la descrizione diviene più marcatamente interiore, vale a dire il luogo appena tracciato nei suoi lineamenti essenziali diventa lo spazio in cui svanisce - nella medesima forma elencatoria per rapide evocazioni per prolessi - l’idea dell’infigurabilità di una prospettiva a venire. Vengono reiterate le figure metaforiche “campana” e “fontana”: stigma di condanna, diversamente che in altri luoghi corazziniani, la prima (peraltro unico dato sonoro eccedente sul silenzio che grava sull’intero componimento, un’assenza di sonorità, nondimeno, caricata di altri significati), espressione suprema di una progressiva consunzione, di una temporalità versata che coincide con l’agonia, la seconda. Ma l’epifonema (molto prossimo alla tautologia, nel costante corazziniano assimilarsi di vita e morte) “Vita che piange, Morte che cammina” vanifica ogni nostra divagazione ermeneutica. Con il referente “ospedale” si verifica, nel terzo sonetto, un mutamento, se non di tono, di densità verbale, in vista di un indebolimento dell’astrattezza attraverso l’immissione nell’universo morale dell’apprentissage della distruzione organica. Un costante (“senza tregua”) “desiderio di convalescenza” pervade e possiede i giovani “di sé Morte pensosi”: ma da “dietro i vetri lacrimosi”, bagnati, dunque, non solo di pioggia. Con l’introduzione della dimensione dell’ospedale diviene più esatta la qualità della nominazione: viene pronunciato il nome della malattia, letteralmente, la tubercolosi, si delinea una reale pulsione di convalescenza, neutralizzata dal sopravvenire della bara dalla terminale “ultima corsia”. Ma “quietamente”, “sempre, così”, nella rassegnata sottomissione a una meccanicistica ineluttabilità, iterativa e ossessiva. Il sonetto di chiusura costituisce una invocazione - di qualità eminentemente autoreferenziale - all’anima di un giovane trapassato che emblematizza la sorte collettiva nell’alonata luce dei ceri: l’iterazione dell’attribuzione anaforica “vano” nell’ultima terzina vale come sottolineatura della inermità e della vanità di ogni resistenza, finanche spirituale, disposizione che fa di Toblack un cantico della rassegnazione.

Toblach è luogo di deriva e documento di sopportabilità, dimensione incerta di trapasso, paesaggio liminare dello spirito disilluso di una assorta (“pensosi” sono i “fratelli” del poeta) umanità residuale che, non dimentica della vita (“disperata etisia degli Ideali”), indugia - quasi a reclamare l’ultima verità - alle soglie: dalle quali misura l’elegia dell’esistenza, in crescente identificazione con la sparizione. E i versi di Toblack costituiscono la trasposizione metaforica (ius vitae ac necis, quindi il destino stesso) di un ambito che da luogo di cura declina in spazio (irreligioso, malgrado i fugaci riferimenti al “crocefisso” e alla “Certosa”, che non possiamo evitare di raffigurarci nella chiesa parrocchiale di Dobbiaco, con attiguo cimitero: altrimenti, perché accade realmente di commuoversi in quei luoghi?) di appressamento alla morte, metaforizzazione, dunque, dell’inattingibilità della vita o dell’ascrivibilità alla dissoluzione.


Elisabetta Brizio

mercoledì 24 marzo 2010

LA POESIA DI GIACOMO LERONNI FRA DIVENIRE E "SECURUM AEVOM"

L'Iter Brundisinum di Orazio si apre con la visione, lontana ed impassibile, di aridi «candentia saxa», per poi chiudersi - dopo gli accidenti variegati, ora grotteschi ora lascivi, di un viaggio tortuoso e malagevole - con il richiamo al «securum aevom», al tempo immobile, trascendente, indifferente all'umano, in cui dimora il divino.

La poesia fiorita in Puglia (e più in generale in vaste aree del Mezzogiorno) - la «cospirazione provinciale», autonoma ed antitetica rispetto alle correnti dominanti, che remotamente la sfiorano ed insinuano in essa la propria eco perturbante e filtrata, di cui parlava Vittorio Bodini - è germinato proprio da questo terreno arido e duro, ma per tal ragione appunto propizio a solide ed antiche radici. Un'aridità feconda, un torrido refrigerio intellettuale che rappresentano la vera cifra espressiva della tradizione poetica Apula (su cui si può vedere l'antologia, curata da Daniele Maria Pegorari, Puglia in versi, Bari 2009), la quale trova anche nello stesso dialetto locale - ellittico, densissimo, scontroso, aspro, e proprio per questo consono, come pure quello calabro, alla vena moderna - un idoneo rispecchiamento.

«Delle radici è luce la figura / del nascere e del crescere, ed è ombra / solare ogni sua pausa che cattura / la densità del fiore e della tomba», scriveva Girolamo Comi, orfico e cosmico. «La vita per strade d'ombra rotola / con la stessa sembianza in cui si sgretola / il tempo», canta Luigi Fallacara: il paese del sud, con le sue controre, i suoi chiaroscuri, i suoi meriggiari, è figura temporis, immagine visiva e spaziale dell'eternità che si assottiglia e percola e fluisce nel divenire dei giorni e dell'esistenza. «Tra la mota erosa e una dolomia l'abisso si apre», dice Salvatore Ritrovato: la Terra-Madre, la Ur-Heimat può divenire, per epifanie negative, per neri bagliori, allegoria dell'Abgrund, dell'esistenzialistico Abisso. Il dialetto è lingua, idioma limpido della culla-tomba, come appare evidente dai dialettiali: ad esempio nella visione sepolcrale di Grazia Stella Elia («ammicche / de la véte e dde la mörte», «andechetà ca parle / jind'a sti grütte»).

Nell'antologia citata (dalla quale sono tratti tutti i pochi frammenti, meramente esemplificativi, che precedono) Giacomo Leronni è presente con un testo (Dell'eterno, in minuzia a Monte Sannace) non incluso, invece, nel libro (Polvere del bene, Manni, Lecce 2008). Ma proprio quel testo offre spunti decisivi per l'interpretazione del suo mondo poetico.

