mercoledì 23 dicembre 2009

PATRIZIA GAROFALO, "MONOLOGO DELL'ANIMA"



Diceva Emily Dickinson che le parole non muoiono, come crede qualcuno, appena vengono pronunciate, ma semmai proprio allora cominciano a vivere. Eppure, la loro vita è morte, una “morta vita” e una “viva morte”, come dicevano i neoplatonici – la parola divisa per sempre dal corpo, dal respiro e dal sentire di chi la proferì, affidata alla carta o alla memoria o all'aria, separata dalla sua origine come l'anima dal corpo, e nondimeno volta, oltre ogni logica, a ritornarvi per oscure vie.

Parole all'apparenza vuote, diafane, incorporee, senza forme né sangue - “cavi nulla risonanti” diceva un poeta - maschere che hanno aderito ai volti fino ad assorbirli in sé, a fagocitarli, prima di travolgerli nel loro stesso estremo svanire e dissolversi. Eppure anche e proprio da questa distanza, da questa inappartenenza - da questo, direbbero i pensatori francesi, “déssaissement”, dalla voragine di questa lacerata “béance” - sorge, limpido filo di cristallo, il monologo dell'anima, la fragile e limpida monodia dello spirito orfano, il canto dell'”animula vagula blandula” dell'imperatore Adriano, cara agli esteti dell'Ottocento:

Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis
Qua nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos

Piccola dolce anima che vaga,
Ospite e compagna della carne -
In quali oscure terre migrerai
Pallida intirizzita ignuda
Privata ormai dei tuoi diletti giochi

Eppure, in questa prosa di Patrizia Garofalo l'anima sembra voler restare legata al suo "mortale incarco", alla sua dimora divenutale cara come una casa a lungo abitata. La parola letteraria opera, o surroga, il miracolo e il mistero della risurrezione della carne: oltre il testo, nell'eco che perdura dentro la mente del lettore, splende "la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara".

M. V.



per Meredith



Cammino sentendo l’anima vuota. La porto sulle spalle dentro un sacco di iuta, non pesa niente e nemmeno i ricordi hanno più il sapore dolciastro del sangue e della nostalgia.

Non mi chiedo chi mi abbia resa così orfana di tutto e non cerco neanche di rimandare al cuore la canzone della vita con cui ero partita. Sapevo che le favole muoiono fin da quando mettevo ad essiccare nelle pagine del mio diario i fiori che mi regalavano. Li ritrovavo belli, distesi, un po’ più pallidi, insomma erano morti per emorragia di reato compiuto dolosamente da parte di chi me li aveva confezionati per una ricorrenza e per la mia stupidità di pensare che si sarebbero meglio mantenuti.

Erano senza vita invece proprio nell’attimo in cui volevo avessero il nome di chi li aveva donati, avevano dato tutta la linfa che possedevano ed erano finiti dolorosamente estenuati da un’agonia non prevista.
Perché nessuno aveva previsto quella morte, ma adesso ricordo bene come ogni volta che li rivedevo immaginavo un cimitero di farfalle.
Appoggio sul muretto la sacca vuota e anche questo pensiero scompare. Mi piacciono da sempre
le mura screpolate dei vicoli vecchi di anni, pensieri, impronte e bisbigli. Le parole tornano, innamorate e segrete, complici e impaurite, sbigottite e censurate. Le mie mani bianche avvertono nelle rughe della pietra le stagioni dell’amore e dell’odio, non le percepisco come sentimenti ma ombre di una vita che non mi appartiene più e che sto restituendo piano piano all’indifferenza, forse la vera responsabile dell’orrida vuotezza dell’anima mia sdraiata nella sacca e dimentica del pur minimo accenno di presenza.
Il corpo invece lo sento, tutto proprio tutto, nessuno lo vede ma è come se lo avessi ingoiato e mi stesse scoppiando dentro. Riesco solo a carezzare i capelli e prendermi la testa, la stringo e l’abbraccio, la riabbraccio come per una ninna nanna ma sente troppo dolore, la cura delle parole non arriva, sento che esse graffiano i muri di una casa di pietra dove ho deposto l’anima e faticano a raggiungermi. Quando arrivano sono esauste, macchiate, inzuppate d’acqua e di sangue.
Scompaiono ogni volta che tentano di parlare, si esauriscono in dolenti suoni come di chitarre scordate, sono abusate, stuprate, violentate e hanno occhi enormi, le parole … tanti occhi e senza accorgermene stringo più forte la mia testa perché non le veda e sciolgo i capelli in modo che coprano il viso. Mi sento più leggera ora e vedo la sacca dell’anima piangere, il corpo mi fa meno male. Infilo le lacrime a guisa di collana e ne faccio una corda più resistente per sollevarmi e riprendere il fagotto del mio corpo che grava come quando un dolore insiste sul petto, anzi più in alto come se mi soffocasse o tagliasse la gola. E mi appare ancora il camposanto di fiori e farfalle dove anch’io riposo.

Patrizia Garofalo

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