sabato 16 febbraio 2013

METAMORFOSI E STRANIAMENTO. PICCOLO POEMA CRITICO PER GAIA CARBONI (IMOLA, GALLERIA "IL POMO DA DAMO", 8 FEBBRAIO - 9 MARZO 2013)




 



Non si può dire, invero, che questo sia, per l'arte contemporanea (spesso divisa ed irrisolta fra l'elitarismo autoreferenziale di un intellettualismo inesplicabile e il volgare, culturalmente vuoto mercantilismo del grande mercimonio altoborghese), un momento facile o favorevole.
Ma, ancora una volta, proprio dalla provincia, dalle realtà in apparenza defilate e silenziose (e nella fattispecie, peraltro, in una città come Imola, ove la cultura gode ancora di appoggi istituzionali e di contesti ufficiali e consolidati, sebbene spesso piegati, come ovunque del resto, alle esigenze esteriori e rituali della mondanità, della rappresentanza, della politica), possono sorgere, quasi in segreto, quasi dal nulla, oasi di libertà creativa, di ricerca e di sperimentazione non gratuitamente provocatorie, ma intrise di viva e meditata consapevolezza.
È questo il caso di Gaia Carboni, giovane ma già internazionalmente riconosciuta artista ravennate (Un'anatomia dell'inconcepibile, Il Pomo Da Damo, Via XX Settembre 27, Imola, 8 febbraio-9 marzo 2013, www.ilpomodadamo.it).
Viene in mente, d'istinto, di fronte alle sue figurazioni inquietanti, sorprendenti, a volte così intense da arrecare all'osservatore un dolore e un disagio quasi fisici, da togliere il fiato (ma resi più profondi e significativi, e insieme filtrati, grazie alla consapevolezza percettiva ed intellettuale assiduamente sollecitata dall'atto stesso della visione), un passo dei Canti di Maldoror di Lautréamont, il grande precursore del Surrealismo, il geniale ed allucinato interprete della “letteratura della crudeltà”: quello in cui egli parla di uno spettacolo «bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci; o ancora, come l'incertezza dei movimenti muscolari nelle pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore; e, soprattutto, come l'incontro fortuito, su un tavolo di dissezione, di una macchina da cucire e di un ombrello». È quella che André Breton chiamerà «bellezza compulsiva»: la quale nasce dall'accostamento imprevedibile di forme disparate, e, soprattutto, dall'inquietante ravvicinamento, dall'obliqua e “perturbante” (in senso freudiano) contaminazione dell'organico e dell'inorganico, dell'umano e dell'inumano.
Eppure, nelle figurazioni della Carboni, nulla v'è di casuale, di totalmente arbitrario, di gratuitamente forzato. Gli accostamenti più stupefacenti sono garantiti e resi coesi da una sorta di improbabile, sempre reinventata coerenza formale, da un globale equilibrio strutturale fra le parti, che rende finanche le connessioni più ardue quasi necessarie, nel cerchio magico dello spazio e dello sguardo, sottratto ad ogni esteriore ed estranea legge logica o naturale.
Così (come in certi Capricci di Goya, o nei celebri Occhi di Odilon Redon, o in certi abrupti accostamenti, da chambre magique, di Magritte o di De Chirico o ancora, più vicino a noi nel tempo e nello spazio, come nelle increspature e nelle ramificazioni materiche, nei vorticosi e convulsi gorghi d'energia di Andrea Raccagni) il piano umano (nel suo livello organico più crudo, anatomico, preciso, leonardesco o aldrovandiano: alveoli, arterie, ventricoli, aorte, fasci muscolari, mucose), quello meccanico, industriale o artigianale, da homo faber (la gelida e geometrica esattezza degli utensili metallici) e quello vegetale (rami germogli radici, aggetti e virgulti affondati nel profondo o stagliati verso un'altezza indefinita) si fondono, si intrecciano, si rincorrono, divengono quasi indistinguibili, reciprocamente implicati e necessari, quasi alla maniera di un nastro di Möbius, o di un'illusione di Escher.
E, nella spazialità della scultura, l'indistinto materico ed informale delle masse indecifrate si associa e si giustappone alla precisione squadrata, geometrica delle linee, degli spigoli, degli angoli. È sempre lo spazio (bidimensionale o tridimensionale, scultoreo o pittorico, reale o illusivo) a conciliare ciò che è apparentemente inconciliabile, e si rivela in realtà compresente e fuso nella totalità materica dell'esistente, organico-inorganico, vivente-non-vivente: fino a mettere quasi in discussione e in forse queste stesse rassicuranti distinzioni, fin quasi a prospettare una alienazione e uno straniamento della coscienza nell'atto della percezione ma, del pari, un ritorno e un richiamo della conoscenza e della coscienza, rafforzate, a se stesse, come sempre dopo l'esperienza artistica del sublime o dell'orrido nelle loro forme più icastiche e devastanti.
Ma ciò che l'artista riesce straordinariamente a fissare nella forma e nella rappresentazione è l'istante della metamorfosi: un divenire fatto presente, un mutare còlto e fissato per sempre nell'attimo della figurazione. Come nelle rappresentazioni barocche di Apollo e Dafne. O come nella magia della parola poetica, ferma pur nel trascorrere, eterna nel tempo: «Come procede innanzi dall'ardore / Per lo papiro suso un color bruno, / Che non è nero ancora, e 'l bianco muore» continuità nel mutamento, prossimità dell'umano al vegetale, del vivente alla scoria, dell'esistenza al suo dissolversi in aeternum.