«parole affastellate, trascorse / il tempo di girarsi / di accostare il vuoto che fruscia // lampo su lampo / scossa dopo scossa // eccolo annotato, siglato / il luogo non-luogo / il senso imperscrutabile / di tutta questa vita che non sazia». Il paesaggio si fa testo, e il testo paesaggio, paesaggio di parole e di segni: sistemi, l'uno e l'altro, di segni appunto, di tracce, di schegge, di «broken images» direbbe Eliot, invasi e abbacinati da una luce annichilente, assoluta, intemporale - come la montaliana «gloria del disteso mezzogiorno».

Poesia essenziale, necessaria, rastremata, quella di Leronni, germinata da un paziente, rigoroso e silenzioso limio, protratto negli anni, vòlto a conseguire la compiutezza, l'esattezza - un «hostinato rigore», avrebbe detto Valéry lettore di Leonardo -, concettuale ed espressivo, senza però perdere in suggestione e portata evocative.

Versi, questi, in cui parla, per così dire, una modernità assoluta, e l'assoluto della modernità - una sorta di Novecentismo trascendentale (da Rilke a Celan, da Montale a Luzi, ma con il maestro Mallarmé, «monument en ce désert, avec le silence loin», sullo sfondo, alle origini e alle radici) assunto a contemporaneità perenne, quasi senza tempo e oltre il tempo.

«Quante cose strane e quanto vane / la vita cuce a sangue ad una ad una». «Non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani», diceva il bergsoniano Montale. La deriva dei segni sembra rispecchiare una deriva, una frantumazione spazio-temporale, una nullificazione del senso.

Eppure, con lucido ostinato paradosso, il senso dell'esistere continua ad essere riposto in quella stessa poesia che sembra denunciarne l'assenza. Nella malattia è già inscritta la cifra del rimedio. Il senso è, infine, il proprio stesso vuoto, il proprio stesso dileguo (il che si riflette anche in certi iati, in certe sospensioni, aritmie, apnee, della scansione metrica). «Scrivi, cingi il giorno con frasi / di buio. / (...) Scrivi almeno tu, frenetico / la mirabile vita assente». Rivive qui l'imperativo alla scrittura come testimonianza di una ricerca di senso nel Fortini di Traducendo Brecht: «Nulla è sicuro, ma scrivi» - insieme alla tragica ambiguità dantesca della luce fasciata dall'oscurità, del globo di intellettuale fuoco «ch'emisperio di tenebre vincìa».

Eppure, proprio quel fuoco, quella metafisica pira coronata di nulla cela e cova la «polvere del bene». La «brace dell'alterità» può rivelare l'eccesso, la trascendenza del securum aevom, del tempus illud, della temporalità metafisica rispetto a quella immanente e transeunte. «Il rogo morde, il rogo è puro», come nella consunzione espiatoria del Luzi di Las Animas.

«Nella polvere del bene / quando splende la morte rigorosa / ti ritiri con un soffio, affili / l'alba della parola». La parola nasce da una «morte rigorosa», da una lucidissima eclisse del soggetto, da una, avrebbe detto Mallarmé, «disparition élocutoire du poète», il quale, sia pure in modo deliberato e vigile, «cede l'iniziativa alle parole», alienandosi nella pagina. E proprio da questa lucida e razionale morte mistica la parola poetica riceve vita - «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie».

Poesia aspra, scontrosa, petrosa, che sulle prime mette in difficoltà il lettore. Ma, come il Sileno di Socrate, il discorso racchiude una sua anima aurea, un suo prezioso nucleo di rivelazione, un suo durevole contenuto di verità.

Del pari, «poesia del silenzio», che ricerca la verità e approda all'assenza, al deserto dei giorni, alla nudità delle cose abbandonate a se stesse in una luce svelante e svelata. Eppure, come detto, dopo il rogo purficatore, rimane la polvere del bene. C'è una sorta di Kenosis, di svuotamento, che prelude alla pienezza, una privazione che prepara alla grazia, come la quiete si dischiude al canto. Nondimeno, questa poesia resta tutta annodata e raccolta intorno ad un segreto insondabile, ad un nucleo duro di imperscrutabilità che il lettore e il critico possono trovare imbarazzo a concettualizzare ed esprimere.

Discorso, quello di Leronni, che pure sembra rifarsi ad una certa linea di ermetismo e di modernismo meridionali, da Sinisgalli a De Libero, da Calogero a Cattafi, ma che del pari dà la sensazione, pur con tutto il suo spessore, la sua densità, la sua con sapevolezza culturale, la sua ricchezza di sommersi sovrasensi, di essere nata da sé, dal nulla, come un fiore dalle pietre. Ma, certo, questa essenzialità è frutto di un lungo labor limae.

Forse, il significato ultimo della poesia di Leronni sta proprio in questa assenza, o inafferrabilità, del significato stesso. Essa però comunica non il suo mero esser-se-stessa, ma anche il suo esser-altro, e se-stessa-in-altro - non la propria matericità di suoni e sillabe, il suo mero autonomo significante, ma, al contrario, proprio la molteplicità inesauribile ed inafferrabile dei suoi significati, variegati e sfuggenti come quelli stessi della vita. «Cose strane e vane», «mirabile vita assente»: insomma il leopardiano «arcano mirabile e spaventoso» dell'esistenza, come del linguaggio. Nominare, o meglio evocare, questo mistero è uno dei ruoli eterni del poeta.



