cosa può essere – voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai
Vittorio Sereni, Intervista a un suicida
In
Dove sei? Ontologia del telefonino
(2005) Maurizio Ferraris si appropria di uno dei nostri oggetti più
personali e ne definisce lo statuto ontologico nel segnare il
passaggio dalla società della comunicazione a quella della
registrazione: ci accorgiamo infatti di esser di fronte a una
macchina per scrivere, a un potente strumento per registrare e per
archiviare piuttosto che per comunicare, e come tale in grado di
contenere una vasta quantità di iscrizioni che appartengono
all’universo invisibile, e all’apparenza immateriale, della
realtà sociale. Incorporeo o evanescente soltanto all’apparenza
perché matrimoni, divorzi, lauree o anni di galera (gli esempi sono
di Ferraris) possono condizionare intere esistenze. La registrazione
insomma genera degli effetti tangibili. Nella scansione delle
argomentazioni Ferraris restituisce all’ontologia lo status che le
compete traendola dalla dispersione postmoderna caratterizzata dalla
tendenza a generalizzare i casi particolari e dall’indifferenza
verso la nozione di verità per un soggettivismo indeterminato.
Lavorare a una ontologia dell’attualità e misurarsi con le
trasformazioni cui assistiamo, nel tentativo di recuperare anche da
questo lato il legame con la realtà empirica, potrebbe apparire –
Ferraris scriverà poi in Sans papier
(2007) – forse monotono, ma è filosoficamente rilevante, dal
momento che l’argomento riguarda il nostro Dasein.
Sull’ontologia
sociale in particolare Ferraris si sofferma nella seconda parte di
Dove sei?, dove
analiticamente espone sia gli argomenti ammissibili che i limiti del
realismo (che postula l’esistenza degli oggetti a prescindere dai
soggetti) e del testualismo (che afferma l’esistenza degli oggetti
come costruzioni del soggetto) e propone l’iscrizione che sancisce
il valore sociale dell’atto (Ferraris definisce l’oggetto sociale
un «atto iscritto») solo nella misura in cui sia idiomatica,
individualizzante, tale cioè da conferire all’atto uno statuto
documentale. La società è imprescindibilmente connessa alla
registrazione senza la quale non solo una qualsivoglia dimensione
sociale, ma anche lo stesso pensiero non potrebbe aver luogo.
L’iscrizione idiomatica costituisce dunque il nesso fondante
dell’ontologia sociale, altrimenti di noi non permarrebbe che
«nulla nessuno in nessun luogo mai», dice Ferraris con un verso di
Vittorio Sereni che figurava in Sans papier
ad esemplificare sinteticamente la necessità
della traccia, segno scritto che garantisce la nostra memoria.
Lavoro, Sans papier,
in cui diffusamente si argomenta sull’universo di Internet, sulla
globalizzazione, sul confine tra pubblico e privato, sulla
correlazione paradossale tra il regredire del materiale cartaceo
(malgrado l’eccesso di carta che quotidianamente esce dalle nostre
stampanti) e il debordare della scrittura, sulla archiviazione e
sull’iscrizione idiomatica che fonda la realtà sociale: il mondo
sociale può dipendere dalle deliberazioni dei soggetti senza per
questo risolversi in costruzione soggettiva, perché è in virtù
della registrazione che gli oggetti sociali acquisiscono l’attitudine
a istituirsi
La
critica a quel postmoderno che aveva perso la distinzione tra essere
e sapere era passata attraverso le pagine di Goodbye
Kant (2004), del più disinvolto Babbo
Natale, Gesù Adulto
(2006) e di quelle commosse in memoria di Jacques Derrida (2006),
dove Ferraris ripensa alla sua emancipazione dal maestro, e in
particolare dall’assunto derridiano secondo cui «nulla esiste al
di fuori del testo», il quale, se aveva individuato la centralità
della traccia, aveva tuttavia assimilato gli oggetti ideali agli
oggetti sociali, confondendo – Ferraris scriveva in Dove sei? –
«il sapere con la sua socializzazione». E la filosofia della
scrittura, nella lettura alternativa di Ferraris della formula
derridiana, resta comunque un punto di riferimento costante: «nulla
di sociale esiste al
di fuori del testo», in quanto sia gli oggetti fisici che quelli
ideali hanno esistenza propria. Un moto revisionista che riannoda il
filo di un discorso interrotto e che pone i presupposti per la
costruzione della realtà sociale. Dalla scrittura, dal testo, dalla
traccia inizia l’iter verso l’oggetto sociale, il quale, a
differenza degli oggetti fisici non esiste a prescindere dai soggetti
ma in quanto i soggetti pensano che esistano, non è relativo solo
per il fatto di dipendere dal soggetto, né dipende solo dalla nostra
volontà. E alla registrazione, che sottende una vita sociale che
rammenta, cataloga e archivia.