                                                                   Matteo Veronesi

venerdì 15 febbraio 2013

CLASSICITÀ E AUTOCOSCIENZA IN GIANCARLO PONTIGGIA, FRA TRADUZIONE E POESIA



Giancarlo Pontiggia (nato nel 1952; Con parole remote, 1998; Bosco del tempo, 2005; traduttore, fra gli altri, di Mallarmé e Valéry, prototipi di quella simbiosi di creazione poetica e riflessione critica di cui egli stesso è partecipe; legato alla rivista Niebo, e curatore della celebre antologia La parola innamorata, del 1978, che reagiva alle programmate e spesso impersonali devastazioni dello sperimentalismo con un ritorno al lirismo, al canto, all'evocazione, alla luce del mondo, alla «verità del canto che è dono», alla parola «innamorata, colorata, rapinosa») è, senza dubbio (al di là dei punti di contatto che può presentare da un lato con la poesia neo-orfica, dall'altro con il Mitomodernismo), il più classico dei poeti contemporanei, nel senso in cui Valéry, riferendosi a Baudelaire (d'altro canto «poeta della modernità» per antonomasia), definiva classico il poeta che contiene in sé un critico e lo fa collaborare alla stesura, anzi all'architettonica costruzione, delle proprie opere; ma classico Pontiggia è anche nel senso eliotiano, in quello, cioè, di un autore in cui la tradizione letteraria pare aver raggiunto un grado particolarmente alto di «maturità», di compiutezza, di pienezza, di autocoscienza, e insieme, in certo modo, di appassionato distacco, di tenera ed amorosa lontananza, di velata e serale rievocazione, come se tutto fosse già, e forse fin dal principio, serenamente detto, composto, compiuto «chaque atome de silence / est la chance d'un fruit mûr», per citare il suo Valéry, il lungo silenzio, mormorante come d'api operose, della meditazione, della rievocazione, del ripensamento prelude ad una creazione non estemporanea, non effimera, episodica, franta, ma tale, al contrario, da rendere eterno, perenne, quasi fatale e predestinato, anche il kairós, anche l'istante «rapinoso» della conoscenza e della rivelazione.
Così si spiegano i lunghi «silenzi creativi», come li chiamava Sereni, fra una raccolta e l'altra, che inframmezzano e scandiscono il discorso dell'autore; e il «lavoro di tessitura lenta, paziente, nella quale si alleano un'umile dedizione da artigiano e una forza misteriosa, quasi ipnotica», come ha dichiarato in un'intervista ‒ ancora la fusione, insomma, di ispirazione, necessità, destino, vocazione alla forma, e disegno razionale, coscienza strutturale attraverso cui quell'anelito diviene parola, quella concezione espressione, quella pura virtualità canto spiegato.
Come sempre, il laboratorio del traduttore (nel quale si fondono interpretazione e creazione, esegesi e riscrittura) costituisce un osservatorio privilegiato. Consideriamo, ad esempio, le versioni da Valéry (due poeti-critici, e critici-poeti, che si specchiano vicendevolmente, e intessono un contrappunto finissimo e prezioso).
«Nos antiques jeunesses, / chair morte et belles ombres, / Sont fières des finesses / qui naissent par les nombres». «Antiche giovinezze, / Carne opaca e belle ombre, / Fiere delle finezze / Che nascono dai numeri!». L'ellissi, nella versione, del possessivo e del verbo assolutizza i sostantivi, scolpisce in quel marmo terso ed ombroso, limpido e chiaroscurale come d'intercolumnî e di arcate la purezza di una condizione ontologica, di un'ipostatizzazione concettuale che sono, poi, quelle proprie, in universale, della forma, della bellezza, dell'armonia, dell'esteticità. «Temple du Temps, qu'un seule soupir résume, / À ce point pur je monte et m'accoutume, / Tout entouré de mon regard marin»: «Tempio del Tempo, in un solo sospiro, / A questo punto puro io salgo e mi conformo, / Cinto dal mio sguardo marino»: espressioni, rispetto all'originale, ulteriormente essenziali, dense, concentrate, raccolte sull'aseità del soggetto poetico ripiegato su se stesso eppure cinto, circonlocuto dalla natura e dal paesaggio. La parola poetica stessa è Tempo-Tempio, scansione, divisione, o sacrale e sacerdotale separatezza e chiusura, di uno spazio-tempo consacrato.
Con parole remote e Bosco del tempo, titoli emblematici: la lontananza, le radici, gli echi archetipici delle parole dell'antico ‒ e, dall'altro lato, il bosco, la natura, hyle physis arché ‒ bosco sacro, dimora del divino, principio primo, senza principio, «verbo non pronunciante ancora e impronunciato», per citare Montale traduttore di Eliot: un fondamento, un a priori essenziale che, però, si dispiega nel tempo, diviene parola riconoscibile, storicizzabile, densa di vissuto culturale, di matrici e di echi ‒ un fato che diviene volontà, un'essenza che si fa storia, come nel mito-mistero del Logos fatto Carne.
Come in Piersanti, nella Natura e nella Parola l'istante si fa eterno ‒ trova, in qualche modo, il suo stampo, il suo archetipo, la sua ombra luminosa e traslucida, la sua rovesciata figura destinale.
Come scrive l'autore in Contro il romanticismo, uno dei testi di poetica più lucidi degli ultimi decenni, la terra è cielo, la storia è natura, e il silenzio condizione dello scrivere, e il vuoto è spazio della consistenza dei corpi: apparenti antinomie si fondono, si conciliano, senza venire per questo eluse, anestetizzate, azzerate, nella continuità di una coscienza culturale che salvaguarda, nel mutamento, nel moto vitale, la persistenza e l'esemplarità degli archetipi.
Le metafore valgono e vivono finché sono inscritte in una «visione essenziale», in un ordine in qualche modo necessario, perché naturale, sebbene ricostituito e riepilogato attraverso l'arte della parola, nella temporalità diveniente del discorso, del dettato: in caso contrario, le metafore stesse sono strumento del caos, della devastazione, dell'innovazione e della frattura ad ogni costo, indiscriminate e cieche ‒ insomma dei tanti deteriori ed iconoclastici romanticismi.