Matteo Veronesi

sabato 20 marzo 2010

"Amori ac silentio sacrum di Adolfo De Bosis. L’irrazionale razionalità della poesia", di Elisabetta Brizio










Non l’attestato della propria orfanità, o di un destino di solitudine e di distanza: poesia, per Adolfo De Bosis (1863-1924), è medium comunicativo di responsabilità collettive e voce essenziale del fondo ultimo dell’esistente con tutti i suoi significati nascosti e le sue tensioni irrisolte. Allo scioglimento di questo equivoco strutturale, che vede una poetica basarsi sull’equilibrio di spinte contrarie, o quantomeno su una ambivalenza vocazionale, concorrono uno sguardo mitico, una energia mitopoietica eletti a vero e proprio metodo operativo, a principio informatore, strutturale, espressivo e insieme interpretativo. Tale criterio sorveglia pressoché tutte le dodici sezioni di Amori ac silentio sacrum, le dispone relazionalmente e riaduna gli elementi diffusi e radicalmente eterogenei, prossimi e lontanissimi – del soggetto, della natura, del passato, dell’arte, delle questioni di carattere sociale – che ora si presentano come riflessi d’archetipi, ora assumono caratterizzazioni ideologiche, ora assolutezza di accento. Si avverte un’affinità di sostanza tra l’intonazione, il livello sonoro e la classe delle categorie trainanti, delle figurazioni, delle essenze e dei principi vitali – quali acque, terre, aurora, sole, nella costellazione delle maiuscole che si affollano in questi versi –, la cui funzionalità specifica si mette in rapporto con l’intero, senza quindi precludere la ricomposizione della molteplicità di risonanze e riviviscenze centrifughe inevitabilmente chiamate in causa. In un’opera, avverte l’autore nel prologo, che tiene insieme «il frutto di antichi ozi» e «il segno di recenti propositi».
Non ricordo chi lo scrisse, né a che riguardo, in Amori ac silentio si ha comunque la stessa sensazione di star di fronte a un’opera pointilliste in attesa che si verifichino la confluenza e l’accorpamento degli elementi messi a contatto. Simultaneità, interdipendenza e interdefinibilità delle componenti tematiche conferiscono ai versi di De Bosis una consistenza nuova: alludere, perché è il suo fondamento, all’idea della memorabilità dell’umano e al valore della vita, colta nella sua fatticità. Questo, trasvalutando posizioni veteropositivistiche, e inquadrando la letterarietà di quelle estetistiche – tipiche del clima decadente cui De Bosis stesso partecipava – attraverso una galleria di liriche incarnazioni che definiscano il nesso tra la bellezza e il progresso dell’uomo: due fattori, questi ultimi, dialetticamente interagenti in un confronto che porta lo scrittore a misurarsi con la propria memoria e con le contingenze storiche. Il nesso problematico che l’autore cerca di instaurare intercorre tra estetismo e ragione, i due vettori dell’ispirazione di De Bosis. Problematico perché “bellezza” ha al contempo valore intrinseco e strumentale, conta come fine ma anzitutto come tramite.
De Bosis vive drammaticamente il dissidio tra il culto della vita e della bellezza e l’eredità del lutto per il suicidio paterno. Ora, se l’argomento del lutto familiare lo accomuna a Pascoli, in Amori ac silentio il referente autobiografico non viene amplificato per via allegorica o mediante relazioni contenutistiche, né sulla scia delle sovrabbondanti rime tematiche pascoliane, bensì si dissolve in allusioni indirette, come altrettanto si può dire per ogni disposizione affettiva di De Bosis, la cui souffrance del ricordare viene depressa a favore di un procedimento che mira a reinventare, e insieme a razionalizzare, l’esperienza e il vissuto. E neppure De Bosis s’adagia smarrito nel flusso del mistero cosmico o quotidiano che vorrebbe tenere lontana la storia, come non inclina verso i termini estremi dell’istintivo o dell’irrazionale fin de siècle, il suo discorso lirico modulandosi – se non entro un canone definito – su una predeterminata disposizione razionale, immanente, dove le seduzioni decadenti vengono sottoposte al vaglio di una riflessione mediata dalla irrazionale razionalità della poesia. Diversamente detto: la lingua letteraria è il punto di incontro di linee concettuali l’una all’altra estranee ma polarmente coessenziali, e la coscienza estetica è la stessa contraddizione che le unifica, ed è perciò chiamata a disciplinare l’impensato razionalizzandolo e traendolo dal suo orizzonte iper-simbolico perché incida in modo decisivo sulla vita del soggetto e sulla storia in corso.
La mediazione tra dimensione estetizzante e l’istituirsi di una coscienza sociale si può far discendere dalla lettura dell’opera shelleyana; per Shelley la divinità dimora nel mondo e meta ultima della poesia è la scrittura di un poema universale che dovrà sgorgare, quasi per necessità, da una configurazione lirica all’interno della quale la bellezza fattasi parola è il nome che trascrive ed esplicita le significazioni oscure dell’invisibile. Nel dramma lirico Prometheus Unbound (che De Bosis tradusse) Shelley invitava i poeti ad attenersi a un lessico tale da sorprendere e nominare nuove profondità dell’impensato in un percorso quasi medianico. Ma a ben vedere, in Shelley si assiste a una ambivalenza fondante, e dialettizzabile: da un lato egli prefigura visioni utopiche con la sua tensione verso l’infinito e il divino, visioni che prendono contorni misticheggianti, che in quanto tali suppongono un sensibile scarto dal mondo: l’oltreumano contempla il confluire dell’umano nell’anima universale. Dall’altro, entusiasticamente acconsente a idee di giustizia e di libertà, e pertanto mostra attenzione verso esigenze non svincolate dalla storia. Ed è stata forse questa seconda istanza, trapassata nell’ideologia di De Bosis, a indicare la via per un impiego e per una declinazione non solo estetici o esoterici, ma anche ideologici e potenzialmente operativi, del pensiero riflessivo. Per Shelley del resto la percezione dell’invisibile è thrilling al pari dell’invocazione alla libertà.
Attraverso il sensibilissimo influsso shelleyano irrompe dunque il valore dell’elemento politico della poesia di De Bosis, trasfuso in atmosfere ora sfavillanti, ora rarefatte e smussate in una indeterminatezza di fondo. Un «Mare Oceano» di vita avvolge l’uomo di forza feconda e creativa, la quale – Tilgher osservava – se oltrepassa le possibilità conoscitive dell’individuo, al contempo lo preserva e lo nobilita. Non un individuo in fuga, il soggetto lirico è interamente immerso nella vita: un vitalismo siffatto può eccedere i limiti dell’umana ragione senza con ciò segnare una ricaduta nel modello radicale di una natura matrigna o in osservazioni iper-critiche del destino. Thrilling per De Bosis è l’itinerario della vita che si inoltra verso la propria necessità, eludendo sovraesposizioni al negativo mediante un contemperamento di poesia e azione al fine di avvolgere la sfera dell’esistente entro un’aura, duplice e una, di verità e bellezza. Lo shelleyano slancio dell’esistenza coincide con una forma di libertà che sa la positività – in quanto potenzialità – del limite e dell’impensato concessa all’individuo che si avvii verso la propria destinazione. E lo stesso coefficiente, per così dire, “popolare”, viene assunto a ingrediente apportatore di vitalità, come la forza che coopera per l’armonia universale. In Amori ac silentio si scopre la presenza di Keats, in particolare nell’idea di bellezza come rigenerazione intellettuale e nella visione dell’esistenza accolta senza residui che si risolve nella fusione – tuttavia insufficiente a giustificarne l’identificazione – di bellezza e verità, evidente presupposto di un estetismo che pone e attesta le proprie ragioni assolute, arbitrarie solo all’apparenza, e invece dettate da una profonda necessità esistenziale e ontologica, dunque soggettive, sentite, niente affatto dogmatiche: ragioni extrarazionali o sovrarazionali più che irrazionali. Benché la certezza della verità solitamente si situi distante dall’io. Così in Ode on a Grecian Urn: «Beauty is truth, truth beauty, – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know».