La
preistoria di questa «svolta» è tracciabile in alcuni lavori
precedenti, quali Estetica
razionale (1997), una
revisione dell’estetica che culminerà in La
Fidanzata Automatica (Bompiani 2007), dove si
espone una teoria normalista dell’arte, né eccezionalista né
straordinarista dunque, che definisce l’opera un oggetto sociale
dotato di iscrizione idiomatica, a dispetto della sua forte vocazione
– se assunta dalla prospettiva dell’utente – a fingersi
soggetto. Ma in particolare nel Mondo esterno
(2001), dove, in una sorta di contromovimento rispetto al
trascendentalismo, Ferraris inclinava verso il riconoscimento
dell’evidenza e dell’autonomia, e di conseguenza della
«inemendabilità», di un mondo «incontrato», che esiste, resiste
e segue regole proprie indipendentemente da noi e dalle nostre
interpretazioni di esso, che non si risolve nel linguaggio, e del
quale il più delle volte abbiamo una conoscenza unicamente empirica
cui poco servirebbe associare strutture a priori o schemi concettuali
che conferiscano rilievo costitutivo.
Gli
oggetti verranno catalogati con frequenti riferimenti ai soggetti,
alla vita e alla quotidianità nel Tunnel
delle multe (2008), e nel più recente
Piangere e ridere
davvero (2009) due non
sempre incompatibili reazioni soggettive ai nostri stati affettivi
sono sottoposte a una implacabile verifica che ci induce a ridefinire
ciò che ritenevamo incontestabile. Ancora, dunque, contro ogni
presunzione di oggettività, anche il feuilleton
filosofico costituisce un invito a non acconsentire ad ovvietà e a
riconoscere la dicotomia tra l’essere e il credere infondato. Ma
soprattutto il rimando alla vita, alla sfera emotiva, caratterizza un
pensiero che è tutt’altro che una ossessione oggettivistica.
Ma è
nel suo ultimo libro – Documentalità.
Perché è necessario lasciar tracce (Laterza
2009) – che Ferraris espone sistematicamente i risultati della sua
ricerca di questi ultimi anni, integrandola e avanzandola,
inoltrandosi ulteriormente nell’ontologia del documento, termine
ultimo della teoria degli oggetti sociali. Gianni Vattimo, in una
recensione al volume apparsa il 29 novembre scorso su «La Stampa»
si chiede, invertendo i termini del sottotitolo e trasformandolo in
domanda, se «è davvero necessario lasciar tracce, e perché?».
Appare necessario – almeno al lettore ingenuo come me – in atti
che inverano una vita sociale che altrimenti non avrebbe né luogo né
memoria, e l’atto di «lasciar tracce» è inoltre inevitabile
nelle più correnti circostanze della vita ordinaria. Gli oggetti
sociali sono l’esito di atti sociali, e senza iscrizione – vale a
dire senza certificazione, la base ontologica della teoria degli
oggetti sociali – verrebbe meno la validità istituzionale
dell’atto.