Ogni classicismo, è stato detto, suppone un romanticismo precedente. La ricomposizione delle parole nel grembo degli archetipi, nel seno della Natura e delle Madri, è superamento dell'arbitrio nevrotico, devastante e inumano di un'avanguardia disumanizzata e alienata. «Che cos'è il ritmo degli archi se non misura? Qualcosa di remoto si effonde. Un fuoco platonico si alimenta». In Sant'Ambrogio a Milano, come nelle colonne di Valéry, il tempo, scandito dalle ariose e ferme euritmie delle arcate, dei portici, dei pieni e dei vuoti, si fa eterno, diviene imago aeternitatis.
Tempo come archilocheo rhysmós, come Arché, Principio che presiede e prelude ad ogni divenire ‒ come il tempo superiore, assoluto, più alto e puro, che il Bo di Letteratura come vita contrapponeva al «tempo minore», sfibrato e franto e disunito, dell'umano accadere ‒ o come la storicità che Jaspers giustapponeva alla storia.
Non è casuale che Pontiggia, nel volume saggistico Selve letterarie, affermi che gran parte della sua poesia deriva da Sallusrtio, del quale ha tradotto e curato, per Mondadori, il De coniuratione Catilinae. Non si tratta di cercare “fonti”, “ipotesti”, “corrispondenze estese e isomorfe”; ma, semmai, di ripercorrere un rapporto che investe più lo spirito che la lettera, più i nuclei profondi che le superficiali consonanze testuali. Da Sallustio, Pontiggia mutua soprattutto la contrapposizione, la dialettica, di stampo platonico, fra tempo ed eternità, fra corpo e anima, fra terra e cielo ‒ due versanti che, peraltro, nella visione di Pontiggia spesso si intersecano e si contaminano. «Da una parte i rostri assolati del foro, ... dall'altra le sale ombrose dove si celebrano riti minuziosi e segreti». «Vertigine metafisica, solenne lento sguardo dall'alto». «Venti oscuri». «Un territorio più segreto, di cui sentiamo la potenza ma che non possiamo descrivere». Uno stile che fa «di ogni pensiero un'immagine, di ogni enunciato un'apparizione». Questi gli elementi che Pontiggia enfatizza in Sallustio; ed è evidente che egli li trova specchiati nella propria stessa Musa, incline al chiaroscuro, sospesa fra luce ed ombra ed portata a sovvertirle, fluente e spirante fra il tempo e l'eterno.
Nella sua versione, esatta, preziosa, risonante, «cetera animalia» sono «gli esseri del mondo», enti gettati nel flusso dell'esistenza, «animi virtus» è la «potenza dello spirito» (forza, ma insieme potenzialità indefinita del pensiero, della creazione, dell'azione), «trepidare» è «un incessante ondeggiare», mossi e sospinti dal corso esistenziale degli eventi.
Più pertinente ancóra parrebbe, quasi, un richiamo al Bellum Iugurthinum, tutto intriso della luce, dell'arsura, del sole, degli indefiniti spazi propri dell'Africa ‒ e proprio le «onde / che battono pensose sulle rosse / sponde d'Africa» sono evocate, radiosi e tremuli lidi «a una spanna dal nulla», nei versi di Con parole remote. «Animus pollens potensque et clarus», spirito rampollante, forte, luminoso, «animus incorruptus, aeternus», platonicamente contrapposto al discontinuo e franto fluire degli eventi terreni; e il fuoco interiore dell'anima destato e alimentato dal ricordo, dalla «memoria rerum gestarum»: questa è anche la forza della poesia, che pure vive nel mondo, che pure nasce in qualche modo dal vissuto, eppure lo media, lo scherma, lo filtra con un velo lucido d'eterno.
Altro autore amato da Pontiggia, e rievocato nei suoi versi per la verde pace, per il fresco silenzio che le sue pagine effondono, è Plinio il Giovane ‒ di cui andrebbe citato almeno il passo (Epistulae, I, 9) ove è lodato il silenzio in cui, lontani dai rumores della molesta umanità, è dato «cum libellis loqui», e tratteggiata la natura ‒ autentico mouseion, sacra dimora delle Muse ‒ che «invenit» e «dictat», come retore genuino ed infallibile, parole armoniose e copiose ‒ o il tenero ritratto di Marziale (III, 21), l'uomo e l'amico che scrisse versi forse non immortali, forse non destinati a vincere il tempo, eppure scritti «tamquam essent futuri», già protesi in un tempo oltre il tempo, in un accarezzato vestibolo dell'eternità.
Fatte queste premesse, messi a fuoco questi novantiqui, classico-moderni referenti culturali, l'essenza della poesia di Pontiggia ‒ essenza a prima vista così evasiva, sinuosa, sfuggente, impalpabile quasi ‒ affiorerà e si mostrerà in tutta la sua luce.
Versi fluenti, equilibrati, euritmici, bilanciati fra il pieno e il vuoto, fra la luce e l'ombra, nella visione come nel suono («Invoco il silenzio fedele, taccio / ogni nome, e il vostro, pensieri, / suono potente e segreto; depongo / su un'ara remota / una parola che non compare»: dall'armonia delle liquide al rintocco delle dentali, dal soffio delle sibilanti al cerchio radioso delle rotanti; come il suo Sallustio, da «prima vigilia silentio egredi» a «ita tacente ipso occulti pectoris patefecisse», dalla fuga lieve nel buio al segreto tormentoso che tumultua nel fondo del cuore).
«Nella sua ara chiara, / in un rogo devoto»: dalla luce aperta del nitore (Cavalcanti: «che fa tremar di chiaritate l'âre») al cupo suono del cerchio che si chiude, della fiamma che si consuma e, piano, si estingue.
La parola conduce dall'informe alla forma, dall'insensato al senso: come gli esseri che, in Esiodo e in Ovidio, affiorano, cosmogonicamente, da una massa primigenia in cui sono racchiuse e confuse tutte le forme possibili. «Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto» (Ungaretti: «E tutto è rapito in quel momento»). «Nulla / che risuonasse in cielo». La parola si affaccia «su di un buio più remoto / del tempo che ci ospita».
L'alchimia della memoria può plasmare «un tempo semplice, inviolato» ‒ ma anche ridestare, più cupo ed inquietante, «un tempo / straniero». Il passato, rievocato, è «luce fiammea, fissa» ‒ «l'alta, la cupa fiamma» di Luzi, ma anche, scorporato, destoricizzato, il fuoco della memoria sallustiana, o la «fiamma gemmea» della passione estetica in Walter Pater.
Come nel Virgilio georgico, il tempo anela alla quiete dolce dolce e composta del miele e delle arnie. E il tempo è bosco sacro in cui la parola aspira a sprofondare e perdersi, per sempre riconciliata con la Storia che è Destino, con la Natura che è Forma e Principio.