In Amori ac silentio si percepisce inoltre qualche eco leopardiana, tanto in certi stilemi petrarcheschi fatti propri da Leopardi, così come nella visione preromantica e romantica di una sensibilità moderna non più “ingenua”, non immediata e irriflessa, bensì “sentimentale”, tesa a ricercare e a ricostituire, per via consapevole e volontaria, la perduta armonia con la natura. E La ginestra, quel disperante richiamo alla fratellanza universale, viene recepita da De Bosis in maniera positiva, non indefinitamente utopica, o atteggiata a una stoica accettazione. Eccedono invece gli echi carducciani, che si legano alla peculiare forma di nazionalismo del «Convito», consistente nella riabilitazione degli ideali risorgimentali dopo averne espunte le scorie roboanti, retoriche ed eroiche. Dirompente è l’incidenza carducciana nell’elogio del progresso, incarnato nella figura del macchinista nell’omonima sezione, e in certa configurazione metrica della versificazione, la quale certo risente delle novità, delle singolari oscillazioni sillabiche, dei “rubati” per usare un termine musicale, introdotti dalla metrica barbara.
De Bosis è tra i primissimi, in Italia, a usare il verso libero, emulandolo – come poi farà Pavese – da Whitman: un verso discorsivo e disteso, salmodiante a volte, eppure melodioso e flessibile, come in A un macchinista. L’Inno al Mare invece è in distici elegiaci barbari, carducciani. Ma proprio la metrica barbara, nel momento stesso in cui cercava di riprodurre in italiano le movenze di quella classica, scardinava alcune consuetudini metriche dell’italiano, e faceva paradossalmente il gioco della nuova metrica, aprendo la via alle libere e mutevoli scansioni, per così dire enarmoniche, del vers libre. L’Inno alla Terra è in versi brevi, con rime frequenti e variate, e anticipa nitidamente la strofe lunga del D’Annunzio alcyonio. Ai convalescenti è in quartine di versi liberi con rime ora baciate, ora incrociate, ora alternate. Amori ac silentio sacrum non obbedisce a un a priori prosodico: è un autentico cantiere di poliformi esperimenti metrici, un esempio di proto-Novecento ante litteram, in uno svolgimento stilistico circolare che contempla l’allontanamento dalle regole della tradizione per poi riaccedervi più consapevolmente con gli stessi ornati motivi formali. Un multiforme connubio di tradizione, modernità e innovazione, che era nell’aria, e che viene da De Bosis recepito ancora parzialmente, senza grande convinzione, ma in modo significativo in rapporto al contesto storico e letterario: una alternanza di soluzioni che, oltre ad aggiungere vitalità e complessità, allude all’uscita dallo stato di perenne “convalescenza” proprio della sensibilità decadente, e sembra dunque aprire la strada a nuove soluzioni, a ulteriori e più solari prospettive, tanto da conferire al percorso stesso dell’opera quasi un valore di riflesso particolare e individuale di un’intera esperienza storica.
Proviamo allora a osservare un po’ più da vicino i momenti salienti del discorso creativo di De Bosis, prevalentemente declinato nella tipologia dell’inno. Nella Invocazione l’arte si configura nelle vesti di un sogno che balena nell’uomo pur restando nei margini di una tensione inappagata; l’arte dissolve ogni abisso e, nonostante i «misteri ineffabili» che solleva e che lo scriba ambisce a verbalizzare, conserva la facoltà di trarre l’anima dalla «fredda tenebra» e dalla dimenticanza, dalla tentazione a perdersi nell’infinitudine della corrente dell’enigma, illuminandola alla maniera una fede che scalda e agita l’esistenza. Con tutto ciò, l’arte è quasi inumana, «impassibile» e «marmorea» nei confronti delle cure dell’uomo, non elide né dissimula il suo deserto, né possiede proprietà consolatorie o di rifugio dalla storia. I Notturni paiono la sezione meno progettuale del libro, sembrerebbero anzi contravvenire alle dichiarazioni programmatiche del discorso proemiale. Qui la voce di De Bosis in tono meditativo si inarca in una contemplazione dell’ora che vede lo svaporare di ogni consistenza logica. In questa allegoria temporale si perde la distinzione tra le cose: un coro unanime di luoghi e parole stilizzati e senza corpo «sing sound silence / of my sound», avrebbe potuto dire De Bosis, come Kerouac nella notte beat. Essi non circoscrivono lo spazio e non implicano il tempo, cadenzandosi su ombre e cromie sospese in un fremito vagamente religioso dinanzi all’accadere dell’invisibile in arcane rifrazioni sonore – vi aleggia qualcosa di keatsiano, dei versi conclusivi di Ode to a Nightingale: «Was is a vision, or a waking dream? / Fled is that music: – do I wake or sleep?». E di dannunziano: «Vegli con noi quest’Ombre ed il supremo / lor sacro amore» (Anniversario orfico).
La voce della poesia è quell’essenza sonora dall’origine celata: il laureto, da Petrarca in avanti, è emblema della parola, o meglio della natura che si trasfonde in parola pura in virtù della vis superba formae, della superba forza della bellezza (della quale D’Annunzio parla nel Proemio del «Convito»). Tutto si amalgama in questa illogica o sovrarazionale alternanza: stilemi letterari, suono, aroma, silenzio, preziosità aurea, la realtà e la sua maschera, la materia e il suo ornamento. Tutto un quadro nasce dal canto: Stimmungen pascoliane («finissimi sistri d’argento») e dannunziane, che forse trapasseranno in Montale («d’alti Eldoradi / malchiuse porte») che qui sembra già di presentire. E come, nei due accostamenti sinestesici in sequenza, «trema il Silenzio in suoi tintinni d’oro», così la notte è palpito di vita; e nella rimarcatura della tmesi «armonїosa / mente-misteriosa», essa è percezione del fluire dell’intemporale «Fiume del Tempo», della dilatazione delle cose nel dominio del silenzio in seguito all’immissione dell’anima nel flusso immobile del senza tempo.