La
cosiddetta conversione di Ferraris a una – come egli stesso la
definisce – «metafisica descrittiva di impianto realistico»,
secondo Vattimo, condurrebbe a una antecedenza, a un ritorno «a
prima di ogni modernità», ma non se ne avverte la tonalità arcaica
o arcaicizzante cui si allude – il catalogo del mondo, per Vattimo,
non sarebbe troppo dissimile dalle raccolte museali. Vi si potrebbe
invece percepire un altro genere di antecedenza, quell’Husserl che
nei «Prolegomeni» alle Ricerche logiche
sosteneva che «il ritorno alle questioni di principio resta un
compito che deve essere sempre di nuovo intrapreso». Le «arguzie»
e le «amenità» rilevate da Vattimo in alcuni lavori di Ferraris,
se appaiono funzionali a un alleggerimento della dissertazione,
talora sono esplicativi, come nel caso (forse in Dove
sei?) dell’episodio dell’Agnese dei
Promessi Sposi,
addotto a esemplificare la validità della registrazione dell’atto
che non necessariamente avviene per iscritto. Oppure, nell’esempio
della nota espressione nietzschiana «non esistono fatti, ma solo
interpretazioni» trasferita in un’aula di tribunale, tanto per
testare, e far reagire con la realtà, assunti non concepibili fuor
di metafora. Sia gli aneddoti tratti dalla vita che i riferimenti
alle opere letterarie concorrono allora ad abbassare il tono, per
così dire, accademico, in un procedere analitico che comunque
rigorosamente argomenta: la scrittura filosofica viene insomma
deprivata di quell’aurea freddezza tipica di certe filosofie,
mentre avvertiamo uno spessore e una intensità che traducono la
partecipazione dell’autore. Come nei rimandi alla Recherche.
Tra parentesi: parecchi anni fa ebbi la possibilità di seguire un
seminario tenuto dal Prof. Ferraris sull’estetica proustiana: senza
enfasi alcuna egli riuscì a trasfonderci una sconfinata passione per
Proust tenendo sempre ben presenti le implicazioni che quest’opera
può contemplare. Non ce lo disse allora che già quindicenne aveva
letto tutta la Recherche,
ma l’apprenderlo dalle pagine di Sans papier
o da quelle di Documentalità
non avrà affatto stupiti, né meravigliati, i lettori che come me lo
ascoltarono.
Dopo
l’annoso lavoro filosofico di Ferraris (che, come scrive in una
anticipazione del libro sul «Secolo XIX», è volto a «riconsiderare
tutto ciò che tradizionalmente si è pensato sotto la categoria
dello spirito concependolo come una modificazione della lettera», a
dimostrare che «Geist è .doc») e il suo approdo a conclusioni
inevitabilmente provvisorie (visto che ha il merito di confrontarsi
con l’attualità, quindi con un oggetto trascorrente), in quale
senso nella sua prospettiva sarebbe assente il «salto in una critica
di quel che c’è»? Perché questa perplessità, se il realismo si
caratterizza come dottrina critica?
La
filosofia insegna a dubitare, spessissimo incanta e affabula, talora
illude anziché dare, ove ciò sia possibile, risposte plausibili in
merito alla vita e all’esperienza. E non ci illude Ferraris: se gli
oggetti sociali, affidati come sono alla memoria della registrazione
che in larga parte avviene su supporti magnetici e digitali,
attraverseranno il futuro, almeno quello immediato, la
documentalizzazione della vita dovrebbe possedere tutte le
caratteristiche per consegnarci all’eternità, benché si tratti di
una eternità relativa, come Foscolo scrisse nell’explicit
dei Sepolcri («E
finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane»), legata alla
configurazione di transitorietà che la locuzione congiuntiva
introduce ed evoca: finché, dice Ferraris, nuove innovazioni non
renderanno illeggibili i supporti attuali.
Articolo, com'è evidente, sottile e profondo, che tocca con sintesi, chiarezza, precisione e sottigliezza alcune questioni estremamente complesse. Qualche timida precisazione, tuttavia.