Matteo Veronesi



 

domenica 30 dicembre 2012

CARLO FORLIVESI - LETTERINA PER IL SANTO NATALE



Pubblico una lettera – finalmente non convenzionale e non dolciastra, ma sostanziale – di Carlo Forlivesi apparsa sul settimanale imolese “Il Nuovo Diario Messaggero”, la quale, al di là dell'occasione e della circostanza, tocca un problema fondamentale, inserendolo in un quadro più ampio.
Molti giovani pianisti, ed esecutori in genere, possiedono certo una tecnica eccellente. Forse il livello delle esecuzioni e delle registrazioni, sul piano della tecnica esecutiva come della qualità dell'incisione, non è mai stato (a parte Glenn Gould, e pochi altri) così elevato come oggi.
Ma è giusto trasformare la musica in uno sport, in cui il solo fine è vincere concorsi, più che riflettere sulla musica nelle sue implicazioni culturali, spirituali, filosofiche, storiche, non solo tecniche ed esecutive?
Il culto della performance, del virtuosismo, del massimo numero di note nell'unità di tempo, dettato anche dalle logiche della società dello spettacolo, non trasforma l'esecuzione musicale in una forma di altissimo, molto professionale artigianato, che, per quanto mirabile, non è ancora arte?
Pretendere di imporre, nell'insegnamento, nel conservatorio, nei concorsi, come esatta ed accettabile un'unica prassi esecutiva, a scapito di tutte le altre possibili, passate presenti e future, non rischia di rendere la musica tutta uguale?
Oggi (per limitarsi al pianoforte) ci sono tanti pianisti tecnicamente validi; ma, che io sappia, non c'è un Glenn Gould, un Cortot, una Tureck (troppo dimenticata): forse mancano le grandi personalità proprio perché da un lato i grandi vecchi ripetono più o meno bene se stessi, dall'altro i giovani (in genere necessariamente bellissimi sul piano dell'aspetto esteriore, almeno nel caso delle donne) si adeguano ai concorsi e al mercato, mentre il pubblico non ha più (ma le ha mai davvero possedute su vasta scala?) la sensibilità e la cultura per poter giudicare in modo autonomo, e vive la musica più che altro come occasione mondana.

Nel caso di Carlo Forlivesi (che, partito da Imola, ha vissuto e composto ovunque, dalla Francia alla Danimarca, dal Giappone agli Stati Uniti all'Australia, fondendo lo spirito della ricerca contemporanea, postmoderna, postavanguardistica, con l'eredità ancestrale della tradizione, dalla musica antica europea a quella tradizionale giapponese, così sottile, complessa, e scontrosa), la provincia nel suo lato deteriore, proprio con il localistico e meschino isolamento culturale cui l'ha suo malgrado costretto, con le piccinerie le invidie gli ostracismi di cui l'ha contornato, l'ha fatto diventare più universale e più libero, pur (anzi proprio) costringendolo all'esilio. Eppure, alla terra d'origine non si può che continuare a guardare, da ogni angolo del mondo. 

(M. V.)