La notte, però, è nei Notturni anche potenziale orfico, gorgo di ombre e allegoria dell’appressamento alla morte, sotto specie di rievocazione della figura paterna («odi me lunge tratto dal memore suolo paterno»), e, conseguentemente, tempo e luogo in cui affiora la seduzione dolce-triste delle ricordanze. E l’invocazione di De Bosis – che mostra quasi di temere i convegni memoriali – è rivolta proprio alla tenebra perché non comprometta, oscurandola, la sua identità individuale, a quella notte che nell’aspazialità del suo spessore pur tanto istiga il soggetto lirico trascinandolo verso «ignote rive»: «Notte, sia con Adolfo quest’anima sua perigliosa!». Sulle tentazioni dell’anima vulnerabile finisce dunque per prevalere l’azione legislatrice e ordinatrice di un razionalizzante rigore mentale.
«A te ricorro, o Arte», De Bosis scrive nel Sogno di Stènelo, dopo il lungo rallentamento del ritmo nell’intrattenimento sul notturno. Non di un riparo dell’anima, bensì di una ingiunzione a guardarsi dentro l’arte costituisce il tramite comunicativo. La bellezza, nella Elegia della fiamma e dell’ombra, oltrepassa l’estetico e suscita l’imperativo: «adora», «ama», altro grande motivo di Amori ac silentio, e, inoltre, segnale di una costante disposizione testimoniale e non giudicante. La vita è massimamente esperibile, ma resta ingiudicabile. Ancora: come il silenzio, l’amore è l’intermediario dell’avvertimento della totalità. La parte dedicata ai Sonetti è piuttosto diseguale per temi e modulazioni (intimistiche perlopiù), e soprattutto per le concessioni che in note elegiache De Bosis fa alla propria mitologia privata: il discorso lirico si disperde in attimi retrospettivi oscillando dal desiderio di eclissarsi negli affetti familiari alla memoria della casa paterna e del trauma abbandonico, dall’amore caduco (alla caducità della bellezza, della giovinezza e dell’amore era dedicata la sezione Ala caduca, a una temporalità corrosiva la già crepuscolarissima Anima errante, che segue I sonetti) all’immagine di un’anima attediata e con le sue contraddizioni mai ricomposte, dall’elevazione dello spirito affinché ispiri il suo nominare al culto della libertà in vista del superamento di ogni indugio che trattenga e dissuada dal guardare la vita «innamoratamente», neutralizzando quella venatura di spleen «ne l’infinita santità del Tutto» – assunto che sembra misticamente ribaltare la rilettura leopardiana della biblica vanitas vanitatum come «infinita vanità del tutto». Nel sonetto di chiusura ricorrono diverse voci pascoliane dei Conviviali, lì sottoposte alla tecnica dello straniamento, qui ancora all’interno di un campo metaforico: alludo, ad esempio, a «remo», che diviene «ala» nei Conviviali, dove il viaggio in mare di Odisseo assume le caratteristiche di un volo. Nell’endiadi «esperto di calma e di fortuna» De Bosis rende l’impressione di aver trovato il proprio centro nell’inquisire, nello sperimentare l’apparentemente acquisito ove esso sia a portata di mano, accessibile ai sensi e alla ragione («fiso è il mio cuor vigile ad una / meta»): ha interrogato cielo e mare e il suo «divin riso salmastro», nesso sinestesico che anticipa il novero delle facoltà del «Mare Oceano» in quello che sarà il suo poema del mare.
Ai convalescenti definisce uno stato convalescenziale generazionale, la remissione dal quale sarà possibile attenendosi alle acquisizioni del pensiero logico. La malattia potrebbe ascriversi, Croce osservava, alla contestualità di sfarzo, straordinarietà compiaciuta e genericità nelle istanze dell’estetismo. De Bosis intuisce l’intima contraddizione del condividere utopia e deriva, e ne teme il contrappasso che le spetterebbe. Ma il «male mortale» è per lui anzitutto assistere inattivamente a qualcosa che istintivamente si percepisce come errore, il perseverare in questa inerzia, cui De Bosis oppone un ideale di vita come prassi sulla linea della fusione paradossale, Tilgher affermava, dei due opposti dell’attivismo dannunziano e della pascoliana prossimità con il mistero. Né sgomento cosmico né oltreumanesimo trapassano separatamente nella sezione Ai convalescenti, centrale nell’ideologia di De Bosis: eludendo lo stallo in interrogativi iperbolici e senza soluzione, e mantenendosi al di qua di ogni giudizio, De Bosis si arresta a una accettazione fattiva dei margini dell’esistenza: «Io dico: Non dimandare! / ché la tua breve ragione / non ti si svii dal timone / mentre corri per l’alto mare». Non accelerare il ritmo, lasciare che la convalescenza dello spirito si attui naturalmente: «così le pietre per un pendio, / così l’amore verso l’oblio, / andare, pur sempre andare, / come i fiumi vanno al mare…». E seguitando: «Io dico: Aspetta! C’è un mondo / che tu non conosci, il migliore. / Aspetta: ti albeggia profondo / del cuore del tuo stesso cuore». Tanto qui che nell’Inno alla Terra, più avanti nell’opera, il sogno di pace universale non è un obiettivo solo ideale e individualmente perseguito, ma è «sempre universalmente – è ancora Tilgher a notarlo – umano e collettivo», un sogno dei figli della terra «confederati in un gran patto d’amore». Un po’ oltreuomo nella sua vocazione a trascendersi, un po’ fanciullino nella prospettiva di uno sguardo aurorale sul mondo, del conoscere per la prima volta le nostre antecedenze, l’uomo si avvale della ragione nella qualità di paradigma che unifichi bellezza, praxis e misura.
Gremito di metafore e di accostamenti analogici e sinestesici, l’Inno al Mare (Da l’Eremo del Monte Cònero una mattina di settembre) – laddove l’elemento marino, nella misura in cui lambisce innumerevoli terre, è principio di congiungimento di tutte le genti, ipostasi mitica di libertà – è un elogio a un mare oceanico che è insieme profondità e increspatura, movimento perenne e silenzio, eternità e insofferenza, insonnia e minaccia, «repubblicano» e vittorioso. E alla domanda: qual è la destinazione del mare? De Bosis si limita a rispondere: «io non dimando. Adoro». Una aurora (l’anima, la poesia?) dalla vocazione mimetica si mescola al «sonante palpito» delle acque marine e si inabissa nelle loro intrasparenti e noumeniche profondità, riemergendo da questo amplesso «esperta di sacre paure», e «recando / la visïone e il rombo seco» dei misteri dell’anima. La superficie liquida è più che speculum che rimandi una riproduzione verosimigliante; o meglio: lungi dall’essere un immemoriale sepolcro di acque, la distesa marina è sostanza fluida che contiene e veicola «sacre parole, eterne», echeggia «d’una misterїosa vita», e la terrestrità esperisce dell’essenza della liquidità. Nel fondo del mare una Aurora talattica (l’«anima sgombra» e ricettiva del poeta) anziché il mistero invisibile scopre la sua vera misura: il riverbero della terra, che si incrementa di forme equoree, in un reciproco assimilarsi degli innumerevoli strati dell’esistente per una conformità sostanziale. Il mare restituisce una entità più compiuta, più complessa, simile a un paesaggio rovesciato – in realtà compenetrato, amalgamato, “incorporato”, per usare un termine proustiano – di Elstir. Adattando un’espressione di Michel Butor relativa alle Regate di Monet: «l’alto dà un nome al basso» e «il basso svela l’alto». Nel mare dunque non va definitivamente smarrito il senso della terra, «se l’Alba / da le pacate verdi solitudini, // da le foreste algose, da gl’inaccessibili gorghi // pur un notturno murmure rauco trae».