RispondiEliminaE-mail e "messaggini" non mi paiono assimilabili ad iscrizioni ed archivi; non sono legati ad alcuna eternità, nemmeno "relativa"; sono, di per sé, e consapevolmente, votati a restare legati all'effimero, e a svanire immediatamente, o quasi.
Dei carteggi degli scrittori contemporanei non resterà, purtroppo per i posteri, nulla (e almeno si eviteranno, d'altro canto, tante pubblicazioni indiscrete ed inutili, tanta vuota filologia, tanta "titolografia" accademica, alle quali i carteggi offrono pretesto).
Il web, al contrario, durerà potenzialmente in eterno, magari metamorfosandosi (anche se è vero che un sito chiuso od oscurato svanisce per sempre, mentre di un libro dimenticato, salvo casi estremi, resta almeno una copia in qualche sperduta biblioteca, o nelle librerie antiquarie).
Per converso, ogni eternità è, in certo modo, relativa: gli archivi delle epoche più remote possono essere andati del tutto perduti, o venir riscoperti per caso (Nag Hammadi, Qumran) o con memorabili campagne di scavo (gli archivi di Ebla); anche lingue e scritture già scoperte possono risultare incomprensibili, o difficili da comprendere e da decifrare (l'etrusco, il messapico, il Dacico, il rongorongo, i geroglifici Maya, i quali ultimi, che richiederanno ancora decenni di studi, riveleranno, infine, una letteratura e una civiltà straordinarie, sopravvissute, nonostante tutto, alla falce della conquista).
In effetti, sugli archivi digitali non immessi in rete grava il rischio del dileguo, dell'evanescenza, della scomparsa: i supporti magnetici sono sempre precari, possono cancellarsi o non essere più leggibili (anche se esistono filtri di conversione da formati vecchi a formati nuovi, del tutto paragonabili al vocabolario di una lingua morta, o alla stele di Rosetta che consentì di comprendere una lingua ignota a partire da una nota - mentre le lamine di Pyrgi, etrusco-fenicie, non sono state di eguale aiuto perché riguardavano due lingue entrambe conosciute, ma l'una e l'altra in modo imperfetto).
E il telefonino mi sembra, in definitiva, solo uno strumento di comunicazione, a volte utile, a volte stupido, superfluo e fastidioso. E difficilmente qualcuno affiderebbe un capolavoro letterario (o anche un inventario o dei libri contabili, come quelli dei Sumeri e dei Micenei) ad una chat o ad un sms.
Ecco, semmai gli archivi elettronici di una banca sono simili alle tavolette cuneiformi o in lineare B: e non a caso vengono affidati a supporti materiali, diligentemente custoditi con tanto di sorveglianza armata e porte blindate. Insomma sono cambiati la forma, lo strumento, non tanto la natura, lo spirito e la finalità dei messaggi.
Gli inventari sumeri e micenei, poi, sono stati decifrati proprio perché menzionavano oggetti e cifre, insomma cose tangibili. Il Disco di Festo, i geroglifici Maya e la Mummia di Zagabria, invece, serbano gelosamente, in tutto o in parte, il proprio arduo mistero perché hanno a che fare, al contrario, con il sacro, l'immateriale, il rito, la trascendenza.
Viceversa, la freddezza, la convenzionalità e l'assoluta trasparenza delle odierne scritture digitali d'uso quotidiano e strumentale sono sintomi - fra i tanti - dell'eclissi del sacro.
Alla quale rischia di contribuire, e volutamente, anche l'ontologia immanentistica, concreta, pragmatica, quasi neoempiristica, di Ferraris.
Oltre l'oggetto, la traccia, la cifra immanente, si intravedono o si intuiscono un oltre, un'apertura e un senso ulteriori. "Tutte le immagini portano scritto: / 'più in là'".
E' ciò che questa filosofia rischia di dimenticare, facendosi così schiava dell'oggi, serva della contemporaneità e dell'effimero.