Vorrei raggiungere tutti gli amici questo Santo Natale con una letterina di auguri, ma mi rendo conto che anche questa volta arrivo in zona Cesarini slittando sopra una valanga di impegni tra quattro continenti. Mi affido dunque a queste poche righe gentilmente ospitate dal Direttore del giornale. E dunque, che questi auguri per un sereno Santo Natale e felice Anno abbraccino anche alcuni pensieri non solo per scambiarci informazioni su ciò che attualmente succede a noi e alle nostre famiglie, ma perché sempre più una certa crisi viene a toccare appunto proprio questa nostra serenità e felicità, per così dire, sia nostra sia dei nostri giovani virgulti.
La cultura nel nostro paese è entrata in crisi ben prima della crisi economica, e credo di non sbagliarmi se individuo la crisi della cultura proprio all'origine e radice della crisi economica. E' spesso stato così nella storia: crisi culturali hanno preceduto diasastri sociali, recessioni, guerre. E dunque mi sono trovato spesso a dover parlare in molte occasioni, accademiche e non in giro per il mondo di etica della cultura, e dunque a dover riflettere e confrontarmi con profondità sul problema. Quel'è stato il cancro delle cultura che poi ha invaso tutto il corpo sociale? Ecco in breve la risposta: la banalità. Banalizzare la vita, banalizzare la storia (e dunque anche il nostro essere presente), banalizzare l'educazione, banalizzare l'arte (che è lo starter dell'espressione dell'animo umano, scusate se è poco). Lo tsunami della banalità è vastissimo e devastante: non si lesina quando è il momento di parlare di personaggi dello spettacolo che si tirano caffé, che fanno incidenti con macchine di lusso, che fanno costosi shopping e via discorrendo. Tutto questo a livello di comunicazione viene chiamato tecnicamente "trash", ovvero spazzatura. Si dice che questa impronta l'abbiamo acquisita da altri paesi; forse si in parte, ma se non siamo stati capaci di prendere da questi la qualità ma solo gli aspetti deteriori, penso agli Stati Uniti per esempio, allora la colpa non può venire addossata ad altri ma ricade su noi stessi. Parafrasando un vecchio proverbio "Abbiamo preso solo l'acqua sporca e buttato via il bambino". Dunque, proprio di bambino il Santo Natale ci parla, un bambino divino da accogliere come rinnovamento del mondo e dunque di noi stessi. Un Natale non chissà dove ma qui, un rinnovamento non chissà dove ma nella città. Un rinnovamento che parta dalla cultura e dall'arte (il Natale è l'opera d'Arte di Dio diceva qualcuno), proprio come la crisi invece è partita dalla banalizzazione delle stesse. Ovvero non solo da concertini ed esibizioni che si spengono con lo spegnersi delle luminarie, ma dal sostegno sincero e reale all'espressione intellettuale, con speciale attenzione ai giovani. Oso chiedere in questo Santo Natale e nuovo anno, e prego che ciò che è successo a me a Imola in gioventù non capiti più ad alcun giovane, tanto più se talentuoso e pieno di voglia di fare. Qualcuno di forse "importante" diceva che ero un "ramo secco", altri affermavano la mia carriera finita prima di cominciare... Profezie viziose e da quattro soldi, chiaramente. D'accordo saper perdonare, ma è dovere constatare che non le nostre lingue (e malelingue) sanno come andranno le cose, ma solo il Signore che conosce l'intimo dei cuori. Invece prego affinché tanti giovani possano avere la fortuna di incontrare figure come quella di Don Ignazio Spadoni, tanto paterna da non lasciarsi intimorire dai giudizi viziosi, un cuore sincero senza servilismi. Sono tempi difficili e nel suo grande esempio sto cercando di tendere (e non semplicemente dare) la mano a molti giovani e meno giovani, che si trovano in difficoltà col lavoro musicale, proprio perché ho capito in prima persona cosa vuol dire cercare di essere "eliminato" da un mercato. Per fortuna il mercato culturale imolese è comunque minuscolo. Invece nelle grandi istituzioni estere sono stato poi valutato per le mie reali doti e impegno. Ho avuto la fortuna di essere chiamato da poco alla Sorbona di Parigi e all'Università di Kyoto, così come dalle Università americane; lì guardano a chi sei, qui non sarebbe stato possibile.
So che può essere umiliante chiedere aiuto, alle volte anche chiedere solo consiglio, soprattutto per chi ha effettivamente bisogno e ha perso parte di stima in se stesso e nelle proprie capacità. Stava succedendo lo stesso a me a Imola, proprio per le ragioni che sapete.
Dunque ora incontro persone di ogni cultura e credenza, cerco di assistere (non dico aiutare, perché è una parola troppo grossa e ingombrante) chi nella musica desidera vivere. Non sempre ci si riesce. Non sono un "barone" e dunque faccio quel che posso per dare una mano, con le mie forze e di chi mi è vicino; mi sono fatto stimare e rispettare in tutto il mondo da molti di buona volontà, e questa non è poca cosa e ne sono riconoscente. In un certo senso e' stata dolorosa ma edificante l'esperienza imolese della mia gioventù. Non è facile saper vedere il disegno positivo della Provvidenza in tutte le circostanze della vita, sia personale che collettiva. E difficile è opporsi a chi ha procurato, e procura, questi mali, ma per quelli confido nell'azione umile e potente del Santo Natale, che ci invita nuovamente a convertire i cuori e le menti.
Per essere una letterina mi sono già dilungato fin troppo, retaggio professionale.
Vi lascio dunque con una frase di Pavel Florenskij: "Niente si perde, né del bene né del male, e prima o poi si manifesta apertamente anche ciò che per un certo tempo, a volte anche lungo, rimane invisibile". Proprio come ci mostra il tempo del Santo Natale.
Auguri di cuore a tutti,


Carlo Forlivesi

martedì 18 dicembre 2012

Una conferenza di Giselda Pontesilli sulla "competenza dei poeti" tenuta alla Casa della Poesia di Milano

Sono qui per esporre un mio breve scritto, “La competenza dei poeti”, in cui sostengo che i poeti, in qualità di competenti, cioè di massimi conoscitori della lingua, possono -e debbono- agire per riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua degradata a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere, quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un cambiamento linguistico dei telegiornali.
I) Ma perché si dovrebbe agire proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo alla sua pubblicità, o ad altri suoi programmi?
Ecco, innanzitutto per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile, iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo dall'informazione.
Infatti, a differenza dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo, intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia necessaria per finanziare tutto il resto.
E riguardo agli svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si sostiene, altrettanto dogmaticamente, che c'è molta gente a cui piacciono e che dunque, proprio in nome della democrazia, del rispetto di tutte le opinioni, non si possano, anch'essi, toccare.
L'informazione è, dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare, soprattutto perché i poeti, quali specialisti della lingua, non chiederanno di cambiare i contenuti dell'informazione, bensì la sua non-lingua, il suo linguaggio.