Segmento particolarmente eccentrico del libro, A un macchinista sovverte i canoni delle altre sezioni sia sotto il profilo di una intonazione in linea di massima antilirica (dialogistica, monologante con frequenti interrogazioni), che per ciò che attiene all’andamento piano e narrativo, saggistico quasi, dove le misure si allungano (scompare qui quell’iperbato che finora aveva ritmato non solo l’endecasillabo) per figure iterative quali l’anafora, l’enumerazione e l’elencazione ellittica per una moltiplicazione delle valenze simboliche degli oggetti. Oggetti che qui ineriscono alla vita moderna. Con evidenza e potenza whitmaniane e carducciane, A un macchinista introduce in Amori ac silentio la storia e il suo progresso, e la loro portata anche problematica che le figure di ripetizione sottolineano ed enfatizzano, moltiplicando questioni e sollecitazioni. Non più la natura e le sue vibrazioni profonde rese attraverso scaltriti accostamenti verbali e preziosità decadenti, ma il luogo distinto dell’inestetica attualità della stazione nella designazione dei suoi dettagli ossessivi con il loro valore strettamente referenziale: la locomotiva in corsa, «l’acciajo», «stantuffi», «molle», «valvole», striduli freni, il «fragore ferreo» delle «rotaje» sottolineano l’elogio del nuovo dinamismo della vita, della storia in atto e dell’avvenire. «Avanti avanti» è un esplicito richiamo a Carducci, presente in alcune scelte lessicali, in quel margine di intimismo qui concesso che culmina nella domanda, solo implicita in De Bosis, «dove e a che move questa, che affrettasi / a’ carri foschi, ravvolta e tacita gente?», che nel Carducci di Alla stazione una mattina d’autunno è immersa in un’atmosfera plumbea che avvolge l’ambiente, lo sfondo, la scena, e risulta dominata da un tedio dissipato, invece, da De Bosis, la cui stazione non è di partenza ma d’arrivo, luogo non dell’addio e del distacco, ma al contrario dell’incontro, del ritrovamento. Carducciano è, comunque, il rimando alla locomotiva che «sfida lo spazio», intesa come rappresentazione simbolica del progresso tecnologico – sebbene nel più temperato e spirituale De Bosis il treno sia privo di quelle connotazioni tecnolatriche e marcatamente laiciste che troviamo, ad esempio, nell’Inno a Satana. Come il mare, così – metonimicamente, per il macchinista che la conduce – la locomotiva è passibile di assunzione emblematica quale condizione dell’unificazione tra i popoli: «tu rompi e oltrepassi i confini e gli odii formati dai volghi / e dalla natura», «tu mescoli le lingue e le esperïenze degli uomini inconsapevoli».
Se nella sezione Pace da un lato si ristabilizza l’usata flessibilità del ritmo, con l’immissione di accenti e temi foscoliani, commisti a echi di eventi contemporanei (altro è «il despota», sostanzialmente identico l’incitamento enfatico a rimettersi alle già foscoliane «egregie cose»), dall’altro la scansione innodica non si discosta dalla dimensione acustica dell’elogio al macchinista, ribadendo il rifiuto dell’isolamento dell’artista per la speranza di una pace universale: «Avanti, avanti! Fuggon gran fasci di nuvole a tergo: / vien nova luce, in contro, venta gran rombo d’ali. // È l’Invocata, alfine, la Nike novella che scende / nunzia de’ cieli al mondo, l’aquila bianca, Pace». Antileopardiano nella concezione di una natura per costituzione intrinseca benigna, lievemente leopardiano in qualche stilema tipico del recanatese, leopardiano sui generis nella misura in cui viene vaticinato un vicendevole appoggio tra gli individui, l’Inno alla Terra è anch’esso scandito dall’iterazione anaforica attraverso cui la poesia innodica si declina, unitamente a una ondulazione musicale che, dannunzianamente quasi, fluisce senza spezzature anche in virtù di una diversa distribuzione delle rime, mentre va scomparendo l’iperbato, esondante nella maggior parte delle sezioni del libro. In generale, l’iperbato – oltre che accentare la valenza semantica del ritmo – denota uno spostamento, una alterazione, una enfasi che si riversa su un determinato elemento dislocato rispetto all’ordine usuale del discorso – al modo della poesia stessa, specie se volutamente artificiosa, «anywhere out of the world», come quella dell’estetismo, è sempre uno straniamento rispetto all’ordine esistenziale ordinario, all’ordine temporale e ontologico.
Venuto meno ogni dissidio, ormai esperto della vita e dell’arte De Bosis chiude questa sorta di canzoniere (per estensione, nella misura in cui delinea una evoluzione tematica, perlomeno realizza, se non una teleologia, almeno il diagramma di una intenzione, svolgendola strutturalmente) con un canto di lode – nel duplice solco dantesco e shelleyano – a quella terra che trattiene così tante affinità con la poesia come accordo tra mondo interiore e sfera esteriore dei rapporti e degli accadimenti («mentre al segreto ritmo io tento s’accordi la vita», Il comiato) e convergenza di biografico-biologico ed espressione. L’opera allora assomiglia alla vita stessa, un’offerta sacra all’amore e al silenzio quale sua controfigura, figura rovesciata come in un ologramma.
Fondato da De Bosis, «Il Convito», una delle riviste dell’estetismo decadente italiano (stando anche al suo programma iconografico e alla sua ricercatissima veste editoriale) esce tra il 1895 il 1907 in forma aperiodica. Contro lo stagnare di energie intellettuali in orgogliosi ancorché sterili sogni claustrali, ma in particolare in reazione al declassamento del culto della bellezza e dell’ideale da parte della «presente barbarie» – che disabbellisce tanto la vita che gli ideali – è rivolto il Proemio del «Convito» (del gennaio 1895), probabilmente redatto da D’Annunzio, che vi sintetizza il programma della rivista nel recupero della volontà e delle idealità della stirpe latina quale incarico primario dell’artista militante nell’intuizione, e nella messa in atto, della «vis superba formae» – dove non è difficile distinguere simboli ed empiti nietzschiani che senza il loro carico tragico erano affluiti nel Trionfo della morte.
L’eccesso di estetismo degli anni che vanno dal 1895 al 1900 veniva stigmatizzato da Croce come contegno, emotivo e intellettuale, verbalistico, intemperante, narcisistico. Un movimento senza obiettivi – scevro com’era di reali o giustificabili motivazioni all’infuori di una smaniosa ed esaltata insofferenza – e votato pertanto a perseguire «una parvenza di scopo». Secondo la prospettiva crociana questo orientamento estetizzante di fatto non si concretizzava né in una reazione alle estenuazioni romantiche, giacché a liquidare certe forme epigoniche del romanticismo aveva già provveduto la restaurazione carducciana; né, in ultima analisi, in un paese qual è il nostro, dalla salda – e per certi aspetti retriva – tradizione umanistica e classicistica aveva molto senso (malgrado le pesantezze e la rigidità deterministiche e mimetiche, già lamentate da D’Annunzio a proposito di certo verismo) temere istanze positivistiche avverse alla purezza e all’autonomia del fatto artistico.