Ma, ancora una volta:
perché non si dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del telegiornale?

Ecco, prima di tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso sbarramento di prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti, altri contenuti diversi, a seconda delle differenti mentalità, interessi, tendenze politiche ecc... Dunque, non ci sarebbe alcun accordo sull'azione da fare.
Poi, perché, correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne l'impostazione di fondo, il modo, lo stile, l'atteggiamento che contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i contenuti si modellano, e questo:
1) è un fine ben più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su cui tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione possono essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine specifico, intrinseco al compito del poeta.

Esaminiamo, dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico

http://nuovaprovincia.blogspot.it/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html

che sono sbagliati linguisticamente:

i singoli termini;
le frasi;
i contesti in cui le frasi sono inserite;
i rapporti tra le frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra le frasi e le immagini.

Esempi di singoli nomi sbagliati (cfr. “La competenza dei poeti”):
suggestivo” al posto di “raccapriciante”;
eminente” al posto di “efferato”;
immortalato” al posto di “inchiodato alle proprie responsabilità”.

Esempio di un tipo di frase sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di un fatto:
Un uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica ha accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di sangue per le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre all'addome) non singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza di soccorsi immediati”.
Ecco, questa frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti, attribuisce in definitiva la morte di questa persona a una sola causa, la causa materiale, che è una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se io dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che Socrate è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli, camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì, certo, per andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come dice egli stesso nel “Fedone”, da tempo quelle sue gambe sarebbero a Megara e non in carcere se lui avesse ascoltato quanti gli proponevano di fuggire e non la voce della coscienza, che gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi, la causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è un pensiero, una scelta.
Allo stesso modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o dell'omicidio di una studentessa da parte forse di suoi coetanei, non si può unicamente, ossessivamente insistere sui rilievi del DNA, sulle tracce organiche presenti negli indumenti, sull'arma del delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del decesso, sui frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe, istintivamente -direi- capire le cause principali, umane, intellettive.
L'errore si aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le frasi e i discorsi sono inseriti: le notizie riportate vengono disposte senza alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione, le une accanto alle altre, per cui si passa direttamente da una tragedia all'imminente uscita di un nuovo film, al dibattito politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo rende tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente, sordamente, anesteticamente normale.
Tanto più che tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la stessa espressione del viso, lo stesso ritmo.
E' chiaro che il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende moltissimo dalla prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora, nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché l' espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce, il ritmo, le pause con cui si danno le notizie sono sempre uguali, sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane complesse, dolorose, tremende.
Le frasi esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento, condanna, compatimento, simpatia) non esistono.
Le interiezioni sono abolite.
Tutti parlano in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui si parla possa essere trattato allo stesso modo.
Quando si sente un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io ricordo, per esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che doveva parlare di una truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo modo persino sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu un caso rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la cosa detta e il modo di dirla.
Generalmente, ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il modo di dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono con la stessa velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie, di calcio e di morti sul lavoro.
L'ultima incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si dice e le immagini che accompagnano la notizia.
Infatti, molto spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole sembrano sostenere.
Ad esempio, si parla di un processo penale in corso per l'avvenuto sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure, si denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico- la violenza e contemporaneamente si fa violenza, mostrando immagini sempre più brutali che diventano, proprio perché mostrate così, normali e “banali”.

In conclusione, noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una emergenza analoga a quella ecologica, disastrosa e catastrofica ancor più di quella; ci troviamo di fronte a una urgente rinnovata “questione della lingua”.
II) I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il Cinquecento, l'Ottocento, e il Novecento.
Nel '900, nel 1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta con una conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa conferenza su Rinascita.
Questa “nuova questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella cronologicamente a noi più vicina e ci è anche particolarmente vicina perché è la sola che affronti, come -secondo me- anche noi dobbiamo fare, il linguaggio televisivo.
Vale la pena ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia solo dieci anni prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a Milano.
Essa si deve principalmente al progetto di un gruppo di cattolici fortemente impegnati nel sociale (che si ricollegano alle teorie di Felice Balbo, alla rivista “Terza generazione” e al vivo dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo francese).
Tutti questi intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di “coltivazione intellettuale”, bensì come riscoperta di valori incarnati in una civiltà, come riappropriazione di un originario, comune, tessuto di valori e tradizioni, espressi in particolare nella “cultura contadina”; la TV sembra loro costituire finalmente il nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.

C'è quindi un intento pedagogico in questa prima televisione:
ci sono programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e differenze italiane -come ad es. “Campanile sera” che si propone di rivelare l'Italia all'Italia con la “sfida” settimanale tra due paesi diversi;
c'è una vera e propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”, con i documentari storici, con i “romanzi sceneggiati”;
c'è Carosello, un'altra invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare pubblicità”.
(Si tratta, insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni Ottanta, con l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento inconcepibili per la RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni pubblicitarie, con l'importazione dei prodotti seriali dalla tv commerciale americana ecc.)1

Eppure Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce e denuncia subito che il linguaggio televisivo in realtà è, in sé, la cancellazione di tutti i valori e di tutte le tradizioni umanistiche.
Altrettanto preveggente era stato il critico musicale Fedele d'Amico, che ancor prima di Pasolini, nel 1961, in un suo lapidario scritto, “La televisione e il professor Battilocchio”
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html, afferma che il linguaggio televisivo è, in sé, il contrario della cultura, perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”, mentre la televisione, “in qualunque programma si realizzi,” “rende l'uomo non pensante, passivo, docile, acritico”.
D'Amico perciò, in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre, in quanto entrambi si illudono di poter strumentalizzare la televisione, di veicolare, attraverso il nuovo mezzo, dei contenuti, i propri -ideologici- contenuti, e non capiscono che la televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di qualunque contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .

Pasolini chiama il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che “praticamente in televisione non può essere pronunciata nemmeno una parola in qualche modo vera”.

Dopo il suo primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi ristampato in “Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle sue risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si radicalizza sempre di più:
il linguaggio televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964- “la lingua della produzione e del consumo” “-e “non la lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito tecnologico” “ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane”.
Rimeditando, oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che lui sostiene in definitiva questo:
prima” -cioè prima della televisione, che è -lui ripete- “il più repressivo totalitarismo mai visto”,
non c'era, materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò, c'era una sostanziale unità linguistica, una unità addirittura transnazionale (c'erano civiltà -lui dice- “tutte molto analoghe tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri tanti volgari eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose, avevano analoghi, autentici valori etici, condividevano lo stesso senso della vita e della natura.
Con l'arrivo dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio unico (perché esso raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e tutte le case) ma finisce l'unità linguistica autentica e inizia l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico coatto, la riduzione di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la catastrofica “mutazione antropologica”.
In sostanza, quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?

Innanzitutto, c'è una visione apocalittica del presente (che provocò il suo sostanziale isolamento, come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e in effetti, diciamo, le loro drastiche posizioni non potevano essere accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della “ingenua”, ancora possibile speranza nella scienza e nel progresso);

Poi, c'è la consegna ai poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività” -come lui dice- della lingua, non estraniandosi però, non coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì facendosi carico, in qualche modo, del nuovo linguaggio subìto e coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da tutti;
già nel 1964, lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l'espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.

Infine, c'è il lascito, ai poeti -e a tutti- di un prezioso tesoro: l'appassionata coscienza, viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente, direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che l'unità linguistica vera non coincide con l'unità linguistica materiale (e quindi l'unità linguistica televisiva non è assolutamente di per sé una conquista culturale);
perché, la vera unità linguistica è quella sostanziale, di chi, pur esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la stessa lingua in quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua di “nobilissimo intendimento, d'Amore, di gentilezza, di potenza” che ci dice Dante.
Questa lingua vera, veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e in niun luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non consiste in parole, bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto virtù”2.

Ora, io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la questione della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla consegna, al mandato che Pasolini ha fatto ai poeti, sia valorizzandone e fondandone speculativamente al massimo la profonda coscienza della lingua.

Riguardo alla consegna di combattere per l' “espressività” della lingua “partendo” dal linguaggio televisivo, noi lo possiamo e -come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di ottenerne il concreto cambiamento.

-Oggi, questo è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo più negli

anni '60, bensì in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di riflessione ormai generale, ampia sui disastri morali e materiali del consumismo, della manipolazione della natura, dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare consenso, appoggio da parte di molti.

-Oggi, il modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di massa

è in crisi e quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua della produzione e del consumo”, come Pasolini definisce il linguaggio televisivo.

-Quindi, direi, che tutti, oggi, possono con relativa facilità capire che il linguaggio televisivo è disumanizzante, alienante, e possono mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come ci si mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la mafia, per il lavoro, per la scuola).

Riguardo poi alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora, è stata più autenticamente unita linguisticamente, cioè unita nella sostanza culturale, intellettiva, morale.

Penso che non possano esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel Trecento, con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Da loro, dunque, noi possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per ricomporre davvero un'unità, una cultura.
In che modo?
Innanzitutto, facendo come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui, opponendosi al proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto drastico, si è rivolto direttamente agli antichi, in modo vivo, urgente, vitale: non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si era perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.

Come ha fatto Petrarca con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e con Dante.

Possiamo considerare in modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E così scopriremo innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del tutto concordi e simili, non antitetici, come ci tramanda la critica letteraria. (Pasolini, in un saggio di “Empirismo eretico”, cioè “La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche lui, di somiglianza tra Dante e Petrarca...)

III) Dante è il primo che pone la questione della lingua, con il “De vulgari eloquentia”. Perché lo fa?
Perché -dice- vuole cercare “di giovare alla lingua della gente volgare” ;
perchè vede “come appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente necessaria”;
perché, infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun altro che sembra avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare”.

E' proprio quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo, rinnovato, aggiornato “De vulgari eloquentia”.

Anche noi dobbiamo cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”: questa lingua, però, oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio di tipo televisivo;

al tempo di Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e “veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La gente non era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare in un certo modo, parlava liberamente, naturalmente, la propria lingua naturale.
E Dante sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare, quella che apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è più nobile di quella letteraria, “grammaticale”, perché:
1) è la prima che sia il genere umano che i bambini usano (e cioè, prima, gli uomini, naturalmente, la parlano, poi, basandosi su di essa, elaborano quella grammaticale);
2) è fruita da tutto il mondo, benché divisa in tante forme e vocaboli;
3) la riceviamo dalla natura.