L’estraneità di De Bosis alle estremizzazioni del culto della bellezza pura testimonia la sincerità della sua ispirazione. Tuttavia – secondo Croce – se parole come “giustizia”, “libertà”, “umanità” e “bellezza” non sono in lui né mendaci né astratte, e sono anzi riconducibili a un’autentica aspirazione al “bene”, resta pur sempre il fatto che questa aspirazione risulti indeterminata, non compiutamente espressa, un limite, questo, che finisce per marcare la sua poesia di «ridondanza, imprecisione, prolissità», fino a dare l’impressione di una aspirazione irrisolta, di un disegno irrealizzato. E lo stile De Bosis per Croce è riconoscibile proprio come tale, nella condizione espressiva di atto incompiuto, in questo risolversi in «un impeto che si perde nello spazio», e che vorrebbe essere «quasi un canto senza parole», un senso che si fa quasi immediatamente labile. Successivamente, Montale ne parlerà nei termini di «un poeta assai notevole, eppure non più letto». La lettura di Croce va comunque a sua volta contestualizzata con la sua avversione a ogni vero o presunto irrazionalismo, alla “fabbrica del vuoto”, al proverbiale “dilettantismo di sensazioni”, che contrassegnerebbero in senso lato, pregiudicandola, la sensibilità decadente.
Il «potere indistruttibile della Bellezza», la «necessità delle gerarchie intellettuali», si legge nella nota proemiale: affermazioni tanto antinaturalistiche e antipositivistiche quanto impopolari che accomunano il «Convito» al «Marzocco» in quanto al loro carattere estetizzante. La bellezza è puro paradigma estetico selettivo che si narcisizza e che tende a realizzarsi in elitaria applicazione etica in vista della elevazione sul «grigio diluvio democratico odierno», come auspicato da D’Annunzio attraverso lo Sperelli. La sede delle riunioni dei vari convitati – ricorda Ugo Ojetti – consisteva in «stanzette che in un mezzanino del palazzo Borghese, sulla discesa verso Ripetta, Adolfo De Bosis (…) aveva addobbate pel suo “Convito”». Esse «erano in puro stile dannunziano: odor d’incenso o di sandalo, luce mitigata da tende e cortine, sete e velluti alle pareti, cassepanche e tavole del rinascimento, divani profondi senza spalliere con venti cuscini, e in vecchie maioliche fiori dal lungo stelo, fasci di rami fioriti. Sopra una stanza che si diceva fosse stata addirittura il bagno di Paolina Borghese, voltava un soffitto affrescato ai primi del seicento. In un’altra, un’erma di Shelley (…) ci fissava cogli occhi chiari nel puro volto da adolescente».
Con De Bosis, Giulio Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis, Giuseppe Cellini, Nino Costa, Francesco Paolo Michetti (artisti di ispirazione simbolista, alcuni dei quali provenienti dal movimento In Arte Libertas), Pascoli, D’Annunzio, Angelo Conti mostrano una certa conformità temperamentale nel fatto di prendere le distanze dal realismo e di assumere – nei codici loro propri – le espressioni mitologiche per poi modernizzarle secondo un’ottica soggettiva. Se, ad esempio, De Carolis tenta di reimmergersi in un perduto paradiso di emozioni estetiche di cui più non si ha cognizione, nel tentativo di riprodurne la sensazione originaria che consenta di eludere, o di riconfigurare interiormente, il mondo reale con la sua durezza e il suo grigiore, il Pascoli dei Conviviali esegue l’operazione inversa trasferendo la coscienza decadente alle figure del mondo classico: è Pascoli, vale a dire l’uomo novecentesco, che dice attraverso Calypso: «Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!» nell’explicit di quello che forse è il capolavoro dei Conviviali, L’ultimo viaggio. Meglio il mai stato che l’essere, ovvero la mortalità ingenita all’esistenza; meglio il nulla dell’ingenerato che il «non esser più», cioè la cognizione del nulla (lo stesso dirà, a un dipresso, l’italianisant Valéry in Ébauche du Serpent: «L’être n’est qu’un défaut / dans la pureté du non-être»). Ad Adolfo De Bosis (che probabilmente avrebbe detto che il nulla è concepibile solo e soltanto in virtù dell’essere) Pascoli dedicò i Poemi Conviviali: come è noto, l’attributo “conviviale” non deriva dalla circostanza che i primi poemi pascoliani fossero usciti nelle pagine del «Convito», quanto dalla precisazione fatta da Pascoli stesso nel poema di apertura, Solon: «Triste il convito senza canto, come / tempio senza votivo oro di doni». In altre parole: la poesia risuonava nei convivii, dove, in un clima disteso e raffinato, di raccoglimento meditativo e insieme di cordialità conversevole, era possibile ascoltare la voce dell’aedo che reca in sé «l’eco dell’Ignoto».
A punto viene spontaneo domandarsi quanto, di ciò che è stato detto finora, non entri in contraddizione con i tratti melodrammatici del cerimoniale cui si attenevano gli adepti del «Convito». Se con convergente afflato usavano adempiere a una sorta di liturgia (e la connotazione liturgica è allusiva della persistenza di qualche senso proprio di una spiritualità remota da riattualizzare) esoterica entro una enclave spirituale, dove il maestro “simposiarca” imponeva, insieme al suo progetto di Bildung, un rituale non troppo coerente con le istanze della sua poesia: quasi in un rito di iniziazione, enfaticamente levandosi con la coppa colma verso gli intervenuti all’italico convito in cerchio solennemente disposti, ispirati e fiduciosi nell’avvento di una nuova era, inneggiando alla stirpe, alla purificazione operata dall’arte, a iperboree altezze da conseguire, in uno stato di totale straniamento dal mondo. Mentre – scriverà Luigi Valli – «di fuori giungeva un mormorio basso di plebi avventate con le loro piccole brame verso ogni gioia più misera o adagiate nel loro tedio, giungevano voci di piccoli uomini dall’Urbe contaminata di bruttezza materiale e morale, giungevano echi di poesia mediocre, ultimi languori romantici, fatui trionfi di poetastri dell’immondizia». E di fronte alle parole del “simposiarca”, intenzionate all’impensato e a un suo investimento extraestetico, i convitati si stordivano fino a più non udire quel «vocio delle plebi irridenti».
Resta questa perplessità, pur assumendo l’accezione “plebe” nel senso etimologico di pienezza, di totalità – che il riferimento all’«umana plebe» dell’Inno al Mare suggerisce – e assolutezza dell’umano nella dimensione della sua socialità. Di quella stessa pienezza e di quella stessa totalità di cui appunto il mare, cui De Bosis inneggia, è figura codificata, evolvendosi così in simbolo di esistenza inquieta e fraterna. Il valore della scrittura sta allora nella sua attitudine ad attenuare la distanza tra gli esseri. Neutralizzare l’accezione negativa di “plebe” – ove sia assunta nel senso meno corrente di emblema possibile delle infermità della borghesia dovute al suo coinvolgimento con una politica eticamente fatiscente – implica la prospettiva, se non la fede, dell’estrinsecarsi di energie spirituali unitamente a facoltà razionali e morali, doti demandate a una nuova prassi creativa, come si può desumere dalla prefazione ad Amori ac silentio, parole peraltro già pronunciate in una delle sedute dei convitati in Palazzo Borghese:

«Ben altra fiamma agitava la Poesia sul limitare della nostra giovinezza pensosa, quando la sua voce a noi parve non balbuzie di tenui cure, sì linguaggio grave e soave, altero e libero, da uomini a uomini, quasi una salutazione e un augurio.
E intendemmo come i degnati della sua grazia guardino innamoratamente alla Vita e alle sue apparenze eterne e mutevoli e abbiano pronti li spiriti a goderne le segrete armonie e a salire per gradi sino alla contemplazione del Bello che è in cima della disciplina platonica.
E più intendemmo che tanto è loro concesso significare quanto è passato prima traverso la fiamma del loro cuore, la virtù del loro intelletto, la molteplicità delle loro esperienze umane e divine.
Operare, soffrire, amare, combattere; esercitare le forze nel travaglio, nell’impeto, nella meditazione; misurare i grandi cieli purpurei o il riso de’ propri figli; essere aperto al remo, all’aratro, all’obbedienza, alla dominazione; (…); fiorire nel proprio sogno e crescere integro e generoso nella compagnia degli uguali; provare, conoscere, vivere pienamente, puramente, liberamente; tale è la scuola unica del Poeta, se il Poeta è fatto a insegnare al mondo “speranze e timori non conosciuti”».



                                                       Elisabetta Brizio