Che vuol dire quest'ultimo punto: è più nobile perché la riceviamo dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico da cui l'uomo non può mai prescindere.

-E' per questo, in definitiva, che Pasolini chiama “immensa” la cultura contadina, perché essa, che ha avuto -lui dice- “circa quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo esprimeva, lo rispettava-

Dante dice che il poeta, partendo da questo volgare naturale, lo rende illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è “l'apriori cui l'uomo è sottoposto”3.


Ora, noi non abbiamo più davanti a noi la lingua naturale della gente volgare, bensì un linguaggio, nato appunto dal non riconoscere più alcuna reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non manipolabile, alcuna norma, alcun oggettivo Logos.

Ma è proprio questa, oggi, la lingua della gente volgare: non-lingua, linguaggio imposto, inculcato, reso apparentemente potentissimo dalla tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi dobbiamo sollevare, correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta doveva fare con i dialetti naturali.

E perché devono fare questo, oggi, i poeti?
Perché -come dice Dante- non c'è nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono rispondere a questa estrema emergenza e necessità, altrimenti non sono necessari e, se sono -come oggi sono- emarginati, cancellati, è perché non assolvono al loro compito, che è quello di essere
una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.


Ecco, Dante dice questo della lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue l'opera con il suo ontologico umanesimo, che viene compreso, e diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come Dante scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina commedia”, ma anche dei trattati filosofici: il “De vulgari eloquentia”, il “De monarchia”, il Convivio”, così Petrarca scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri importantissimi trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda, rigorosa, meditazione filosofica: il “De ignorantia”, le “Invettive” , il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi, visto che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno, scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli, all'imperatore, al doge, al papa;
entrambi, prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al di là di ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal constatare quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non a caso, Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo biografo di Petrarca, lo definisce nella prefazione alla sua “Vita del Petrarca”, “l'uomo più grande del suo tempo”: l' “uomo”, non il “poeta”.
O meglio: il poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve essere strenuamente responsabile, moralmente, intellettivamente.
Per questo! Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche pensatori politici, e sono profondamente filosofi;
ma la loro conoscenza della filosofia è dimostrata non tanto da dotti ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro sostanziale riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il Vero, come ricerca, impegno morale, non come un oggetto, che si possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per aver fatto questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano stati gli antichi), “l'appello urgente alla nostra libertà affinché essa riviva per il suo stesso interrogarsi”.
Sì, in questo, oggi, noi li possiamo imitare.
Sì, perché nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo stesso Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”, il proprio discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la chiama- dice che essa utilizza contributi linguistici della sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma non nomina la filosofia.
E c'è un grande critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza davvero articolata, acuta di questi “difetti” della poesia italiana; in un suo saggio del 1962, “L'eredità di Leopardi”, Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di interrogazione profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una condizione negativa della nostra letteratura”;
e in un altro suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza nome”,
scrive che “sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si gioca, non si ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli intellettuali disposti a pagare per le loro parole, degli intellettuali disposti ad assumere in pieno la propria responsabilità”.

E dice anche: “L'Italia della Voce sembra sepolta per sempre...”

Ecco, io credo che oggi sia particolarmente urgente una, così intesa, “ricerca filosofica”.
E quindi, cercando di ricercare fino in fondo: qual è la pur sorda, pur inconsapevole, non più indagata, visione del mondo, che sta sotto l'informazione televisiva?
Io direi quella del positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti naturali, da indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi scopi che hanno le scienze naturali.
-Aggiungendo, che queste scienze naturali indagano la natura a partire da una concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola una macchina, inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni, mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e, ribellandosi, provoca;
-e aggiungendo in più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era Galileo, cioè non crede più di scoprire come le cose veramente sono, ma è congetturale, ipotetica, in quanto alla realtà, perché venga -come oggi si vuole- completamente dominata, non si può riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è ormai soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare l'uomo, a questo linguaggio televisivo, su quale visione filosofica ci basiamo, quale pensiero sottendiamo necessariamente, anche se non lo indaghiamo?
Ecco, lo dobbiamo sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo da questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un mistero evidente: l'essere.
E' almeno da Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato un cambiamento radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci sembra più tanto ovvio:
Hannah Arendt, in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei dice: gli antichi partivano da un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo stupore, thaumazein, di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte dal dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della vita”, il senso comune, l'evidenza più originaria (ma recependo così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi forse siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini lo stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di fronte al mistero, all'essere.
C'è una grande svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno già iniziato a fare: Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka (con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo “Platone e l'Europa”) e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro sono riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo, adeguato a noi, l'antico; è sorprendente con quale pazienza, sottigliezza, “eroismo della ragione”, Husserl, Patočka, (ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia considerato il massimo studioso di Patočka) riescano a trovare modi nuovi, adatti a noi oggi, cioè -oggi- inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci, di mostrare un senso che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato, problematico.
E di tutto questo lavoro, anche noi, con la nostra ricerca, possiamo essere parte.


1 Cfr. Leandro Castellani,“La TV italiana ha cinquant'anni”, in IL VELTRO, 3-4 anno XLVIII -maggio-agosto 2004, pag. 275-286
2Cfr. GinoScartaghiande, “La gloria della lingua”, in La parola ritrovata, Ultime tendenze della poesia italiana a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pag.153-161
3Ibidem pag. 153
4Cfr. Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si deve chiedere oggi ai poeti”, in La parola ritrovata, op. cit. pag. 128-131
5Cfr. Hannah Arendt, “Vita activa”, Milano, Bompiani 1966, pag. 203